Gerusalemme Est, giovedì 27 dicembre 2001
Dopo un viaggio un po' assurdo con scalo a Cipro per cambio del personale Alitalia - che non si sente più sicuro a pernottare in Israele - arriviamo a Tel Aviv alle ore 2, 40 di notte. Il passaggio alla dogana è più veloce del previsto, nessun controllo ai bagagli, nessuna domanda particolare.
Arriviamo all'Hotel Ambassador di Gerusalemme alle 5 e dopo tre ore arriva la sveglia.
Il programma della prima giornata prevede una manifestazione nella città di Ramallah, sede del quartiere generale dell' Autorità Nazionale Palestinese (ANP), dove risiede attualmente Yasser Arafat. In direzione nord percorriamo la strada che da Gerusalemme porta a Ramallah e che coincide con la linea verde che fino al 1967 - anno della guerra dei sei giorni - divideva Gerusalemme Est (sotto controllo palestinese e giordano) da Gerusalemme Ovest (sotto controllo israeliano).
Nel '67 le truppe israeliane occupano Gerusalemme Est insieme a tutta la Cisgiordania e tutta la città passa sotto controllo israeliano. Per arrivare a Ramallah dobbiamo attraversare due check point. I check point sono dei veri e propri posti di frontiera tra lo stato di Israele e il territorio dell'ANP. Oggi con l'occupazione israeliana di parte del territorio dell'ANP, molti nuovi check point sono stati creati all'interno delle zone amministrate dall'ANP, moltiplicando ulteriormente i problemi di mobilità per i palestinesi e trasformando le zone dell'ANP in bantustan di sud africana memoria.
Passato il primo check point che, in base agli accordi di Oslo, segna l'originario confine tra ANP e Israele, arriviamo al check point di Qalandia. Questo, creato di recente, estende il controllo israeliano oltre i confini stabiliti dall'accordo di Oslo. Qui i blocchi di cemento e filo spinato restringono la strada, il traffico scorre piano, da un lato e dall'altro del check point aspettano le centinaia di persone che sono costrette ad attraversarlo a piedi esibendo i documenti. Come in tutti i posti di frontiera si è creato un mercato con decine di banchi che vendono un po' di tutto, dall'abbigliamento agli alimentari, dai giochi per bambini alle sigarette.
Arriviamo a Ramallah, facciamo una sosta al centro culturale palestinese gestito da donne, una delle tante forme di auto organizzazione nate durante la prima intifada. L'ultima battaglia di questo centro è stata impedire che una parte di esso venisse trasformato in centro commerciale con i permessi concessi dall'ANP. Ci concentriamo nella piazza della città per la manifestazione organizzata da GIPPP (Grassroots International Protection People of Palestina). Il corteo si apre da un gruppo di ragazzi che suonano i tamburi e da uno striscione che chiede la fine dell'occupazione dei territori palestinesi. Al corteo, a cui partecipano più di mille persone, incontriamo le delegazioni di francesi, belgi, americani che insieme a italiani e palestinesi hanno promosso la piattaforma di Action for Peace.
Il corteo percorre le vie del centro della città per ritornare alla piazza, dove prendono la parola Mustafà Barghouti - intellettuale e figura di primo piano della società civile palestinese - i rappresentanti delle delegazioni internazionali, tra cui Luisa Morgantini e Marouan Barghouti, capo di Tazim, braccio militare di Al Fatah, che in questa occasione fa una delle sue rarissime uscite pubbliche da quando l'esercito di Israele ha cercato di arrestarlo in un'irruzione a casa sua.
In tutti gli interventi viene ribadita l'importanza della presenza degli stranieri in per rompere l'isolamento in cui sono costrette le comunità palestinesi.
Il corteo torna a muoversi verso un posto di blocco dell'esercito israeliano che chiude una strada a poche centinaia di metri del quartier generale dell'ANP. L'obiettivo è oltrepassare il blocco avanzando a mani alzate. Man mano che ci avviciniamo la tensione sale, i tamburi si arrestano, alla testa del corteo si posizionano le delegazioni straniere. Ma già nelle prime file vediamo i due Barghouti in cordone con Luisa Morgantina e dietro a loro il massimo esponente di Hamas di Ramallah. Questo è un segnale che tuttle le componenti politiche palestinesi condividono l'iniziativa.
