La rassegna stampa del 6 Agosto 2009

INNSE: seconda notte sul carro ponte [aggiornato]

Seconda notte passata circa "12 metri sopra tutto il resto". Sopra la polizia, sopra il presidio dei compagni, sopra le macchine, alcune delle quali già mezze smontate, ferite, quasi sfregiate da qualche pazzo in un gesto di invidia e follia. Ieri ci sono state le dichiarazioni di Genta, il proprietario. La rabbia è tanta. Durante la serata di ieri momenti di tensione tra operai e forze dell'ordine, nell'ennesimo tentativo di entrare nella fabbrica, per riprendersela, per farla continuare ad esistere, per "liberare" i compagni, lassù, su quella gru - è un carro ponte! - da molte ore, ormai diventate giorni.
"Si dorme male e ci sono le zanzare" - fanno sapere i 5 dall'alto - "ma non molliamo". "Non stiamo scherzando", gli fanno eco i compagni del presidio.
Rassegna stampa di oggi.
6 agosto 2009

Flash ore 16:00 / Rinaldini, segretario nazionale Fiom, entra nella fabbrica e fa visita ai 5 "gruisti". "Stanno bene, salutano il presidio, tutti i compagni".
Poi, il segretario della Fiom legge un comunicato in cui s'informa la stampa dell'avvenuto inoltro di una proposta d'interesse d'acquisto per l'INNSE: proposta che prevede continuità produttiva e occupazionale. Non è ancora noto il nome dell'imprenditore, della società o cordata firmataria della proposta.
Rinaldini lancia quindi nuovamente un appello alla Prefettura affinchè "fermi le operazioni di sgombero e smantellamento. La trattativa ha ora bisogno di tutto il tempo necessario"

Flash ore 13:00 / Dopo più di 48 ore in cima al carro ponte, tornano a parlare gli operai della INNSE dentro la fabbrica. "Se non otterremo una risposta, non ha senso aspettare quassù. Pensiamo ad una nuoca azione, ancora più eclatante". I 5 operai sono apparsi provati dalle condizioni estreme del loro "soggiorno".

