La dignità dei palestinesi è quella di un popolo che resiste perché è consapevole di voler essere scacciato dalla propria terra o eliminato. E che deve impedire ai propri bambini di lanciare i sassi ai carri armati, altrimenti coloni ed esercito israeliani sono legittimati (diritto all'autodifesa) ad aprire il fuoco.
Dopo l’11 settembre la situazione in Palestina è sempre più drammatica. L’accusa di “terrorismo”, mossa da governi che si rifiutano di applicare lo stesso metro di giudizio a se stessi, è diventata ormai il casus belli per eccellenza, che Sharon ha prontamente invocato per cercare infine di spezzare la resistenza del popolo palestinese che da 34 anni lotta contro l’occupazione militare israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. In quanto civili che vivono sotto occupazione, i Palestinesi nei Territori Occupati hanno diritto alla protezione secondo la Quarta Convenzione di Ginevra, del 1949, protezione che viene loro costantemente negata, non ultimo il veto degli Stati Uniti all’invio di una missione di osservatori dell’ONU: così, all’arroganza di pochi che cristallizza nell’impotenza e nell’instabilità la vita di un intero popolo, la risposta è venuta dalla società civile, organizzata e non, da tutta Europa (attraverso il network European Coordinating Committee for Palestine (ECCP)) ed anche in piccola parte da Canada e Stati Uniti. Saremmo stati circa 450 “stranieri”– e tra i circa 200 italiani, c’era anche una folta lobby trasversale di Scienze Politiche di Bologna – tutti insieme a costituire una missione civile, in collaborazione con la rete di coordinamento delle ONG palestinesi (PNGO), con il Centro per il riavvicinamento tra i popoli Bet Shaur e con le ONG del pacifismo israeliano.
L‘OCCUPAZIONE DI ISRAELE
Il cosiddetto “processo di pace” di Oslo non ha fatto cessare l’occupazione: Israele mantiene il controllo militare di oltre l’82% dei Territori Occupati, mentre l’Autorità Nazionale Palestinese non è uno Stato né un Governo. Secondo quegli stessi accordi, il territorio del futuro stato palestinese è stato diviso in zone A (autonomia palestinese: pieno controllo militare e civile), B (pieno controllo civile; controllo militare israeliano-palestinese) e C (controllo militare e civile israeliano): le aree controllate dall’ANP sono quindi frammentate in dozzine di bantustans isolati tra loro dalle “by-pass roads”, mentre Israele continua a sovvenzionare la costruzione di insediamenti - tra la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est se ne contano ben 205 –garantendo generosi incentivi ai coloni che accettano di stabilirvisi (tagli alle tasse, sussidi per l’acqua e l’agricoltura, istruzione scolastica gratuita…e molti coloni sono anche armati dal governo israeliano). Nonostante questo c’è un surplus di circa 10.000 unità abitative israeliane nei Territori Occupati: Israele si sta appunto preparando ad accogliere entro l’anno gli ultimi diseredati, 200.000 ebrei argentini in fuga dalla grave crisi economica politica e sociale che ha colpito quel paese.
Non è vero quindi che il conflitto israelo-palestinese è in stallo: la colonizzazione dei Territori Occupati, il cui ultimo scopo è quello di rendere di fatto irreversibile l’occupazione, continua, in spregio alle numerose risoluzioni dell’ONU (242, 338..) che chiamano alla sua cessazione ed al rispetto della Quarta Convenzione di Ginevra.
LE AZIONI DI PACE
Per questo è necessario intervenire: costituendo un corpo di interposizione pacifica a protezione del popolo palestinese, facilitando la ripresa del dialogo fra la società civile palestinese ed israeliana; cercando di promuovere una dimensione più popolare e democratica e non violenta della mobilitazione contro l’occupazione; richiamando l’attenzione della comunità internazionale, perché ponga fine all’occupazione ed al massacro e perché invii una forza internazionale di protezione della popolazione palestinese, ritornando ai negoziati che dovranno essere tesi al raggiungimento di una pace giusta tra i due popoli: questi gli obiettivi di Action for Peace.
Le iniziative a cui eravamo chiamati a partecipare erano costituite fondamentalmente da attività di interposizione pacifica e da incontri con esponenti del mondo politico e delle associazioni sia israeliane che palestinesi, nel tentativo di promuovere un dialogo che è stato bruscamente interrotto con lo scoppio della seconda intifada, e soprattutto a partire dall’ascesa di Ariel Sharon alla carica di primo ministro del governo israeliano nel marzo del 2001.