Al posto di blocco la strada è chiusa da mucchi di terra alti circa un metro. Una ventina di soldati israeliani con 2 jeep e 2 carri armati sono posizionati dietro e ai lati dei mucchi di terra. Quando siamo ancora a 30 - 40 metri dal posto di blocco i militari sparano i primi lacrimogeni, subito gli occhi iniziano a lacrimare, la nausea ci assale con forti sensazioni di vomito. Dopo un primo sbandamanto, torniamo ad avanzare fino a pochi metri dai soldati, a quel punto i carri armati iniziano a muoversi minacciosamente e dal loro interno vengono lanciate a mano lacrimogeni e ‘sound granate' ai nostri piedi. I botti di questi sono terribili ed assordanti. Nel frattempo le due jeep avanzano fino al primo gruppo di manifestanti puntando i fucili ad altezza uomo e sparando contemporaneamente decine di lacrimogeni che feriscono 5 o 6 ragazzi subito portati via con le ambulanze. Retrocediamo quindi tutti insieme. Gli ultimi a lasciare il "campo di battaglia" sono i bambini palestine
si che fronteggiano con sassi e fionde, quasi come fosse un gioco, l'esercito israeliano.
Al ritorno capiamo sulla nostra pelle cosa vogliano dire i check point per la mobilità dei palestinesi: impieghiamo due ore per raggiungere Gerusalemme, tragitto che non richiederebbe più di mezz'ora. La prima giornata palestinese si chiude con un forte senso di frustrazione e rabbia di fronte all'arroganza dello stato israeliano e alla violenza del suo esercito.
Gerusalemme Est, venerdì 28 dicembre 2001
Anche la nostra seconda giornata è stata molto densa. E' iniziata la mattina con una manifestazione nella parte ovest di Gerusalemme, promossa dalla "Women's Coalition for Peace", una rete che raggruppa tutte le associazioni di donne attive nella lotta all'occupazione di Israele. Diversamente dal giorno prima, l'iniziativa è organizzata da gruppi e realtà della società civile israeliana, i palestinesi sono praticamente assenti perché le limitazioni alla loro circolazione gli impediscono di raggiungere questa parte della città.
La contro manifestazione di un gruppuscolo di coloni che reclama il proprio diritto a disporre della terra santa e la forte ostilità dei passanti - manifesta negli insulti che ci vengono gridati addosso - dimostra che il lavoro di queste associazioni per la pace è estremamente faticoso. La maggior parte degli israeliani, infatti, è preda della paranoia securitaria, stretta nella paura non riesce e non vuole comprendere gli effetti della politica del proprio governo sui palestinesi e preferisce identificarsi con la posizione di vittima. Alla presenza delle delegazioni straniere viene subito riconosciuto un ruolo fondamentale, molte le persone che senza conoscerci ci ringraziano per essere qui insieme a loro. Oltre noi, delegazioni da Francia, Gran Bretagna, Olanda, Stati Uniti e Belgio, tra cui anche L'unione degli ebrei progressisti del Belgio.
Il permesso accordato all'iniziativa impedisce di marciare in strada, sfiliamo quindi sui marciapiedi mostrando ai passanti delle manone su cui si legge "Stop occupation"- accompagnati dai bonghi delle Donne in nero. Senza slogan, ma con enormi cartelli che in ebraico e inglese dicono "Dismantle settlements now" (smantellare gli insediamenti subito) o "Jerusalem: 2 capitals for 2 states" (Gerusalemme: 2 capitali per 2 stati), arriviamo alle mura della città vecchia, dove, alla porta di Jaffa, si conclude la marcia di duemila persone. Mentre sul palco si susseguono gli interventi dei rappresentanti delle organizzazioni, abbiamo tutto il tempo di firmare appelli e cartoline per la scarcerazione dei ragazzi israeliani che si rifiutano di prestare il servizio militare, un'obiezione di coscienza che qui - lo scopriremo nel pomeriggio - viene duramente punita. Dal palco, il lamento di una donna avvolta in una rete di filo spinato canta le sofferenze della vita nei territori occupati, poco
distante un giovane israeliano con papalina legge ad alta voce la Torah, per dimostrare che la terra promessa da Mosè spetta di diritto al popolo di Davide. Nel pomeriggio partecipiamo a due incontri che si tengono all'Imperial Hotel che attualmente fa le funzioni della Orient House dopo che è chiusa ad agosto dagli israeliani.
Nel primo incontro parlamentari e personalità della società civile israeliana e palestinese lanciano un appello per la risoluzione pacifica del conflitto contro l'occupazione dei territori dell'ANP. Nel secondo, incontriamo i membri di New Profile, una organizzazione israeliana che sostiene i ragazzi che rifiutano di prestare il servizio militare e che vengono puniti con la reclusione i carceri e costretti a iter burocratici arbitrari e senza fine. New Profile si oppone al concetto di una società organizzata e strutturata militarmente, che educa e cresce soldati prima che cittadini. I suoi attivisti lottano per il diritto all'obiezione di coscienza, cercando di introdurre l'opzione del servizio civile, consentito solo alle donne dopo un anno di leva.
