Bologna 28/04/97
Cari compagni,
scrivo perché è la Forma, che per quel che mi riguarda, riesce a dare meglio l’idea del dolore, della rabbia e della tristezza che provo all’indomani dell’assassinio dei guerriglieri Tupac Amaru, autori dell’incursione nell’ambasciata giapponese di Lima.
Scrivo a voi perché apprezzo il quindicinale che fate e le iniziative ad esso collegate.
Al di là delle parole di condanna che altri, meglio di me riusciranno ad esprimere, vorrei sottolineare un particolare che mi ha colpito. È lo sguardo di Nestor Cerpa Cartolini, il Ucciso, fotografato dietro le inferriate di una finestra dell’ambasciata.
È uno sguardo serio e composto, pieno di malinconia, di grande e antica dignità che fa da contrappeso alla feria, altrettanto antica, degli imperialisti bianchi in America Latina.
Uno sguardo fiero e consapevole. Occhi fissi che guardano lontano e vedono l’approssimarsi della fine.
Uno sguardo buono e onesto, incapace di infierire sulle persone prese in ostaggio nemmeno nell’ultimo istante in cui tutto è perduto.
Uno sguardo stanco ma eroico, che nei contorni di quelle inferriate coi riccioli assume un aspetto magico e quasi divino.
Uno sguardo che chiede giustizia, per i compagni detenuti nelle carceri in condizioni a dir poco disumane e per quell’80% circa della popolazione del Perù sotto la soglia di povertà.
Questo sguardo, questo volto, questo uomo è stato freddamente assassinato insieme ad altri 13 giovani compagni, fra cui due ragazze.
Quotidianamente nel mondo sono centinaia gli sguardi come questo che vengono barbaramente uccisi.
Il minimo che possiamo fare è non dimenticare.