Le attività consistevano prevalentemente nei tentativi di rimuovere i blocchi stradali, e superare i check point israeliani, per riaffermare il diritto dei palestinesi di circolare liberamente. Tra la Cisgiordania e Gaza si trovano 120 check point israeliani – quello che viene definito l’”assedio interno”, da distinguere e sommare all’”assedio esterno” che si configura nel controllo completo dei confini palestinesi da parte di Israele.
Un check point è una postazione militare che blocca il traffico in entrata ed in uscita dai Territori Occupati. Ufficialmente mantenuti per motivi di sicurezza (impedire il passaggio dei terroristi diretti in Israele), in realtà servono solo all’umiliazione quotidiana del popolo palestinese, costretto ogni giorno, più volte al giorno, a subire le angherie di chi in ogni momento gli può negare il passaggio, impedendogli per mesi di visitare la propria famiglia, di recarsi a lavoro, a volte soltanto di partorire in un ospedale e non per strada (sono diverse ormai le donne che sono state costrette a partorire ad un check point perché l’esercito negava loro il passaggio). Le cosiddette città autonome palestinesi sono prigioni a cielo aperto, soffocate da insediamenti, postazioni militari, povertà e disoccupazione, frustrazione e miseria. Il blocco dei Territori Occupati ha causato un crollo di circa il 50% del PNL palestinese, e la disoccupazione è salita al 48%: oggi 1.300.000 persone vivono sotto la soglia di povertà.
Basta fermarsi un paio d’ore ad osservare per capire che non si tratta di questioni di sicurezza, ma di punizioni collettive: come altrimenti spiegare l’arbitrarietà dei controlli (tu sì, lui no, voi aspettate poi vediamo…) o la facilità con cui la libertà di movimento viene completamente soffocata? Hebron è stata la nostra esperienza principe a riguardo. Il 30 dicembre avevamo in programma di incontrarvi il sindaco e fare una piccola manifestazione, cercando di arrivare nella zona abitata dai coloni che hanno un grazioso insediamento proprio nel centro storico di questa città “autonoma” palestinese, ma l’esercito - dopo averci bloccato al check point a trattare per due ore - ci ha infine mostrato un ordine di polizia, in base al quale la città e tutta la sua regione sono state dichiarate zone militari, quindi “chiuse”: dal 29 dicembre al 9 gennaio nessuno può cioè entrare o uscire dalla città, i suoi abitanti sono prigionieri nelle loro stesse case.
INTERPOSIZIONE DAL BASSO
L’obiettivo delle delegazioni era quindi quello di costituire una sorta di prima linea che proteggesse il legittimo diritto di protestare dei palestinesi, costituendo uno scudo umano che in virtù del proprio passaporto internazionale potesse impedire le violenze dell’esercito israeliano. Alcune critiche all’organizzazione vanno fatte, e tra queste c’è sicuramente la mancata preparazione ed affiatamento della delegazione nell’affrontare situazioni più o meno “critiche”: alle manifestazioni i lacrimogeni e le bombe sonore piovevano a dirotto e magari un po’ di “training” non sarebbe guastato…ma davvero, il coraggio non è mancato, anche quando a Nablus ci siamo ritrovati di fronte (“fronteggiamento”?…) a carri armati che hanno gentilmente smitragliato con pallottole vere il limite oltre il quale non era consigliato “passeggiare” se si voleva poi rientrare sulle proprie gambe… Questo era il 29 dicembre, durante una protesta contro le postazioni militari che sorgono sulle colline intorno alla città, postazioni dalle quali i soldati si divertono a sparare qua e là sui palestinesi costretti ogni giorno, per uscire o raggiungere la città, ad abbandonare il proprio mezzo di trasporto, farsi carico del proprio bagaglio, percorrere a piedi un viottolo di 500 metri costantemente sotto tiro dei soldati riuscendo, alla fine di questo umiliante passaggio sui carboni ardenti, a prendere un altro mezzo di trasporto per raggiungere la località “desiderata”. E, sempre il 29, a Ramallah, un gruppo di studenti dell’università di Bir Zeit ha chiesto il nostro sostegno per rimuovere i blocchi stradali che impedivano loro di recarvisi: non appena i ragazzi hanno cominciato a spostare i blocchi di cemento, è cominciata una pioggia furiosa di gas lacrimogeni dai soldati che si erano appostati attorno alle colline circostanti, ma gli studenti sono riusciti a passare. Qui qualcuno potrebbe obiettare sull’efficacia di queste azioni dimostrative, di fronteggiamento, che non scalfiscono (e penso anche alla marcia interreligiosa di Betlemme del 31 dicembre: patriarchi, preti, mullah uniti – nessun rabbino…- non sono riusciti a convincere i soldati a farci superare il check point oltre il quale ci si era dati appuntamento per una preghiera collettiva). Beh, intanto c’è la solidarietà, un po’ di sano internazionalismo, e una breccia nell’isolamento e nell’ostracismo a cui la comunità internazionale e la ferocia del governo Sharon ha costretto chi cerca pace.