Conosciamo poi l'attività del Comitato contro la demolizione delle case, organizzazione di israeliani che insieme ai palestinesi fronteggia fisicamente i buldozer per impedire l'abbattimento delle abitazioni dei palestinesi nei territori occupati e che subito dopo ne avvia il processo di ricostruzione. Denunciano un'occupazione che avviene innanzitutto in termini amministrativi, ovvero dichiarando abusive le abitazioni, negando o ritirando permessi di residenza, inventando sempre nuove imposizioni e limitazioni. E' un'occupazione che agli israeliani viene presentata in termini di legalità violata e che rende l'occupazione un concetto astratto. L'occupazione c'è, ma è invisibile.
Gerusalemme Est, Domenica 30 dicembre 2001.
Anche oggi la sveglia arriva all'alba, ci si dividerà in due gruppi, con destinazione Nablus e Birzeit.
Decidiamo di partecipare all'iniziativa di Birzeit. Qui, poco distante da Ramallah, ha sede la piu' importante università palestinese, l'unica laica.
L'università è stata chiusa per 22 giorni dagli israeliani, i quali, alla sua riapertura, hanno creato un check point che rende difficile o addirittura impossibile l'accesso all'università. Dimah, una militante di GIPPP conosciuta giovedì a Ramallah, ci raccontava che a novembre per tre settimane i soldati israeliani non le hanno permesso il passaggio al check point.
L'azione di oggi consiste nel neutralizzare per una giornata la facoltà dell'esercito di decidere chi può attraversare il check point o meno, in modo da permettere agli studenti palestinesi di esercitare il diritto di circolare liberamente nel proprio territorio. E' un vero e proprio atto di disobbedienza nei confronti dell'arbitrarietà delle disposizioni imposte con la forza dal governo israeliano che, a propria discrezionalità, limita, quando non chiude, l'accesso delle persone alle vie di comunicazione. Un gruppo di studenti palestinesi con il supporto delle delegazioni italiane, francesi e americane decide di rifiutarsi di esibire la carta di identità e mostra invece grandi cartelli in cui si legge "contadino palestinese", "commerciante palestinese", "studente palestinese".
Arrivati al check point scopriamo, con nostra piacevole sorpresa, che i militari non sono presenti. Mentre le delegazioni straniere fanno dei presidi nelle strade laterali per impedire l'intervento dell'esercito israeliano, gli studenti palestinesi aiutati dai camion che transitano, rimuovono I blocchi di cemento armato che restringono la strada e abbattono e incendiano la torretta di guardia. Immediatamente appaiono sulla collina sovrastante la strada due jeep e un carrarmato, da dove iniziano a lanciarci lacrimogeni e sound granate. L'intervento dell'esercito non impedisce lo smantellamento totale del check point. Da quando siamo arrivati in Palestina, l'espressione "mettere in gioco i propri corpi" assume sempre di più una valenza di drammatica realtà. Ci rendiamo conto che I palestinesi mettono il proprio corpo in gioco ogni giorno perché, in molti casi, è l'unico strumento che possiedono per rivendicare e per riappropriarsi, anche se solo temporaneamente, dei loro diritti, come quello a circolare liberamente.
Gerusalemme est, 30 dicembre 2001
La giornata di oggi prevede una visita a Hebron per incontrare il sindaco della città e una al campo profughi di Al Fawar.
Hebron si trova a circa 2 ore a sud di Gerusalemme, è una delle zone con la maggior presenza di soldati israeliani per proteggere l'insediamento di 400 coloni nel centro di una città di 80000 palestinesi.
Percorriamo una by pass road che unisce Gerusalemme ad Hebron. Le by pass road sono superstrade che collegano tra di loro gli insediamenti dei coloni, e che con gli accordi di Oslo sono sotto sovranità israeliana.
Queste superstrade che i palestinesi non possono percorrere si sviluppano in modo da non attraversare le città e i villaggi palestinesi.
Queste by pass road sono uno dei tanti strumenti del governo israeliano per frammentare e smembrare la West Bank in modo che non si crei un territorio unitario sotto controllo dell'Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Allo stesso tempo un altro effetto è di consentire agli israeliani di spostarsi ovunque senza venire a contatto con le comunità palestinesi; continuando con quel processo di creare un mondo separato e autosufficiente la cui origine è il concetto dei primi insediamenti israeliani in Palestina, i Kibbutz.
