La giornata per Anna Politkovskaja [a Bologna, il 10 febbraio] apre i lavori del pomeriggio carica di tensione: alle 14 riceviamo infatti una notizia Ansa che recita: «La polizia russa avrebbe arrestato 2 sospetti sicari per la morte della giornalista di opposizione Anna Politkovskaja. Lo sostiene il quotidiano Komsomolskaia Pravda ma la procura non commenta.
Decisiva sarebbe stata la collaborazione delle forze armate del settore spaziale. Dai satelliti avrebbero fotografato la zona dell'omicidio nel momento della fuga dei killer. Gli arrestati sarebbero ceceni».
Immediatamente traduciamo la notizia alla nostra ospite: Majnat Abdullaeva [vedi la nota biografica in coda a questo articolo]: 32 anni, giornalista cecena esiliata in Germania, viso candido e sguardo di ghiaccio, un'espressione seria che raramente si apre in un sorriso sereno.
La sua lettura dei fatti, dopo una breve consultazione di fonti rintracciate on line, è scettica, rabbiosa. «Il Presidente Putin è oggi in visita in Germania. Come dicevamo questa mattina la Germania è l'unico Paese occidentale che attraverso il proprio premier, Angela Merkel, ha fatto pressioni perché si facessero azioni per risolvere il conflitto in Cecenia. La notizia della cattura dei sicari di Anna in un giorno di visita ufficiale di Putin in Germania fa eco alla orribile notizia della morte di Anna avvenuta nel giorno del compleanno di Presidente russo».
Indignata, Majnat arroventa il suo intervento con una forte critica verso la comunità internazionale muta e cieca davanti agli orrori della guerra cecena. «La tragicità del conflitto sta, oltre che nella violenza assassina, anche nella situazione di isolamento e solitudine in cui la popolazione civile versa, dimenticata dagli Stati europei che fino ad ora hanno permesso che una feroce repressione sulla popolazione cecena andasse avanti seminando terrore nella vita di tutti gli abitanti: uomini, donne, bambine e bambini senza risparmiare nessuno. Una guerra - sottolinea amaramente - dimenticata anche dal movimento internazionale per la pace. Durante le manifestazioni contro la guerra in Irak ero ancora in Cecenia, guardavo alla televisione le immagini di milioni di persone sfilare per le strade di tutto il mondo parlando di pace... ma nessuno parlava di noi». Poi prosegue: «I militari commettono torture e violenze, la gente comune viene spiata attraverso i cellulari. Così si diffonde la paura e la diffidenza reciproca: la gente si isola nella propria disperazione ed evita ogni contatto anche con il vicino di casa. Chiunque può essere identificato come oppositore del governo.Uno dei metodi che usa la polizia è mettere in tasca ai ceceni droga o armi; per questo i ragazzi ceceni sono costretti a cucire le tasche dei vestiti. Conosco personalmente alcuni giovani che sono stati arrestati dalla polizia russa e mi hanno raccontato che sotto sequestro gli è stato chiesto: "per cosa volete essere arrestati, per detenzione di armi o di droga?". Oggi la guerra in Cecenia sta dilagando nelle repubbliche circostanti come il Daghestan, dove non passa giorno senza che ci siano azioni di guerra. Persino le autorità russe confessano che le situazioni di Daghestan e Inguscezia sono più preoccupanti che la Cecenia. La verità è che, fintanto che i russi continueranno ad agire in questo modo barbaro, non faranno altro che alimentare il circolo vizioso: violenza - resistenza -violenza. Secondo dati raccolti da associazioni per i diritti umani, più di un milione dei soldati russi sono stati in Cecenia a combattere. Molti di loro sono tornati a casa con problemi fisici e psicologici e hanno bisogno di riabilitazione. Questo argomento è tabù in Russia e non ci sono programmi e fondi; la conseguenza, di cui spesso non si parla, è che in Russia cresce la violenza commessa dai soldati che si sono abituati ad uccidere, violentare e che, tornati in patria, non riescono a smettere. I metodi impiegati in Cecenia sono gli stessi metodi che la Russia applica agli Stati vicini, che facevano parte dell'Unione Sovietica come la Georgia e l'Ucraina, rei di volersi orientare verso l'Europa Occidentale e rivendicare la propria autonomia statale. Non so se sapete che recentemente si è riacceso il conflitto tra Georgia e Russia. I russi hanno compiuto una vera e propria pulizia etnica e molti georgiani sono morti durante la deportazione perché non hanno ricevuto le assistenze mediche adeguate. I poliziotti russi arrivano a scuola, censiscono i bambini georgiani e poi da loro risalgono alle famiglie per espellerle dal territorio. Sono gli stessi metodi usati contro i ceceni all'inizio della guerra. Di tutto questo Anna ha scritto e per questo è stata uccisa. E' terribile che si sia dovuto uccidere Anna Politkovskaja perché si tornasse a parlare di Cecenia».
