Peggio del '67 per effetto dell'embargo

Gaza: il punto più basso

Un'indagine condotta da otto ONG attive nella striscia di Gaza definisce drammatica la situazione in cui versano i suoi abitanti. Mai tanta miseria, determinata in primo luogo dalla chiusura dei valichi imposta da Israele.
8 marzo 2008 - Piero Loi

Mai come ora. In un dossier palestine
diffuso giovedì alcune organizzazioni non governative, tra cui Amnesty International Gb e Save the children, affermano che «La situazione di un milione e mezzo di palestinesi nella Striscia di Gaza è la peggiore dal 1967», dall'anno in cui l’ IDF (Israeli Defence Forces) ne occupò il territorio.
Affamata dal congelamento degli aiuti finanziari europei e statunitensi prima, stremata dal blocco imposto dagli israeliani poi, la popolazione di Gaza precipita nel baratro.

Oggi, spiega il rapporto, una famiglia spende in media il 62% del proprio reddito per mangiare e l’80% delle famiglie deve ricorrere agli aiuti umanitari per sopravvivere. Questo vuol dire che la percentuale di chi fa affidamento sulle “razioni internazionali”, in appena due anni, è cresciuta del 17% a fronte di una spesa per i beni di prima necessità raddoppiata rispetto a tre anni fa. I prezzi di riso, grano e latte, ad esempio, hanno registrato incrementi rispettivamente del 20,5%, 34% e 30%.

E’ soprattutto la chiusura dei valichi imposta da Israele a determinare la miseria attuale. Basti pensare che prima del blocco transitavano circa 250 camion-merci al giorno mentre oggi, quando le frontiere sono aperte, ne passano appena 45. Del tutto insufficienti a soddisfare i bisogni dei palestinesi. Tornano pertanto alla mente le centinaia di migliaia di palestinesi che a fine Gennaio attraversarono il varco di Rafah, non appena fu aperto dalla dinamite, come dimostrazione tangibile delle sofferenze di un’intera popolazione. Come evasione da un carcere a cielo aperto.

Il dossier prosegue riportando altri dati utili ad inquadrare l’attuale situazione economica e le sue ricadute: a Gaza il livello di disoccupazione supera il 60% anche perché il 95% delle attività produttive è fermo al palo per mancanza di materie prime e di forniture costanti di energia elettrica. La carenza di corrente, insieme alla mancanza dei medicinali, limita pesantemente anche le attività ospedaliere, i macchinari non funzionano. In molti casi il personale sanitario è del tutto impossibilitato ad offrire i normali servizi. Meno che mai ad intervenire efficacemente quando le loro corsie vengono affollate da quanti hanno ricevuto i proiettili e le bombe di Tsahal.

L’embargo è tale anche per le medicine. La punizione collettiva a cui è sottoposto il milione e mezzo di abitanti di Gaza assume quindi un carattere ancora più efferato. Non a caso il ministro laburista della difesa Matan Vilnay dichiarava appena pochi giorni fa “sarà una shoah ancora più grande”. Gli faceva eco due giorni più tardi, sempre alla radio, Zvi Vogel, ex capo di stato maggiore del comando della regione di Gaza quando affermava “Per ogni nostro ferito colpiamo mille di loro”. E purtroppo non c’è ragione per non crederci: direttamente, con un uso sproporzionato della forza come è avvenuto di recente nella battaglia di Gaza o indirettamente, con l’embargo che secondo Tel Aviv servirebbe a fermare il lancio dei missili qassam, Israele persegue e raggiunge questi obiettivi. In poco più di tre giorni ne hanno ammazzato 120 e ferito 300.

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