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dal manifesto

La lotta degli operai della Innse prende quota. Davvero, non metaforicamente. Altro che Federico Moccia e i suoi «tre metri sopra il cielo». Quella è roba per quindicenni brufolosi. Qui, per dirla alla francese, «non si scherza un cazzo»: in gioco non c'è solo un amorucolo adolescenziale, ma il futuro di quarantanove operai e delle loro famiglie. E i metri sono almeno una dozzina. L'altezza del carroponte su cui da ieri mattina sono abbarbicati quattro lavoratori della fabbrica di via Rubattino a Milano insieme a un funzionario della Fiom.
Che siano determinati ad andare fino in fondo nella loro lotta lo hanno dimostrato già. Ieri lo hanno semplicemente ribadito. «Noi non ce ne andiamo». Punto, discussione non ce n'è. Hanno ragione. Lo sanno. E non vogliono arrendersi. Domenica si sono visti sgomberare con la forza dalla polizia, arrivata in massa per difendere le mire speculative del «signor» Silvano Genta. I lavoratori della Innse sanno cosa significherebbe per loro se dovessero essere ultimate le operazioni di smontaggio dei macchinari. Praticamente la fine della loro battaglia. Non ci stanno. Dopo quattordici mesi di lotta, un presidio permanente davanti ai cancelli della fabbrica, portato avanti giorno e notte, non può finire così. E ieri hanno giocato anche questa carta.
Non un blitz, come qualcuno ha detto e scritto. Che blitz è un termine militare. Buono per definire l'azione di forza compiuta domenica dalla polizia. Non quello dei lavoratori. Quello, semmai, si chiama «ulteriore tentativo di difesa dei propri sacrosanti diritti». Hanno beffato l'imponente schieramento di forze davanti alla fabbrica. E mentre il grosso dei lavoratori distraeva la polizia, alcuni di loro sono riusciti a intrufolarsi nello stabilimento. Sono saliti su un carroponte, una specie di gru alta una dozzina di metri. E da lì non sono più scesi. Determinati a passare tutto il tempo che serve a far valere i propri diritti: «Rimarremo quassù a oltranza, finché non ci sarà una trattativa vera, perché non si può smantellare una fabbrica di queste dimensioni», dicono da lassù.
Fuori dalla fabbrica, intanto, il presidio continua. Si montano gazebo per difendersi dal sole, si distribuiscono acqua e panini, si chiacchiera. Si fa gruppo. Una ventina di persone è arrivata fino alla stazione dei treni di Lambrate per fare un po' di volantinaggio, per far conoscere ai milanesi la situazione di una fabbrica storica della zona, che rischia di scomparire solo per l'ingordigia di uno speculatore senze troppi peli sullo stomaco. Ieri la Fiom ha organizzato due ore di sciopero degli operai metalmeccanici della fabbriche milanesi. E i lavoratori sono arrivati in via Rubattino da Milano, dai paesi della provincia, per dimostrare la loro solidarietà con i compagni in lotta. La segretaria milanese della Fiom, Maria Sciancati, fa spola, dentro e fuori. Dentro il capannone per assicurarsi che gli operai stiano bene, per portar loro acqua e cibo. Un pacchetto di sigarette. Fuori per tranquillizzare chi non può entrare nella propria fabbrica. «Là dentro fa caldo - dice - in cima alla gru manca l'aria, ma stanno bene, sono determinati a resistere», rassicura i compagni.
L'operazione ha portato comunque a un primo, parziale, risultato. Gli operai delle due ditte addette allo smontaggio dei macchinari si sono fermati. Lunedì sono riusciti a smontare la prima alesatrice. Ieri, poco o niente. Non basta. La richiesta è semplice: stop alle operazioni di smontaggio per tutto il mese di agosto, per dare tempo di aprire un tavolo di confronto vero e cercare una soluzione industriale alla questione. La Innse va rilanciata, non abbandonata nelle mani di chi ha a cuore solo il suo portafogli. In serata Aedes, proprietaria dell'area, ha fatto sapere di avere avuto un incontro con un imprenditore. «A livello assolutamente preliminare», precisa. Certo, nessun imprenditore sarebbe così pazzo da acquistare una fabbrica con davanti uno schieramento di polizia e i macchinari tutti smontati.
Per questo la Fiom insiste: «Devono essere sospesi immediatamente i lavori di smantellamento e ritirata la presenza delle forze di polizia. Va ripristinata la situazione precedente a domenica, ovvero un presidio dei lavoratori, almeno fino alla fine di agosto», dice Gianni Rinaldini. Nel pomeriggio arriva la risposta del prefetto: sospensione delle operazioni di smontaggio «per qualche giorno» e un incontro da fare coi sindacati lunedì per fare il punto della situazione. Troppo poco. «Chiediamo una sospensione vera perché una finta di pochi giorni non serve a niente», fa sapere Rinaldini. Che, con una lettera congiunta Fiom e Cgil, chiede anche che sia il presidente del consiglio Silvio Berlusconi a prendersi carico della faccenda, per «trovare una soluzione industriale e non speculativa».
I cinque entrati nella fabbrica non hanno intenzione di mollare, resteranno sulla gru finché servirà. I loro compagni, fuori dai cancelli, solidarizzano. Non abbandonano nemmeno per un minuto il presidio, instancabili. E il presidente operaio che fa? Oggi dovrebbe essere a Milanello per un vertice con Galliani e Leonardo per fare il punto sul mercato del Milan. Magari un salto in via Rubattino potrebbe anche farlo, ma nessuno ci crede.