A una domanda sul fenomeno delle donne kamikaze Majnat risponde: «Una mia compagna di classe era una di loro, le hanno ucciso il fratello che era combattente, il fratello più piccolo è entrato nella resistenza per vendicare il maggiore. Di tanto in tanto veniva a casa per cambiare i vestiti, un giorno i soldati russi l'hanno portato via. Qualche giorno dopo hanno trovato i suoi resti: gli hanno messo dell'esplosivo addosso e lo hanno fatto saltare... lei ha fatto la stessa cosa. Un'altra donna che ho conosciuto è stata violentata sotto gli occhi del marito, quando hanno finito con lei lo hanno ucciso e hanno lasciato la donna con questi orribili ricordi. Sono donne sottoposte a violenze inaudite. La Cecenia è piena di queste storie, e la fabbrica che produce questo dolore è l'esercito russo. Tuttavia sono convinta che non bisogna parlare mai di vendetta; quanta violenza devo fare, quanto devo uccidere per ripagarmi delle violenze subite, della perdita della mia famiglia? Non si può ragionare così, al contrario bisogna agire concretamente, per esempio permettendo ai giovani ceceni di uscire dal loro Paese, studiare e imparare che cosa significa la parola pace».
All'intervento della Abdullaeva seguono due contributi sul tema dei diritti umani: Carmela Lavorato avvocata dei Giuristi Democratici ha affrontato il tema del femminicidio [cfr http://www.giuristidemocratici.it/what?news_id=20061005165857 ] inteso come pratica di violenza contro le donne. L'organizzazione sta lavorando a una campagna per il riconoscimento giuridico del femminicidio ma, come denuncia la Lavorato, l'impegno della comunità internazionale e quello della società civile sono ancora minimi. Affrontare il tema alla radice significa, prima di tutto, combattere le strutture ideologiche di stampo patriarcale che trovano sponda nelle istituzioni, introdurre questo tema nelle proposte di legge e nel dibattito nei mass media. La prova di questo vuoto istituzionale e giuridico è la totale assenza di tribunali dedicati al femminicidio e in generale alla violenza sulle donne, così come l'indifferenza dei mezzi di comunicazione che non propongono nessuna riflessione adeguata a riguardo.Il caso di Anna, pur nella sua specificità, è esemplare: la sua è stata una morte annunciata ma la comunità non si è mossa.
Giuliano Prandini, coordinatore per l'area della Federazione Russa di Amnesty International, confessa che il suo stesso incarico si è determinato purtroppo solo in seguito alla morte di Anna Politkovskaja. Nel 2001 Anna aveva vinto il Global Awards di Amnesty International per il giornalismo in difesa dei diritti umani ed è stata uccisa proprio perché la suo giornalismo era una missione.
Ora ci sono appelli rivolti a Putin, al Procuratore generale e al ministro dell'Interno russo dove si ribadisce che ogni cittadino ha diritto di partecipare ad ogni iniziativa in difesa dei diritti umani, e che il governo deve garantire ad ogni cittadino questo diritto [per firmare ai.emiliaromagna@amnesty.it ].
La domanda finale che ha segnato ogni intervento di questa lunga e importante giornata dedicata alla giornalista Anna Politkovskaja resta: cosa si può fare? Ed è un segno da leggere positivamente: sono state spese molte parole ma il risultato forse più banale ma non scontato è che qualche coscienza si è mossa, e se questo certo non cambierà il mondo almeno è la prova che conoscere spesso significa poter agire. L'Italia, come ricordava un intervento dal pubblico, è all'ottantesimo posto nella classifica internazionale per il diritto alla libertà di stampa, molte persone nel nostro Paese subiscono accuse di eversione [molto simili a quelle di terrorismo] solo perché cercano di fare giornalismo indipendente; lo denuncia un rapporto recentemente pubblicato sul sito http://www5.autistici.org/famigliabresci/materiali/dossier_repressione.pdf. Essere informati è un diritto ma è anche un dovere per tutti noi. Come cittadini dobbiamo difenderlo e rivendicarlo, perché i nostri mezzi di informazione come i nostri uomini politici di riferimento siano l'espressione di una società civile all'erta e consapevole, impegnata nella ricerca degli strumenti necessari all'azione politica dal basso.
Nota biografica su Majnat Abdullaeva. È stata vittima di minacce e ritorsioni violente. Sino al 2004 ha vissuto a Grozny; scriveva per la Novaja Gazeta, e collaborava con alcuni mass media stranieri come corrispondente locale. Autrice di un programma in lingua cecena della stazione radio Svoboda [Libertà], nel 2003 è stata finalista del concorso intitolato ad Andrej Sakharov Za zurnalistiku kak postupok [Per il giornalismo come azione] organizzato dal Fondo di difesa della trasparenza a Mosca. Majnat Abdullaeva ha continuato a lavorare in Cecenia fino a quando le minacce continue e tangibili rivolte a lei e alla sua famiglia non si sono fatte insostenibili. Majnat è ora inserita nel programma del centro Pen «Scrittori in esilio», fondato per dare sostegno a scrittori e giornalisti perseguitati per ragioni politiche. Vive in Germania da dove, in contatto con il proprio Paese, denuncia la tragedia cecena. I suoi articoli sono stati pubblicati da Le Monde.