Larnaca, isola di Cipro. All'hotel Sunflower arriviamo alla spicciolata, da paesi diversi ma con una speranza comune: sbarcare a Gaza. Spagnoli, greci, inglesi, danesi, statunitensi, australiani, irlandesi, siamo in tutto una trentina di persone, medici soprattutto, ma anche giornalisti e attivisti per i diritti umani: è questa la ciurma di assalto che partirà domani in direzione della prigione israeliana a cielo aperto, per portare qualche tonnellata di aiuti e medicinali, ma anche un segnale di solidarietà ad una popolazione civile stremata dai bombardamenti, dalle stragi e dall'assedio.
Rompere l'assedio e violare il blocco navale, per rompere il muro di indifferenza e di silenzio che separa con sempre più distanza la nostra Europa e il massacro di un popolo che scivola nelle nostre sicure case d'occidente tra una notizia sull'andamento dei saldi invernali e il lancio della prossima edizione del "Grande fratello".
Le stragi di innocenti e le montagne di cadaveri, non sembrano scuotere l'ignobile logica dell'equidistanza tra un popolo martoriato e un esercito d'occupazione, tra chi devasta e stermina un popolo e un popolo che cerca di resistere.
Non c'è nessun pregiudizio ideologico nella nostra azione, invece di Gaza potevamo sbarcare a Tel Aviv se Israele fosse interamente occupata militarmente ed un milione di ebrei costretti a vivere in campi profughi, rinchiusi in pochi chilometri senza possibilità di entrare ed uscire da Tel Aviv, con carri armati e cacciabombardieri che colpiscono con sempre più violenza le loro case, le loro teste e pochi ultraortodossi che rispondono con il lancio di qualche malandato razzo anticarro.
Ma la verità purtroppo è ben altra, con un popolo palestinese che grida la propria disperazione e i governi occidentali che continuano a far finta di non sentire. Sull'ipocrisia dei governanti ci si può adagiare, volgendo lo sguardo altrove o cambiando canale al momento opportuno.
Ma contro l'ipocrisia ci si può anche ribellare.
La nostra unica arma sarà un barcone, una nave un po’ squattrinata che ad occhio e croce è una via di mezzo tra le attrezzate navi di assalto di Greenpeace e i barconi degli immigrati che arrivano a Lampedusa.
Il viaggio durerà 22 ore nella migliore delle ipotesi, poi arriveremo al blocco della marina israeliana, un blocco che viola sfacciatamente le norme sulla navigazione in acque internazionali e si arroga il diritto di incarcerare anche il mare.
Abbiamo già comunicato alle autorità il nosro programma di viaggio, la rotta che seguiremo, il carattere umanitario della missione; alla partenza la polizia cipriota provvederà a prendere le nostre generalità e perquisire il mezzo, per verificare che il nostro pericoloso carico è composto solo di garze, bisturi e medicinali vari.
In caso di diniego da parte della marina militare israeliana, continueremo la rotta prestabilita, comunicando via radio la nostra determinazione ad arrivare a Gaza per scaricare gli aiuti e il carattere illegale di qualsivoglia intervento violento teso a fermarci.
Del resto il serbatoio della nave non contiene sufficiente carburante per effettuare un eventuale viaggio di ritorno ed anche per questo a Gaza dobbiamo necessariamente sbarcare.
Il modulo che gli organizzatori della missione, il Freegaza movement, ci hanno consegnato riporta nell'ultima pagina la dicitura in inglese "generalità e riferimenti per la consegna degli effetti personali in caso di morte".
Iaon ride mentre osserva il mio sguardo inorridito alla lettura di questa e altre domande "inquietanti". E' un chirurgo greco che ha visto la morte in faccia più volte durante la dittatura dei colonnelli e oggi ha ancora la forza, malgrado l'età avanzata, di affievolire con una risata le preoccupazioni di chi ha trovato dentro di sè la forza di reagire all'indifferenza, ma non alla paura.
Lui è sicuro che tutto andrà per il verso giusto: arriveremo a Gaza. Perchè loro possono anche schierare portaerei, incrociatori, corazzate o cacciatorpedinieri, ma le loro armi non possono fermare il nostro sogno di libertà, il nostro carico di pace e di solidarietà.
Francesco Caruso