GLI INCONTRI
Tantissimi: dall’incontro con Azmi Bishara, deputato arabo alla Knesset cui è stata revocata l’immunità parlamentare in quanto accusato di avere rapporti con non meglio precisati “terroristi” e che chiama all’avvio di un processo di “decolonizzazione” dei Territori Occupati, a quello con un Arafat visibilmente affaticato che ci ha fatto gli auguri per l’anno nuovo; al grande Moustapha Barghouti, arrestato il 2 gennaio durante la conferenza stampa di chiusura delle iniziative delle delegazioni perché privo del permesso necessario per entrare a Gerusalemme Est e poi rilasciato, all’incontro improvvisato con la comunità italiana in Israele dove solo la diplomazia di Luisa Morgantini (Donne in Nero, Assopace ed europarlamentare) e di Roberto Giudici (CGIL) sono riuscite a stemperare i toni aggressivi con cui siamo stati attaccati esplicitamente di parzialità, indirettamente di revisionismo e – visto che di antisemitismo non potevano parlare dato che tra noi c’era chi aveva avuto genitori deportati, parenti partigiani… - se non di memoria si trattava, allora era proprio un problema di conoscenza-ignoranza della questione (“voi che non vivete qui non sapete”) che solo il contatto da italiano ad italiano poteva aiutarci a superare.
Indubbiamente è necessario collaborare di più con i movimenti pacifisti israeliani: Bat Shalom, New Profile, Women in Black, Windows (tutti gruppi che abbiamo incontrato il 28 dicembre, dopo la manifestazione della Coalition of Women for a Just Peace tenutasi per le strade di Gerusalemme). Sono gli israeliani che devono rendersi conto che la politica di apartheid del proprio stato è soltanto foriera di sangue e disperazione, di quella frustrazione che poi si carica di violenza e fa sì che un autista di autobus padre di famiglia una mattina decida di scagliarsi contro un capannello di soldati israeliani alla fermata. Nel 1994, nel clima di ottimismo generato dagli accordi di Oslo, solo il 20% del palestinesi approvavano gli attacchi suicidi: dopo tre mesi di intifada, nel dicembre 2000, tale percentuale saliva al 50% e quindi al 75% dopo sei mesi di governo Sharon. Lo stesso andamento è riscontrabile nell’andamento del consenso della società israeliana sull’assassinio dei leaders politici palestinesi: oggi il 70% dei cittadini israeliani approva tali assassinii. La società israeliana si è inevitabilmente ricompattata a destra su linee etniche e razziali, riuscendo ancora per il momento a bypassare la dimensione di classe che prevedibilmente giocherà un ruolo di primo piano nel prossimo futuro di Israele: nonostante i quasi tre miliardi di dollari annui forniti dagli Stati Uniti in qualità di aiuti militari diretti od indiretti, ben il 18% della popolazione israeliana vive al di sotto della soglia di povertà. Quanto, quindi, questa politica di colonizzazione opprime l’uno e l’altro popolo? Quando israeliani e palestinesi si uniranno contro l’occupazione che mentre opprime l’uno, depaupera l’altro?
All’interno del giovane e variegato panorama dai movimenti pacifisti israeliani, una parte importante giocano i movimenti basati sul principio “diserzione selettiva” all’interno dell’esercito: in uno stato di riservisti (ove cittadini e cittadine sono richiamati ogni anno a servire almeno per un mese nelle forze armate fino alla tenera età di 50 anni) riuscire a far passare il concetto del rifiuto dell’obbedienza ad ordini contro i quali si è contrari per coscienza è qualcosa di straordinariamente rivoluzionario. Non è l’obiezione di coscienza classica (il servizio civile), che rischierebbe di lasciare un’istituzione importante come l’esercito in mano a squadroni volontari di fascisti ed assassini, ma bensì il rifiuto di servire all’interno dei Territori Occupati. I primi movimenti di questo tipo sono sorti in occasione dell’invasione in Libano nel 1982, e se allora chi disertava veniva imprigionato, rapidamente politici e generali hanno capito la pericolosità di questi movimenti e così cercano di soffocarli nel silenzio e nell’indifferenza. Di fatto, dall’inizio della seconda intifada più di 300 persone hanno rifiutato la chiamata a servire nei Territori Occupati ed il passato insegna che spesso chi non ha rifiutato la prima chiamata, poi si rifiuta di presentarsi alla seconda, dopo aver visto, sentito e colpevolmente contribuito a mantenere lo schifo che è l’occupazione militare di quelle terre.
