Matteo Dean è un giornalista freelance che vive e lavora a Città del Messico
Sembra fatto apposta. Quando l’anno scorso si cominciò a parlare di crisi finanziaria e si cominciavano a intravedere i segni dell’attuale crisi economica, il governo messicano, attraverso il suo ministro delle finanze, parlava “di un leggero catarro” per l’economia nazionale. Qualche mese dopo, smentito dai fatti - mezzo milione di disoccupato negli ultimi due mesi del 2008 -, il governo dovette correggersi: “questa è una polmonite”. La metafora, già di per sé un po’ sfortunata, sembra in questi giorni aver riscosso il prezzo dell’abuso verbale.
Dal mese d’ottobre scorso, il sistema sanitario affronta il problema del virus influenzale. Un virus poco conosciuto in questo paese, per ovvie ragioni latitudinali. Ma da ottobre, ovvero da oltre sei mesi, il sistema sanitario non riesce a contenere il problema. E mentre nella società si promuoveva la dubbia pratica delle vaccinazioni antinfluenzali, negli ospedali gli stessi operatori sanitari si ammalavano. Ed alcuni morivano. È il caso di due studenti all’ultimo anno di praticantato presso l’ospedale Juarez della capitale messicana.
Poi il 24 aprile, giornata che sarà ricordata, non solo per l’annuncio senza precedenti della sospensione delle lezioni scolastiche di tutti i livelli, ma anche per lo scoppio di questa che ha ormai assunto i contorni di un’altra, ennesima, crisi. Se ne parlava ancora poco quella sera dell’influenza. E tornato a casa, incontravo la mia compagna che è dottoressa. Mi raccontava delle morti (20, solo presso l’Istituto Nazionale di Malattie Respiratorie) e mi descriveva il livello di panico crescente tra i colleghi. La bruttissima sensazione di essere abbandonati, la negazione da parte delle autorità di somministrare i vaccini, il rifiuto di offrire le minime misure di profilassi. Ne parlavamo con stupore e un certo fastidio. E pensavamo a come denunciare la situazione: migliaia di studenti e medici ed infermieri (oltre agli stessi pazienti) esposti perché il governo negava l’emergenza sanitaria. E poi la sorpresa. Alle undici di sera, in catena nazionale, quando ormai tantissimi stanno già dormendo (a Città del Messico, le scuole cominciano alle sette di mattina e molti si svegliano addirittura alla cinque), il Ministro della Salute del Governo federale annunciava la sospensione delle lezioni a tutti i livelli e in tutta l’area metropolitana.
Il panico ci ha messo poco a spargersi. La mattina seguente i mezzi di comunicazione hanno cominciato il loro lavoro d’informazione e disinformazione. Perché in effetti sino ad oggi sono poche le informazioni reali e attendibili sui reali effetti di questo nuovo virus. Al contrario, si diffondono quasi con eccesso consigli ed avvertenze. Si consiglia di tapparsi la bocca e di lavarsi le mani con certa frequenza. Si consiglia di evitare abbracci, strette di mano e baci (anche solo sulle guance), così comuni nelle relazioni interpersonali tra messicani. Si avverte che il virus è trasmissibile con estrema facilità. Si avverte che, per decreto presidenziale, i membri del Ministero della Salute potranno, tra le altre cose, entrare in casa di chiunque se questo dovesse servire a prevenire il contagio; potranno iniettare qualsiasi medicina considerata pertinente a chiunque giudichino a rischio; potranno, con l’aiuto delle forze dell’ordine, sgomberare qualsiasi riunione considerata a rischio: locali e discoteche, ristoranti, chiese, teatri e cinema, centri culturali. Ma anche qualsiasi manifestazione politica sarà sostanzialmente proibita. La cosa curiosa è che la sospensione delle attività scolastiche durerà sino al prossimo 6 maggio, mentre il decreto citato ha una durata “indefinita”. E intanto, l’esercito messicano è nelle strade della capitale: solo a distribuire mascherine, per ora.
Stato d’eccezione per un’influenza d’eccezione.
Domenica mattina la città appare spettrale. Già la sera precedente, sabato, si poteva notare l’assenza delle solite masse di giovani e meno giovani che affollavano i locali, che occupavano le piazze. Ma la domenica, classica giornata dedicata alla famiglia, alla fede ed al riposo, magari fuori porta, magari con una passeggiata in centro, la situazione appare davvero surreale. Pochi per strada, spostamenti ridotti al minimo. Ospedali e cliniche e farmacie affollatissime. Anche i mercati sono presi d’assalto da coloro che pensano che passeranno la settimana chiusi in casa.