Lungo il tragitto vediamo decine di strade bloccate dall'esercito israeliano con barriere di cemento armato o più semplicemente con mucchi di terra. Cosi facendo vengono chiusi i villaggi palestinesi, isolandoli gli uni dagli altri. Parallelamente alla politica di isolamento dei villaggi, iniziata nel settembre '01, gli israeliani proseguono con la politica degli insediamenti.
L'implementazione degli insediamenti è un fattore chiave del progetto di occupazione del territorio da parte israeliana.
Queste colonie vengono create dal nulla, in prossimità di centri abitati, espropriando le terre dei palestinesi. Sono 2 gli obiettivi del governo israeliano: provocare conflitti tra le 2 comunità vicine in modo da giustificare l'intervento dell'esercito e attuare una ridefinizione del territorio sia dal punto di vista urbanistico, che dal punto di vista demografico.
Al primo check point che troviamo, polizia ed esercito ci negano l'ingresso nella provincia di Hebron, dichiarata 24 ore prima zona militare. Per la prima volta ci troviamo faccia a faccia con i coloni, tutti armati, vengono a solidarizzare e a dare man forte all'esercito. Addirittura alcuni coloni portano vassoi di dolci ai soldati ringraziandoli di tenere lontano gli "amici dei terroristi".
Dopo due ore di trattativa decidiamo, in accordo con il sindaco di Hebron che ci stava aspettando, di non accettare la proposta di far passare solo 3 deputati italiani.
In risposta al divieto di entrare ad Hebron fissiamo un presidio davanti all'Orient House insieme alle delegazioni francese e belga. L'Orient House, chiusa lo scorso agosto dal governo di Israele, era la sede dell'ANP a Gerusalemme. Essa, oltre a promuovere gli interessi economici e le tematiche culturali palestinesi, era importante per la gestione dei rapporti tra israeliani e palestinesi e tra i palestinesi stessi. Questa era importante a tal punto che i palestinesi di Gerusalemme Est per risolvere i loro problemi non si rivolgevano più all'autorità israeliana ma a l'Orient House.
Il presidio, a cui partecipano circa 200 persone, si svolge tranquillamente fino a quando un gruppo di soldati e poliziotti non oltrepassa le barriere di cemento armato dietro cui erano posizionati per lanciarsi contro alcuni ragazzi stranieri che esponevano una bandiera palestinese; in Israele l'esporre simboli della Palestina comporta il fermo immediato.
Dopo una serie di tafferugli che durano un pò di minuti, e in cui i poliziotti rompono la caviglia ad una signora del gruppo italiano, un ragazzo belga e uno francese vengono arrestati. Verranno rilasciati dopo un ora.
Le difficoltà della società israeliana nell'affrontare il conflitto israelo-palestinese ci viene confermata dall'incontro che abbiamo a fine giornata con alcuni gruppi e associazioni antiglobal israeliane, tra cui Green Action e Indymedia Israele. Questi gruppi si muovono a tutto campo sui temi della globalizzazione ma non riescono a esprimere nessun intervento sulla situazione drammatica che hanno nel territorio in cui vivono.
Gerusalemme Est, 31 dicembre 2001
Ultimo giorno di un anno drammatico. Ma le iniziative in programma per oggi sono tutte rivolte alla costruzione di un percorso che faccia del 2002 l'anno della pace e della liberazione del popolo palestinese.
Nella mattinata partecipiamo tutti, insieme alle altre delegazioni straniere, alla marcia per la fine dell'occupazione e per l'apertura di Gerusalemme. Da Betlemme a Gerusalemme, attraversando il grosso check point di Mar Elias, sfileremo per reclamare l'abolizione del confine che ai palestinesi impedisce di raggiungere i propri luoghi di culto nelle due città. E' una manifestazione molto importante, è stata promossa da tutte le comunità religiose e civili di Betlemme e Gerusalemme. Vi partecipano quindi le municipalità, i comuni rurali della zona, le organizzazioni non governative, i gruppi degli Scouts, i comitati per i profughi del Governatorato di Betlemme, ma soprattutto il Patriarca di Gerusalemme, il Vescovo di Betlemme, i massimi rappresentanti delle Chiese Armene, Greco Ortodosse, Luterane e delle Istituzioni religiose Islamiche.
Dopo aver ricevuto dall'organizzazione le fascette di "Osservatori Internazionali" oltre che cappellini, palloncini, spille e rami di ulivo, formiamo un lungo cordone che circonda il corteo, con una catena anche lungo i bordi. Ci è sempre più chiaro quanto sia importante per i palestinesi la presenza degli "Internazionali": non solo fungono da testimoni con il dovere di creare una sensibilità politica internazionale rispetto alla questione palestinese, ma soprattutto da "scudi umani" che letteralmente proteggono li proteggono.