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da liberazione

All'una di notte davanti allo stabilimento Innse di via Rubattino a Milano ci sono otto presidianti. E cento tra carabinieri, poliziotti e funzionari Digos. C'è anche un gatto solitario e due rumeni curiosi. I blindati sono almeno dieci e non manca una inquietante ambulanza intorno alla quale due poveri infermieri che talvolta scuotono la testa. Forse perché proprio non sanno dove mettersi, se dalla parte dei lavoratori o con l'esercito che li ha chiamati. I militari sono ovunque, persino nel boschetto semimetizzati che però li vedono tutti. Le auto in borghese della polizia fanno avanti e indietro per tutta la notte. E' un'altra pessima giornata per il contribuente italiano.
Un funzionario si avvicina ad una ragazza del presidio e con fare paterno attacca bottone. Quella, che avrà circa trent'anni e viene tutte le sere con il fidanzato, lo carica senza batter ciglio: «Fate schifo. Andatevene. Ieri (domenica, il giorno degli scontri, ndr) vi siete comportati come dei primitivi. Dì anche alla tua collega di cambiarsi l'abito, sembra la carta di un cioccolatino. Questo è un presidio, non una festa»: Gli animi sono surriscaldati, la resa dei conti è vicina e non è davvero il momento per conversazioni amichevoli. Ce n'é per tutti comunque. La solitudine operaia non fa sconti men che meno a Liberazione e a Rifondazione. «E' anche grazie all'esperienza del governo Prodi che siamo ridotti così e quindi anche a voi. Dovete tornare con gli operai, parlare della crisi. Lo fate adesso che le fabbriche chiudono!».
Via Rubattino durante una notte di presidio è un deserto lungo un chilometro in cui si può accedere solo a piedi perché la strada è bloccata da due pattuglie. Davanti all'ingresso della Innse ci sono tre tende, qualche bici, una bandiera rossa - una - cinque sedie, pochissimo cibo, qualche bicchiere ancora sporco di vino. E' un presidio ridotto all'osso. A destra del cancello di ingresso della fabbrica un enorme murales che recita "giù le mani dalla Innse". A sinistra "Viva Stalin". In mezzo le truppe del ministro Maroni, espressione governativa del partito che si dice dalla parte degli operai.
Il tempo passa, la notte è tranquilla. D'altronde cosa dovrebbe succedere? Alle tre sono rimasti in due, che si mettono a dormire. Poco lontano quattro poliziotti si confrontano sul nocciolo della questione: «E' proprietà privata - fa uno - il padrone ha diritto a licenziarli». E l'altro, un compagno: «Ma quando mai? Vorrei vedere se tu non protesteresti!».
Non sono gli operai della Innse che passano la notte al presidio. A questi la notte serve per riposare perché durante il giorno le energie devono essere fresche per dare battaglia, anche fisica. Così, in queste silenziose ore notturne i pochi che sono presenti sanno di essere un simbolo importante che resiste perché piccolo sì, ma organizzato con metodo. Cosa che sta creando simpatia diffusa e voglia di unirsi alla lotta anche tra chi direttamente coinvolto non è.
Bruno Casati, ex assessore della Provincia di Milano del Prc è forse colui che meglio conosce questa situazione: «Siamo di fronte ad un speculazione privata, ma non ancora di tipo edilizio. I tempi non sono maturi a mio avviso. Purtroppo la situazione si è aggravata perché non esiste più un freno a sinistra in Lombardia da quando è caduto Penati. Questa regione è quindi un esempio per l'autunno caldo che verrà. Tutto il potere è nelle mani della destra confindustriale che non esita a mandare i soldati. Ora trovare una soluzione a questa vicenda è davvero difficile, i lavoratori non possono che fare affidamento su loro stessi e sulla Fiom»:
Roberto, nome di fantasia, alle due di notte non si impressiona di fronte allo schieramento di forze: «Sono quattordici mesi che siamo qua e certo non mi spaventano cento soldati. Io comunque so solo una cosa: i macchinari che stanno smontando anche adesso da questa fabbrica non usciranno mai. Stasera non succede nulla, ma domani... domani sarà un altro giorno». E infatti fin dalle primi luci dell'alba si vede che l'andazzo non sarà affatto tranquillo. Arrivano da ogni dove ragazzi, operai e famigliari, sembrano delle formiche che rientrano nel nido.
Alle nove del mattino duecento presidianti fronteggiano le truppe. I militi si bardano da far paura. Gli operai li fronteggiano senza però muoversi. Un momento di tensione e lo scontro diventa inevitabile. Davanti al cancello da cui un tempo entravano migliaia di lavoratori sono schierati tre file di poliziotti con il casco blu: sembrano tanti play mobil. Qualche spintone e molte urla.
Ma la fabbrica è enorme e saltare dentro non è un problema; qualche manifestante scavalca un muro ed entra dentro e qui in quattro si arrampicano su un carro ponte. Minacciano di buttarsi di sotto se non verrà aperta un trattativa vera. Da sopra la gru gli operai vedono altri operai arrivati da fuori che stanno smontando i macchinari venduti. Poveri contro poveri. I "loro" macchinari, quelli che per quattordici mesi hanno difeso con le unghie e con i denti.
Dall'alto urlano a quelli di sotto di fermarsi: lo fanno. Arriva Rinaldini, entra dentro la fabbrica incontra i presidianti appollaiati pericolosamente a dieci metri di altezza.
Lo smontaggio è sospeso, per un paio di giorni, ma nessuna nuova trattativa. Fuori dallo stabilimento intanto i contendenti tornano ognuno sulla propria trincea e si fronteggiano a muso duro. Sono arrivati altri militanti, sindacalisti, operai in ferie, ragazzi dei centri sociali. Ma rimanere lì davanti a guardare in cagnesco i poliziotti non serve a molto. Meglio una strategia alla "cane pazzo", meglio puntare verso il centro città. Parte così il corteo diretto verso le vie chic di Milano e magari anche verso la stazione. Non sono tanti e sono circondati da decine di poliziotti-robocop. Ma nessuno li ferma. Arriva anche Cremaschi che per prima cosa plaude al coraggio dei lavoratori che sono saliti sulla gru: «Il sindacato ha formalizzato alla Prefettura tre precise richieste: la cessazione dello smontaggio dei macchinari almeno per agosto, l' apertura di un tavolo tra istituzioni, proprietà e lavoratori e l'allontanamento delle forze dell'ordine dalla fabbrica. La Prefettura si è riservata di dare una risposta». Ma la situazione non è di semplice gestione. Gli operai sono pochi, la città che potrebbe solidarizzare è in ferie... La sensazione è che manchino fisicamente le forze per tenere duro alla voluta strategia repressiva attuata. E per questo tutti i presidianti, le loro famiglie, gli amici invitano coloro che non vogliono vedere l'industria del paese smantellata pezzo dopo pezzo alla solidarietà e alla lotta se necessario. Alle sette di sera la situazione è senza sbocco. I quattro sono determinatissimi a non scendere. Il tavolo chiesto non viene riconosciuto e il governo tace, così come tutte le istituzioni lombarde. Cala la sera. I quattro rimangono ben ancorati al loro carro ponte. Gli vengono portati panini e notizie non incoraggianti sulla trattativa. «Bene, rimarremo quassù a oltranza» è il commento. E mentre quelli resistono lassù gli altri preparano nuove mosse per oggi.