I movimenti e le organizzazioni femminili e femministe sono all’avanguardia del movimento per la pace, avendo portato avanti per molti anni – anche grazie alle Donne in Nero italiane – una politica trasversale fatta di dialogo tra le identità in conflitto di donne israeliane e palestinesi, alla base del quale stanno una serie di principi (ripresi in gran parte dalla coalizionedelle donne): due stati per due popoli, fine dell’occupazione, ritorno ai confini del ’67, assunzione dei problemi creati ai palestinesi con la formazione dello stato di Israele (problema dei rifugiati) e fine della militarizzazione e della violenza, per dare spazio alla politica delle donne, che deve avere un ruolo attivo nei negoziati di pace: questa è Bat Shalom, la componente israeliana del Jerusalem Link, formata da parte palestinese dal Jerusalem Center for Women.
Molte altre ancora sono le organizzazioni israeliane attive in questo campo: si prendono contatti, si costruiscono legami, si avviano collaborazioni…
LA “RESISTENZA” DEVE CONTINUARE
Dall’inizio dell’Intifada nel settembre del 2000, 944 palestinesi sono stati uccisi (cifra che comprende anche 82 assassinii mirati, politica perseguita da Israele in violazione della Convenzione dell’Aja del 1907, che la definisce un crimine di guerra); tra questi, l’85% erano civili, di cui 220 uccisi da armi pesanti; ancora, il 25,2% dei morti erano ragazzi fino a 18 anni; i feriti in totale ammontano finora a più di 20.000. 510 abitazioni private sono state distrutte ed oltre 6000 danneggiate; 34.500 alberi da frutta ed ulivi sono stati sradicati; 134 pozzi d’acqua sono stati danneggiati o distrutti; numerose scuole sono state chiuse o danneggiate, alcune sono state addirittura trasformate in caserme. Sono numeri, non è facile dar loro un volto, un nome, sentirli sulla propria pelle: una settimana non è poi molto, sono sette giorni in cui si sa benissimo che l’ottavo si tornerà nella propria casetta al sicuro da ogni vessazione, da (quasi) ogni paura. Sette giorni là non hanno cambiato la vita di nessuno, italiano o palestinese o israeliano, eppure si sentono. Si sente l’ingiustizia fino in fondo, si respira l’odio, si vede la diffidenza, i ponti che sono crollati, l’umiliazione e la frustrazione, non si fatica certo a capire da che parte si debba stare, ma ci sono anche la vitalità ed il coraggio di un popolo che dopo 34 anni di guerre, massacri, tradimenti e disillusioni lotta ancora. Non è tanto la partecipazione a forme simboliche di resistenza che può dare un senso alla nostra partecipazione in quanto “stranieri”: ciò che i palestinesi ci chiedono è di sostenerli qui, parlando, raccontando, denunciando, facendo pressioni sui nostri governi affinchè inviino una forza di protezione internazionale. Finalmente l’establishment palestinese ha sposato le tesi dell’infaticabile Edward Said, noto intellettuale palestinese della diaspora: i palestinesi vinceranno se insieme al loro coraggio ci sarà l’indignazione della gente comune, se la loro causa sarà la causa di chi ha lottato contro l’apartheid in Sud Africa, se riusciranno a riappropriarsi di una narrazione che gli è stata sottratta ingabbiandoli nella definizione di terroristi che non vogliono la pace (a partire dal loro presidente, viste le recenti dichiarazioni di Sharon su Arafat) se riporteranno creativamente il farsi della loro propria storia nelle “strade, della gente che sa amare…(…il mio mitra è un contrabbasso che ti spara sulla faccia, che ti spara sulla faccia ciò che penso della vita, con il suono delle dita si combatte una battaglia che ci porta sulle strade della gente che sa amare… Area, 1975 “Gioia e Rivoluzione”).
A proposito: a Pasqua partirà una nuova delegazione (anche se, in realtà, piccoli gruppi già si stanno alternando per garantire una presenza costante di osservatori), e poi si vuole cercare di lanciare un boicottaggio delle merci israeliane prodotte nelle colonie (che, in violazione di leggi commerciali europee…si trovano comunque sui nostri pingui scaffali natalizi e non solo…), e poi, e poi…