Camminando insieme ai fedeli - si distinguono dagli altri manifestanti soprattutto perché cantano - arriviamo in prossimità del check point. In verità è ancora molto lontano dalla nostra vista, ma due camionette dell'esercito occupano la strada e costringono il corteo ad arrestarsi. Non solo ci è impedito di passare attraverso Mar Elias, ma anche di proseguire fino a quella meta. Dopo una lunga contrattazione tra il gruppo di contatto e l'esercito, che concederebbe il passaggio solo alle autorità religiose, otteniamo di arrivare al check point, e di ascoltare lì le preghiere dei Patriarchi. Il check point - vera e propria postazione militare con controlli severissimi - è pattugliato in modo impressionante da ogni tipo di mezzi dell'esercito. Ci fermiamo lì. Ascoltiamo i sermoni di tutti i capi religiosi e vediamo i palloncini, che portano con sé messaggi di pace, liberarsi nel cielo. Una maggiore determinazione da parte delle autorità religiose a forzare la situazione determinata da
leggi ingiuste dall'occupazione militare dei territori della West Bank (Cisgiordania), sarebbe stata invece indispensabile.
Con il fallimento dello scopo dichiarato di questa marcia, la condizione di segregazione in cui vivono i palestinesi all'interno del proprio territorio ci è sempre più evidente.
Mostrando i nostri passaporti, attraversiamo il check point in direzione Gerusalemme e ci rechiamo alla chiesa di Santa Anna, nella città vecchia. In piena zona orientale, nello stretto dedalo di strade che formano il souq arabo, Luisa Morgantini ci dice che dobbiamo sempre guardare in su: vediamo così una bandiera israeliana appesa ad un balcone. Anche qui, a Gerusalemme Est, si insediano i coloni. Sono i più fanatici, perché sono pronti a vivere a contatto strettissimo con la comunità palestinese insinuandosi nella sua quotidianità. Camminano per i vicoli del mercato scortati da una corpo speciale dell'esercito - armato di uzi - che garantisce la loro sicurezza. A noi mette invece molta agitazione.
La serata la passiamo a Ramallah. In un centro culturale la comunità palestinese ci accoglie con uno spettacolo di danze folcloristiche a cui segue il discorso di Mustafà Barguti. La campagna internazionale "Action for Peace" è sul punto di terminare e Barguti - medico e intellettuale pacifista, responsabile dell'Istituto palestinese per la Sanità, lo Sviluppo, l'Istruzione e la Politica, nonché attivista nei GIPPP - ringrazia tutte le delegazioni per avere dato una nuova forza e una nuova speranza alla resistenza palestinese e insiste sulla necessità di una presenza permanente in Palestina della società civile internazionale. Trai gli applausi, i saluti e i ringraziamenti del pubblico, ritorniamo ai pullman che ci portano alla sede dell'Autorità Nazionale Palestinese, dove incontriamo il Presidente Arafat.
Nella grande sala sono presenti insieme a italiani, francesi e belgi, tutti i volontari palestinesi che hanno lavorato nell'organizzazione di questa campagna. Yasser Arafat arriva accolto da un lunghissimo applauso. Negli interventi delle delegazioni straniere viene sollecitato il coinvolgimento del parlamento europeo (Luisa Morgantini) e l'impegno a isolare il regime di Israele come si è isolato quello del Sud Africa, ingaggiando una battaglia che andando oltre i diritti nazionali lotti per i diritti umani (il rappresentante della delegazione belga).
Il discorso di Arafat è interamente rivolto a noi: alla spinta, al coraggio e alla fiducia che la nostra presenza, con le iniziative concrete di interposizione pacifica, infonde alla lotta per la liberazione della Palestina dall'occupazione. E' un momento emozionante, si conclude con gli auguri per un anno di pace e giustizia e con un'ovazione generale: FREE! FREE! FREE PALESTINE! Aspettiamo la mezzanotte nella piazza di Ramallah, dove una folla di ragazzi ci circonda, ci fa domande, ci ringrazia. Chiacchieriamo, scambiamo indirizzi e-mail, spieghiamo da dove veniamo e promettiamo di tornare presto.
Ci dimentichiamo di controllare l'orologio. A mezzanotte, insieme ai fuochi d'artificio, gridiamo di nuovo che la Palestina la vogliamo libera. L'ultimo intervento di Marwan Barguti, da un palco improvvisato, rivolge il primo pensiero del 2002 ai bambini, alle donne e agli uomini che sono stati uccisi nella lotta di liberazione; la folla si unisce a lui ricordandoli "nel nostro sangue, nel nostro animo!".