Eppure le misure adottate dai governi, quello locale e quello nazionale, cominciano a sembrare sempre più contraddittorie. Così come le informazioni che si trasmettono. Si dice, per esempio, che il virus sia una mescola tra virus umano e suino. E, soprattutto, che sia un virus sinora sconosciuto a livello mondiale. Eppure si dice che le persone vaccinate nei mesi scorsi sono al riparo. Così come che ci sarebbero le medicine sufficienti a curare tutti i casi. Allo stesso modo, si riconoscono sinora 20 morti accertate a causa di questo temibile virus. Gli altri casi è impossibile verificarli, perché in Messico non esistono gli strumenti per identificare il malefico virus. Domenica scorsa, il governo ha annunciato che entro tre giorni vi saranno in Messico gli strumenti menzionati. Ovvero solo 6 giorni dopo lo scoppio dell’emergenza. Dieci giorni di stop assoluto a tutte le attività ludiche e di divertimento. Così come delle attività scolastiche.
Ma da lunedì 27 aprile si ricomincia a lavorare. È curioso infatti che seppure il Ministro della Salute riconosce che la fascia d’età più colpita dalla malattia sia quella che va dai 20 ai 50 anni, si lascino a casa praticamente tutti i minori di 20 anni, e gli altri a lavorare. Allo stesso modo risulta strano osservare gli aerei sorvolare la città con la normale continuità. Il turismo è sacro per il Messico e la sua economia e quindi nulla si fa per controllare l’entrata e l’uscita dalla città. Gli altri paesi possono aspettare si potrebbe dire, non senza un certo senso di egoismo patriottico. Ma gli altri stati del paese? Mi telefona un amico, da Oaxaca (città dove si dice che tutto sarebbe iniziato). Son già morte due persone da queste parti, mi racconta.
Lui è maestro e mi chiede cosa fare: andare a lezione o no? Perché nella capitale è tutto sospeso e altrove no? Gli rispondo che se non se la sentissero, lui e i colleghi dovrebbero disobbedire. Ma disobbedire, a cosa? Lo vedremo nei prossimi giorni, giacché il governo si è rifiutato di fermare ogni attività produttiva ed economica. Certo, ha chiesto alle organizzazioni imprenditoriali di tollerare eventuali ritardi e assenze del personale. Ma questo personale andrà a lavorare? Non sarà sufficiente la paura a lasciarli a casa? Forse quella no, ma 30.000 madri sicuramente ci penseranno, dato che altrettanti bambini non potranno andare né a scuola né agli asili nido. L’effetto biopolitico dell’attuale crisi sanitaria è travolgente. Non è solo la paura generalizzata, il sospetto costante che ti obbliga a guardare di traverso chiunque accenni un colpo di tosse.
Non è solamente l’azzeramento di ogni specie e genere di socialità in questa capitale famosa per la sua capacità allegra di convivere. È anche altro. Alcuni dicono che a differenza della violenza del narcotraffico - altro elemento di psicosi sociale di questi ultimi mesi -, che generalmente coinvolge solo chi ne ha a che fare, l’attuale crisi potenzialmente colpisce tutti. In modo assolutamente trasversale, apolitico e agnostico. E quindi le tentazioni sono molte. Non solo quella di chiudersi in casa e rifiutare ogni contatto con il prossimo, ma anche quello della fuga. Via, via da questa città impestata. Magari fuori dal paese. In maggio dovrebbe cominciare ufficialmente la campagna elettorale per le elezioni federali del prossimo 5 luglio (si rinnova metà Congresso federale), e si è già istruito i partiti affinché non realizzino iniziative massive di proselitismo. Figuriamoci la manifestazione del primo maggio, sospesa. Scontato invece il richiamo all’unità nazionale e tutti, per ora, sembrano accodarsi.
La paura purtroppo si giustifica. Non è tanto il timore di ammalarsi, ma piuttosto quello di non essere curato. Se accettiamo che i medicinali attuali non servono e che vaccini non esistono, allora ci si domanda ‘cosa farò se mi ammalo?’. Le voci son tante ed anche troppe. Si dice, per esempio, che son molti di più i morti di quelli dichiarati. Che molti medici stiano dicendo ai parenti dei defunti di dichiarare altre cause della morte. Che molti medici stiano ricevendo minacce da parte di qualcuno perché non rilascino dichiarazioni alla stampa. E il sospetto, non verso il prossimo ma anche verso il governo, s’impadronisce della quotidianità.
Insomma, c’è il sospetto che più che oltre l’epidemia d’influenza, vi sia anche un’importante epidemia di bugie.
Tratto dal blog di Matteo Dean e ripubblicato in italiano da GlobalProject
Approfondimenti:
> Guarda l'intervista a Metteo Dean realizzata per il telegiornale delle ore 12 di lunedì 27 aprile per RaiNews24.
> Ascolta l'intervista a Matteo Dean (GlobalProject)
> Messico - Un fine settimana tra paure e incertezze (GlobalProject)
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