La sfida: una nuova inchiesta soggettiva sulla composizione del lavoro in crisi

Cnh, report dal presidio [video]

Ripubblichiamo l'approfondimento di GlobalProject sulla vicenda della Cnh di Imola, presidiata da oltre due mesi dai lavoratori (uno in sciopero della fame) dopo l'annuncio della chiusura da parte del gruppo Fiat.
1 settembre 2009 - di Gmdp

Sole e troppo caldo per l'ultimo giorno di agosto in via Selice a Imola, provincia di Bologna sospesa tra il mare ed i colli del pignoletto.

Via Selice è la via delle grandi e note imprese dell'imolese: SACMI, Cefla, Infogroup, più in là Mercatone con la mega biglia dedicata a Pantani, appena fuori dal casello la CNH. Tecnologia e costruzioni, impianti enormi e microstrutture per l'odontoiatria. Percentuali bulgare per il PD e per le quote di mercato mondiale nei rispettivi settori di competizione.

Le prime hanno la proprietà pubblica (i lavoratori non partecipano agli utili in sè ma detengono il controllo della produzione, lo statement di Tremonti al rovescio), le ultime privata padronale o azionaria.

Imprese da 1 bilione di euro negli esercizi 2008, volendo dar delle stime.

Da mesi gli operai e le operaie di CNH lottano contro la chiusura dell'impianto che produce le macchine di movimentazione terra a brand "New Holland", visto che, dopo le solite avvisaglie (CIG con richiami, ferie obbligate, ponti indotti, ect.) praticamente nel 2009 non si è lavorato. I report video che pubblichiamo descrivono le tappe di questo collasso meglio di quanto potremmo fare noi.

Si lotta stando in strada 24 ore per sette giorni alla settimana dal 23 giugno, si resiste reclamando visibilità ed un tavolo di trattativa anche con lo sciopero della fame, come fa Guido, che da otto giorni non mangia, accampato nel camper in mezzo agli striscioni appesi all'ingresso sul retro.

Donne ed uomini, operai di una fabbrica in cui gli unici immigrati sono del nostro sud (la retorica dell'assalto dei migranti dal Canale di Sicilia non serve qua in via Selice), sbattuti su una strada dall'efficientamento delle linee industriali che impone di consolidarle su due soli stabilimenti.

Qua si dice che la chiusura dell'impianto è giustificata dalla FIAT dalla previsione di mercato che scommette sulla non ripresa delle vendite della macchine agricole. Come dire che nei prossimi anni si coltiverà di meno con una popolazione mondiale emergente e sempre più integrata nei processi di accumulazione capitalistica.

La spiegazione, forse, sta nell'utilizzo della crisi come leva per la riorganizzazione produttiva di reparti, stabilimenti, cicli produttivi. Quanto ripresa sarà, allora si assumerà o in Italia con contratti a termine - bene meno onerosi degli attuali indeterminati- o altrove. La crisi la paghino gli operai, semplice e diretto.

La FIAT di Marchionne è green, è worldwide, ma non tratta, non negozia, non riconosce una controparte organizzata collettivamente e che non ha la forza per imporsi.

La FIAT, quando si rivela, tratta ancora con la durezza padronale di Romiti nell' '80 e guarda i rapporti di forza tra le classi prima di decidere se sedersi e trattare. Altrimenti licenzia e ristruttura, as usual. La lotta di classe non è affare di educazione e morale, ma di potere e di esercizio della sovranità sull'eccezione.

La quotidianità cambia per rotture nell'era della crisi della governance globale. E sono schiaffi che arrivano quando il capitale in maglione girocollo blu, quello che parla di smart&green, fa la sua lotta di classe e la fa davvero.

Per chi vuole ci sono ricollocamenti individuali (ed un calcio in culo di 6000 euro lordi per accettarli e pagarsi il trasloco) verso Termoli, Modena o chissà dove il mercato delle opportunità tiri. E chi ha fatto il mutuo? E chi si è "integrato (schifosa parola del lessico dei padroni)?

Non sono problemi dell'azienda che compete per vincere.

Colloqui individuali, non trattative. Sessioni di outplacements, non discussioni. Nel frattempo FIAT ha trasferito di soppiatto le 1000 scavatrici del magazzino di Imola, non si sa mai che i Clienti arrivino e che gli operai blocchino i cancelli.

450 operai con mutui, famiglie, storie d'amore, sogni, prospettive o piani personali e magari collettivi sono in via Selice, per strada sotto il sole afoso dell''Emilia che va in Romagna.

Poche visite, alcune promesse, tante foto di rito. Hanno marcato il cartellino BersaniFassimoDamian-oMarino.

Sono operai senza alleati, sballottati in un mercato politico collassato dalla fine rovinosa della sinistra e disgregati da un mercato del lavoro produttivo che ha mutato la sua divisione internazionale.

Guido sciopera nell'era in cui lo sciopero non incide perchè non fa male ai padroni quando è pre- annunciato, gestibile con nuovi equilibri produttivi tra gli impianti diffusi in filiere produttive globali e rispetta il bon ton delle relazioni industriali. Guido, come altri lavoratori hanno fatto e stanno facendo, digiuna, si arrampica sui cornicioni, scala le gru, dorme sui tetti.

Guido è la crisi della forma sindacato e della tradizione operaia, anche qua nell'imolese. E sperimenta le difficoltà di portare i compagni e le compagne dei turni al presidio, la difficoltà di "far pesare" sul sistema la propria crisi, l'impossibilità ad assumere che pre-esista un'identità di classe che raccorda la vita dei suoi 450 colleghi e colleghe.

Ma se questo è, allora la cronaca non basta, non ci basta e comunque non permette di essere snobisticamente astratti nelle valutazioni politiche.

Guido rappresenta anche una sfida ed un opportunità per come stiamo nella crisi. Offre l'opportunità di provare a fare nuova inchiesta soggettiva sulla composizione del lavoro in crisi e di sperimentazione di nuove pratiche di lotta, di organizzazione, di ribellione nei territori contro la crisi del capitale.

Sono molti i Guido nei territori, ognuno consapevole dell'inefficacia della Tradizione quando diviene limite e coazione a ripetere e non accumulo di esperienze di parte operaia, valore d'uso che soggettivamente viene fatto circolare nelle lotte e per le lotte.

Pensiamoci e proviamo a ribaltare questo autunno di crisi in un laboratorio di lotte. Non devono vincere i girocolli blu, mai.

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