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da repubblica

Seconda notte a venti metri d'altezza per i cinque operai della fabbrica di cui vogliono impedire lo smantellamento. Ieri fallite le mediazioni: "Si dorme male e ci sono le zanzare, ma non molliamo".

MILANO - Seconda notte sul carro ponte a venti metri d'altezza per i cinque operai della Innse. Nessuno intende mollare: per telefono (dal momento che le forze dell'ordine hanno vietato anche ai sindacalisti di entrare nel capannone) i cinque fanno sapere che lassù non è pericoloso, ma certo non è comodo: "Dormiano male e solo a turno e c'è pieno di zanzare". E temono anche che qualcuno decida un atto di forza, di tirarli giù dalla grande struttura (come un terrazzo mobile, giallo e dotato di parapetti che attraversa tutto il capannone) per chiudere una vicenda che sta diventando un simbolo della crisi.

Ieri doveva essere il giorno decisivo, quello che sbloccava la situazione. E invece il quadro è ancora più duro: "Noi non scherziamo", giurano le tute blu della Innse mentre fuori cresce la tensione tra manifestanti e forze dell'ordine, più volte a contatto, e si alza ancora di più quando si diffonde la reazione del proprietario della fabbrica, Silvano Genta, che taglia corto: "Con voi non tratto".

Non mollano, dunque, i quattro operai della fabbrica metalmeccanica in liquidazione a Lambrate, periferia est di Milano, che assieme a un funzionario sindacale martedì hanno raggirato la sorveglianza del cordone di forze dell'ordine all'ingresso per intrufolarsi nello stabilimento e arrampicarsi su un carro ponte.

E non si ferma la protesta contro lo smantellamento - avviato domenica e sospeso martedì con l'irruzione degli operai - di sette macchinari già venduti a due distinti acquirenti (Mpc di Santorso e Nuova Lombardmet di Arluno) dall'attuale proprietario, il commerciante di rottami torinese Genta. Che ieri, per la prima volta da quando il caso ha raggiunto l'apice della tensione, ha replicato agli attacchi di voler speculare sulla pelle degli operai, lanciando forti accuse, in particolare, alla Provincia di Milano gestione Penati: "Sono io la vittima di questa situazione sono stato abbandonato dalla Provincia che non ha rispettato i patti".

Genta si riferisce al 2006 quando comprò il reparto presse dell'ex Innocenti Santeustacchio, a suo tempo commissariata, a 700 mila euro. Ma ad alcune condizioni: "Il trasferimento dell'azienda in un'area più piccola - precisa - e la riqualificazione della metà degli operai da parte della Provincia. Ma nessuno ha mosso un dito, e io mi sono dovuto arrendere, rimettendoci sei milioni. Altro che gioiellino produttivo: la Innse cade a pezzi con macchine risalenti al Piano Marshall".