Auguri anche da parte nostra,
Meco e Neva
Gerusalemme Est, 1 gennaio 2002
E' il primo giorno del nuovo anno. Per la mattinata non si prevedono iniziative ufficiali ma ci alziamo presto lo stesso. Noi "disobbedienti italiani" ci dividiamo in due gruppi con itinerari diversi.
Una parte partecipa nella mattinata ad un incontro di valutazione della campagna "Action for Peace" a cui, tra gli altri, è presente Marwan Barguti, capo di Tazin, braccio armato di Al Fatah. Qui si pianifica una nuova campagna internazionale per la settimana di Pasqua, preceduta, nel periodo che ci separa da questa scadenza, da una serie di viaggi in Palestina da parte di delegazioni ristrette non solo per monitorare costantemente la situazione, ma anche per lanciare campagne di informazione che al contempo facciano pressione sui singoli governi degli stati europei e sul Parlamento europeo stesso. Nel pomeriggio la visita a Benjala, uno dei villaggi maggiormente colpiti negli ultimi mesi, ci rende ben visibile cosa voglia dire la politica degli insediamenti. Un taxista ci accompagna in un punto in cui sono decine e decine le case distrutte dai colpi di cannone dell'esercito israeliano. Mentre tramonta il sole, torniamo a piedi verso il centro del villaggio, nelle strade incontriamo
diversi posti di blocco dell'ANP.
Parlando coi militari scopriamo che ancora si temono attacchi da parte dei coloni israeliani. Benjiala, abitata da palestinesi cattolici, e l'insediamento colonico di Gilon si trovano su due colline una di fronte all'altra. In mezzo passa una bypass road che taglia in due la vallata. La collina dove ora si trova Gilon non era che un appezzamento di terra proprietà di contadini di Benjala. Come tutti gli insediamenti israeliani, anche la genesi di questo ha avuto un iter ben preciso.
All'inizio vengono espropriati terreni palestinesi con la giustificazione che da tre anni sono incolti (il più delle volte sono gli israeliani stessi ad impedire la coltivazione intervenendo con la distruzione delle colture). Poi vengono posizionati alcuni container. I palestinesi si ribellano e ai primi scontri tra palestinesi e coloni interviene l'esercito a difendere i coloni e a fare terra bruciata intorno ai futuri insediamenti, distruggendo coltivazioni e demolendo le case che si trovano nell'area circostante per garantire la sicurezza dei coloni (diritto all'autodifesa). Nel frattempo iniziano i lavori per la rete fognaria ed elettrica, vengono rilasciati i permessi per costruire le abitazioni e così, in poco tempo, nasce l'insediamento. Da notare che gli israeliani ricevono incentivi e sovvenzioni dal governo per risiedere in queste zone "calde", e che, nonostante questo, gli insediamenti sono mezzi vuoti.
Dagli accordi di Oslo (1982) in cui si stabilisce il blocco della costruzione di insediamenti, questi sono aumentati del 52%.
Sempre presto nella mattinata e in un gruppo ristretto, in modo da spostarci più agilmente con un solo taxi, lasciamo l' hotel per incamminarci verso la città vecchia. La Porta di Damasco è deserta, senza i banchi di frutta e verdura che riempiono scalinate e piazza sembra nuda. Anche qui è un giorno di riposo. Accompagneremo Netta Golan nella visita ad un villaggio di campagna. Qualcuno ricorderà questa pacifista e attivista israeliana che alla manifestazione nazionale per la Palestina a Roma (un annetto fa?) venne contestata prima di iniziare il suo intervento dal palco.
Visiteremo l'area di Selfit, a sud ovest di Nablus. Questa zona di 22 villaggi rurali palestinesi è circondata da 22 insediamenti di coloni che, insieme all'esercito di Israele, rendono la vita dei contadini palestinesi impossibile. Netta ci spiega che gli abitanti di Selfit sono bersaglio continuo della prepotenza e della violenza israeliana, sono isolati dal resto delle municipalità palestinesi anche fisicamente perché chiusi da montagne di terra, calcinacci e altro materiale che circondano tutto il perimetro dell'area. In altre parole, la zona è sotto la continua minaccia di essere annessa a Israele. Con uno sguardo alla carta geografica si vede subito che il territorio di Israele è a questa altezza molto stretto, solo un corridoio tra il mare e il suo confine originario (1948). Anche qui gli insediamenti sono sorti sulle terre coltivate dai palestinesi, che sono rimasti senza lavoro e sono ora molto poveri.
