Ieri mattina al teatro San Leonardo eravamo molti per salutare Mario Zanzani che se n'è andato come suol dirsi all'altro mondo un paio di giorni fa domenica all'alba.
Di Mario ho pochi ricordi o molti non so. Tutti lievi tutti profondi.
Due mi vengono adesso alla mente.
Nell'autunno del 1969 andavamo insieme a Milano in via Gustavo Modena 59 dove si facevano le riunioni della redazione del giornale Potere operaio. Si maneggiavano parole capaci di mettere in moto valanghe, ma Zanza era maestro dell'understatement e nulla era troppo grave per rabbuiarlo.
Nella primavera del 2005, in un'altra galassia ma con la stessa leggerezza di astronauti dell'assurdo ci siamo visti nella cucina di una casa in via Remorsella. C'era Stefano Scodanibbio che suonava il contrabbasso dando la schiena al lavello. Io e Billi stavamo seduti su due sedie, e Mario appoggiato al frigorifero leggeva in accompagnamento al contrabbasso.
Leggeva una poesia di Sanguineti, un poeta che non sempre mi piace, ma quella volta la sua poesia che non ricordo il titolo parlava di un signore che si ferma in una stazione in attesa tra un treno e l'altro e nell'attesa legge qualcosa e si sente fuori posto e si rende conto che tutto è successo e nulla è successo, ma quel che è successo è per sempre.
Mario Zanzani era maestro d'ironia.
Maestro nell'esserci anche quando non ci siamo.
E soprattutto maestro del non esserci anche quando siamo proprio costretti ad esserci.