La Fiera di Bologna è uno dei centri economici principali dell’intera Emilia-Romagna. Oltre alle enormi somme di denaro che entrano ed escono quotidianamente dalle casse di BolognaFiere, la Fiera è anche motore dell’economia bolognese e produce con il suo indotto una grande ricchezza economica per la città (basta pensare agli incassi degli alberghi o delle aziende di trasporti…).
Va detto che la presenza della Fiera condiziona pesantemente, e generalmente in negativo, la vita della città da altri punti di vista: basta pensare ai problemi di viabilità o a quelli legati all’inquinamento o al rumore.
Si tratta di un’azienda che, nonostante la concorrenza di altri poli fieristici (in particolare quello di Milano) continua ad avere enormi introiti e ad espandersi, come dimostra la costruzione progressiva di nuovi padiglioni.
Ma l’aspetto che qui ci interessa trattare è quello della Fiera come luogo in cui lavorano centinaia di persone, e quindi delle condizioni di lavoro di tutti coloro che lavorano direttamente o indirettamente per la Fiera.
Per BolognaFiere, che è recentemente diventata una S.p.A. presieduta nientemeno che da Luca Cordero di Montezemolo, lavorano circa 100 persone full-time e 200 con contratti part-time a tempo indeterminato. Vi sono poi altre 100-150 persone, in gran parte giovani, che lavorano in Fiera tramite apposite liste di riserva, con contratti a tempo determinato ma della stessa tipologia di quelli dei dipendenti fissi.
Quello di cui nessuno parla sono altre centinaia di persone che ruotano attorno alla Fiera, lavorando per aziende diverse da BolognaFiere e con condizioni di lavoro nettamente peggiori. Esistono aziende parallele come BFServizi (BolognaFiereServizi), di cui BolognaFiere detiene quote importanti, create appositamente per poter assumere a condizioni diverse da quelle a cui è costretta BolognaFiere. Altri lavori sono invece appaltati a cooperative come l’Operosa, attive anche al di fuori della Fiera e tristemente famose per lo sfruttamento selvaggio dei propri dipendenti anche in altri luoghi di lavoro bolognesi (ad esempio l’Ospedale S.Orsola). A queste categorie vanno aggiunti i dipendenti della security, più l’enorme business complementare rappresentato dalle varie mense e self-service, gestite dalla CAMST sulla base di logiche di profitto senza nessuna tutela delle condizioni di lavoro dei dipendenti.
Con questo lavoro di inchiesta e di denuncia abbiamo voluto esplorare varie facce del lavoro dentro o attorno alla Fiera di Bologna. L’ipotesi di partenza era che la strategia dell’azienda fosse quella di non attaccare direttamente le condizioni di lavoro dei propri dipendenti, ma di tentare di ridurne progressivamente il numero appaltando quante più mansioni possibile ad aziende “satelliti”, in grado di pagare meno i lavoratori ed abbattere quindi il costo del lavoro per l’azienda.
Dalle interviste che proponiamo emerge uno spaccato che non solo conferma questa ipotesi, ma rivela forme di lavoro semi-schiavistico che vanno oltre la più pessimistica delle previsioni.
Abbiamo scelto 4 interviste emblematiche: un dipendente di BolognaFiere (precario in quanto assunto a tempo determinato, ma per molti aspetti garantito e tutelato), un lavoratore dell’Operosa, uno della security e un ragazzo che ha lavorato per un fotografo legato a BFServizi. Da quello che ci hanno raccontato emerge appunto la faccia sporca e nascosta della Fiera.
Inchiesta a cura di STOP
Sportello Territoriale Operativo sulla Precarietà