Passiamo prima a Tel Aviv, dove facciamo una sosta alla sede di Indymedia Israele e Green Action. I compagni di Green Action sono felicissimi di incontrare Ya Basta, che hanno visto a Praga e a Genova, restiamo con loro a guardare i video che hanno realizzato su varie iniziative e poi prendiamo il bus per Selfit. Percorriamo la bypass road che uscendo da Tel Aviv porta ai territori occupati palestinesi; l'assenza di check point alla frontiera con la West Bank è chiaro segnale che lo stato di Israele non ha qui nessun confine, ignorando la fine del proprio territorio. Scesi dall'autobus notiamo infatti che dalle segnaletiche stradali è stata cancellata la scritta in arabo, restano quella in ebraico e inglese. Entriamo da uno stretto sentiero ricavato in una barriera di sassi nella zona di Selfit - lembo di terra tra incroci di bypass road e insediamenti colonici . A colpo d'occhio il tenore di vita appare subito diverso da quello delle municipalità di Ramallah e Betlemme, dove la popo
lazione è relativamente abbiente. In macchina di un ragazzo che si offre di portarci al villaggio di Hares abbandoniamo subito la strada asfaltata per buttarci su uno sterrato scavato tra le rocce. Dobbiamo infatti "circumnavigare' i blocchi stradali che in più punti interrompono la strada che un tempo collegava tra loro i villaggi della zona, ora raggiungibili con giri pazzeschi che allungano distanze inesistenti. Netta ci mostra tronchi di ulivi senza fronde, sono stati tagliati dagli israeliani in modo che la terra risulti incolta e quindi "legalmente" confiscabile. E' pazzesco vedere quanti sono gli stratagemmi adottati dal governo di Israele per far rientrare l'occupazione del territorio palestinese all'interno di una campagna per il ripristino della legalità. Altro sistema per impedire agli abitanti di questa zona di irrigare i propri terreni è quello, ci spiega Netta, di inquinare le sorgenti di acqua in questa riserva naturale.
L'ultima raid dell'esercito risale allo scorso ramadan, quando i carri armati sono entrati nei villaggi sparando lacrimogeni dentro alle case - un bimbo ci indica i vetri ancora rotti delle finestre - e sparando sulla gente. In quindici mesi sono morte 30 persone in una terra bellissima dove la vita sarebbe invece dolce e tranquilla. Facciamo visita ad una famiglia che non cancellerà mai il ricordo della brutalità dell'esercito: il padre famiglia è sulla carrozzella, paralizzato dalla vita in giù. Quando ha sentito gli spari nel proprio giardino è uscito di casa per chiamare i figli ed è stato raggiunto da una pallottola sparata a distanza ravvicinata.
Qui incontriamo il capo villaggio (così lo definiamo noi). Davanti a tanta saggezza e sofferenza, la forza che sentiamo non è solo quella di noi quattro, ma quella di tutti i compagni rimasti in Italia. E' anche a nome vostro che ci rivolgiamo a questo signore, e ci sentiamo meno impotenti pensando che, una volta tornati, condivideremo con voi l'incontro di questo pomeriggio. Visitiamo poi il villaggio di Deir Istiya e a casa di una gentilissima signora incontriamo alcuni membri della delegazione francese che all'indomani pianteranno alberi di ulivo per salvare i campi, anch'essi martoriati, dalla confisca. Bevendo il te, ascoltiamo le sue parole: "ci provocano perché vogliono cacciarci da qui, ma noi non ce ne andiamo". E' dalla prima Intifada che questo villaggio è abbandonato a sé stesso, tutta l'area è controllata dall'esercito israeliano, tranne il villaggio principale, piccola municipalità autonoma palestinese in cui sono concentrati i servizi, che però non è più raggiungibile.
Nablus, distante pochi chilometri, è ormai lontanissima. La dignità di questa gente, che teme l'oscurità perché può portare con sé nuove incursioni militari, è quella di un popolo che resiste perché è consapevole di voler essere scacciato dalla propria terra o eliminato. E che deve impedire ai propri bambini di lanciare i sassi ai carri armati, altrimenti coloni ed esercito sono legittimati (diritto all'autodifesa) ad aprire il fuoco.
Torniamo a Gerusalemme da soli, Netta ci mette su un pullman che attraversa la Cisgiordania (West Bank) da nord a sud collegando tra loro gli insediamenti. Per i nostri compagni di viaggio, coloni o figli di coloni della nostra età, l'esistenza di un popolo palestinese è la paura che, prima del cessate il fuoco, li minacciava lungo questa bypass road, possibile bersaglio di attentati di Hamas. L'unica traccia.
