Quanto accade a Gaza, quanto è accaduto a Bologna a difesa del popolo palestinese, e quanto pavidi Pastori ci comunicano, ci fa dolorosamente constatare che il tempo che viviamo genera un grande turbamento per la religione cristiana, ne provoca forti disagi e la sua teologia e la sua morale risultano continuamente sfuocate, quasi estranee agli stessi fedeli e lontane dal modo ordinario di pensare gli eventi e di relazionarsi all’esistenza.
Certe figure magisteriali appaiono così staccate dai vissuti e dai contesti di riferimento da far apparire il cristianesimo veramente spaesato, senza dimora, appunto estraneo agli uomini e alle donne del nostro tempo: esse gridano allo straniero ma sono come forestieri che cercano casa.
Anche le parole, i gesti, le ritualità suonano come una lingua straniera, e credere diviene ogni giorno più difficile in un mondo che, tra l’altro, vuole cavarsela senza Dio. Anzi verrebbe da dire, dalle reazioni istintive a questa estraneità, che in verità non siamo mai stati cristiani.
E allora tutto lo si fa diventare sfida di identità e lotta di sopravvivenza, rendendo perciò difficile uscire da ogni forma di irrigidimento dogmatico o morale della propria verità, da ogni difesa autoreferenziale dell’istituzione ecclesiale o religiosa e nessuno si sente pronto ad accogliere la sfida, vera, di un confronto aperto con le culture del nostro tempo e con i nuovi popoli raccolti.
Si travisa lo sguardo di Gesù, quello sguardo che invita a riconoscere la presenza dell’amore di Dio con inedito coraggio e a mettersi di nuovo in ascolto del Vangelo, come se fosse la prima volta o come fosse stato appena partorito proprio per i cercatori di Dio del terzo millennio; quello sguardo che vuole indicarci una via altra, che potrebbe trasfigurare la sfida alle presunte regie occulte o alle menzogne palesate e tracciare una via che sappia inventare nuovi spazi di ospitalità e di dialogo alimentando un cristianesimo che sappia alzare la voce contro i potenti e prepotenti di questo mondo, e ponendosi nel cammino di chi soffre, di chi è povero: senza ritenere Dio un accessorio della propria autorità, né un dovere, bensì un desiderio profetico d’amore il cui volto ci è stato consegnato dall’esperienza umana del Cristo, colui che ci ha insegnato ad essere uomini e donne senza frontiere.
È lo sguardo dolce e intenso del Dio di chi crede e di chi non ce la fa a credere, dei cristiani e degli islamici, di chi è regolarmente sposato e di chi ha subito la lacerazione dell’amore, di chi è solo e di chi vive insieme ad un amato, di noi e di chi non è della nostra parte politica.
È il Dio di tutti e a chiunque lo cerchi con cuore sincero palpiterà e si dilaterà il cuore, l’unica garanzia di pace.
Può, allora, una preghiera al Dio di Abramo e all’antico Dio degli eserciti, su una piazza che ha raccolto tante malattie dell’anima, allarmare o creare pasticci? Il primo servizio del cristiano non è forse il saper ascoltare, e conoscere che la Persona viene prima della verità?
Qualcuno non si accorge che nel recinto delle identità è rimasta una sola pecorella e che le altre novantanove sono state aiutate dal Dio di tutti ad uscire per trovare i luoghi del cuore?
Monsignore … mio Signore!