Mentre Genta si dice pronto a ricollocare tramite aziende di sua conoscenza 13 operai e a dare un incentivo economico a 25 di loro vicini alla pensione, l'ex presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati respinge ogni accusa: "Dietro questa vicenda c'è la volontà da parte dell'azienda di smobilitare l'attività industriale per il riuso dell'area a fini immobiliari".

Sul carro ponte, si diceva, arrivano cibo e acqua, ma nessuno può entrare per parlare con gli uomini lassù: "Una misura di scontro per indebolirli e farli sentire soli", attacca Giorgio Cremaschi, segretario nazionale della Fiom-Cgil presente al presidio fisso, e in serata contestato anche dai manifestanti per essere intervenuto tardi nella questione. "Se non si trova un imprenditore che se ne faccia carico, non mi sembra male l'idea di darla agli operai" aggiunge il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti. "Si tratta di una vicenda trascurata. Un'azienda abbandonata da oltre un anno. Che invece non può essere trascurata, per non buttare via la sua enorme capacità produttiva".

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da repubblica

Il monumentale tornio Niles largo 12 metri è ancora lì, sotto il carro ponte con i cinque operai.

Lo «scempio», come lo chiamano loro, gli operai ammutinati dell’Innse, si manifesta nella calura ferrosa del capannone, poco dopo l’ingresso, sulla sinistra. Un cumulo di carter, gli involucri metallici che coprono i tubi delle macchine e dell’olio, catene per la raccolta dei trucioli di limatura, bulloni e altri pezzi sparsi addossati a un muro. La gloriosa 147,5 — è un’alesatrice, una macchina che esegue fori con precisione millimetrica — i tecnici incaricati da Genta dello smontaggio hanno cominciato a svestirla pezzo per pezzo, rendendola nuda e sterile, inservibile: umiliata nella sua ragion d’essere, l’attitudine a produrre. «Se la guardo mi viene voglia di scendere giù e... », non finisce di parlare, Fabio, arroccato sul carro ponte giallo, in cerca di un riparo dal sole che filtra dalle finestre pochi metri sopra di lui. «Avevano cominciato a cannibalizzarla», dice.

Per questi operai le macchine hanno come una carne e un’anima ed è questo che conferisce un’aura speciale, come se chi le difende le avesse umanizzate, una sorta di alienazione al contrario. Quelle che sono state risparmiate dallo smontaggio — quasi tutte, a parte la 147,5 e il tornio verticale Carnaghi, al quale è stato asportato il plateau — stanno fiere e mute nelle tre campate che dividono l’i mmenso capannone, 25mila metri quadrati di superficie.

La rettifica per gli ingranaggi, alta dieci metri, resiste nella sua cabina a temperatura costante, con tutta l’attrezzatura (micrometri, calibri, eccetera) per il controllo tridimensionale della dentatura degli ingranaggi. Quasi sotto il carro ponte su cui si sono barricati i cinque, invece, riposa il monumentale Niles: gli operai chiamano così, con l’elegante nome di fabbrica, il grigio tornio verticale dal diametro di dodici metri, uno dei gioielli dell’azienda, che perfeziona ogni rotondità metallica.

In Europa di macchine così, capaci di lavorare pezzi fino a quattordici metri di diametro, se ne contano sulle dita di una mano, dicono. I lapidelli, invece, trasformano ogni rugosità in superfici a specchio. La millimetricità della precisione di queste macchine, la capacità di trasformare rozzi metalli in affilatissime lame, sono l’orgoglio degli operai della Innse, che magnificano anche le capacità delle alesatrici di lavorare pezzi pesanti tonnellate.

Il silenzio immobile delle bestie meccaniche è rotto dal clangore dei ferri su cui sbattono i cinque operai sul carro ponte, che dopo una notte sulla gru cominciano ad accusare i primi segni di stanchezza. «Basta, basta», urla uno di loro a intervalli costanti. Chissà quanto resisteranno i montanti, gli alberi, le dentatrici verticali e orizzontali, le frese e il tornio verticale Schiess, dal nome che evoca la formidabile ingegneria teutonica e una scienza della produzione che gli operai continuano a venerare come un mito ancora prodigioso, sebbene inattuale.

Chissà quanto reggerà Fabio che, seduto sul carro ponte, si chiede se valga la pena lottare un anno e mezzo per poi tornare — «perché prima o poi qui ci rientro» — a lavorare a 1.200 euro al mese, «perché questa è schiavitù». Tutto per evitare che questi venti macchinari che plasmano il metallo con programmi informatici infallibili e in un’infinità di profili, un giorno si riducano a un mucchio di rottami.