Neva e Meco
GAZA, 2 GENNAIO 2002
La Striscia di Gaza, lunga 40 km e larga 11, è l'area più densamente popolata al mondo. Vi risiedono un milione e duecentomila palestinesi in circa 360 km2. I tre quarti della popolazione sono profughi o loro discendenti espulsi, dopo la prima guerra arabo israeliana del 1948, da quello che è oggi Israele.
I campi profughi, costruiti e assistiti dalle Nazioni Unite attraverso l'UNRWA, sono delle vere e proprie città di 80.000, 100.000 fino a 160.000 abitanti nel campo di Khan Younis. In base agli accordi di Oslo, Israele mantiene sotto controllo il 42% del territorio della Striscia, porzione che include insediamenti colonici, basi militari, bypass roads, terre per futuri insediamenti, zone cuscinetto lungo i confini e zone gialle (zone popolate dai palestinesi ma controllate dall'esercito israeliano). A parte le zone gialle, tutto ciò è off limits per i palestinesi. Nella realtà l'area sotto il controllo israeliano si estende di mese in mese: l'implementamento di insediamenti, di bypass roads e di conseguenti check point lungo la strada principale che congiunge nord a sud, l'allargamento verso l'interno delle zone cuscinetto lungo i confini impedisce una vita normale anche nelle zone dell'ANP.
Gli insediamenti sono 19 e vi risiedono circa seimila israeliani, inutile dire che le colonie si trovano nelle zone più fertili e più ricche d'acqua. Questo è un dato rilevante in una zona dove l'economia è prevalentemente agricola.
I rappresentanti del Palestinian Centre for Human Rights che ci accompagnano ci dicono che povertà e sottosviluppo sono aumentati dopo gli accordi di Oslo, la situazione si è fatta ancora più drammatica con la seconda Intifada, iniziata nel settembre 2000 dopo la camminata di Ariel Sharon, accompagnato da migliaia di agenti, sulla spianata delle Moschee di Gerusalemme per riaffermare il dominio israeliano sul terzo luogo santo dell'Islam.
Se entrare e uscire dalla striscia di Gaza era prima difficile senza permessi rilasciati dal governo israeliano, ora è impossibile. Da settembre del 2001 sono stati revocati i 25000 permessi a chi lavorava in Israele; a 150 ragazzi di Gaza che studiano all'università di Birzeit è impedito di ritornare a casa; ai malati di essere ricoverati negli ospedali israeliani o palestinesi oltre il confine - 20 sono i decessi appurati fino ad ora per questo motivo.
La strada che percorriamo, l'unica per i palestinesi a congiungere nord e sud, è interrotta in due punti da blocchi dell'esercito israeliano, che in questo modo dividono la Striscia di Gaza in tre parti. Come sempre, questo comporta lunghe deviazioni che causano grossi problemi alla mobilità dei palestinesi; è stato calcolato che si perdono in media 120 ore al mese in attesa ai chek point.
Da questo settembre gli israeliani hanno abbattuto 400 case e danneggiate 100, centinaia e centinaia gli ettari di agrumeti e uliveti distrutti, provocando migliaia di nuovi profughi. Noi visitiamo Qarara, qui decine di famiglie vivono in tende a pochi metri da dove prima c'erano le loro abitazioni. Gli israeliani stanno facendo terra bruciata intorno agli insediamenti con la giustificazione di garantirne la sicurezza. Il vero motivo è la rioccupazione di territori dell'ANP, negli ultimi mesi Israele ha rioccupato solo nella striscia di Gaza 10000 km2 di terra fertile, ignorando gli accordi di Pace da Oslo in poi che imponevano il congelamento degli insediamenti colonici.
Prima di uscire dalla Striscia di Gaza, l'amico del Centro Palestinese per i Diritti Umani che è stato con noi durante la giornata ci dice che da 14 anni non gli è consentito uscire dalla Striscia e che il suo più grande sogno - ma anche di tutti i palestinesi che vivono qui - sarebbe poter andare a Gerusalemme, Ramallah, Betlemme
Le immagini di Gaza scorrono davanti a noi: uomini, donne, bambini che hanno perso tutto, costretti a vivere in un "carcere" a cielo aperto, ma che non hanno perso la determinazione, la gioia, il desiderio di realizzare un sogno: il diritto a una vita "normale", il diritto a muoversi liberamente, il diritto a essere liberi.
L'aereo decolla, tra un po' di ore saremmo di nuovo in Italia con sogno in più.