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Informazione e Disinformazione di guerra: il caso Al Jazeera

Come viene gestita L'informazione in periodi di guerra? Cosa ci e' stato raccontato sugli ultimi conflitti iraqueni? E i media, sono cosi indipendenti come ci vorrebbero far credere? Cosa ha significato l'avvento di Al Jazeera nel paronama mediatico mondiale? Sono queste alcune delle domande che abbiamo posto a Francesco Congiu, autore di un interessante libro sul 'management' dell'informazione durante i conflitti bellici: "Ho deciso di affrontare questo tema sia per una questione di interesse personale sia per offrire un piccolo contributo al movimento più in generale".
a cura di Piero Loi e Gualtiero Manin

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congiu D: “Informazione e disinformazione di Guerra: il caso Al Jazeera” è il titolo del tuo libro. Da dove nasce questo interesse per tali tematiche e perché?

R: Il tema centrale della trattazione è il ruolo dei media all'interno dei conflitti combattuti tra il XX e il XXI secolo, con particolare attenzione agli ultimi due conflitti iraqueni. Per quanto riguarda queste due guerre mi è sembrato importante soffermarmi sulla narrazione degli avvenimenti che ha fatto Al Jazeera e, quindi, sui diversi punti di vista che questa emittente ha adottato per descrivere l'ultimo conflitto. In quel periodo, oltre a dover redigere al tesi di laurea, partecipavo al movimento contro la guerra e, dovendo fare un lavoro di orientamento giornalistico, ho deciso di affrontare questo tema sia per una questione di interesse personale sia per offrire un piccolo contributo al movimento più in generale.

D: Perché la stampa avrebbe interesse a sostenere la guerra? E' solo una questione economica, di audience, di ‘esclusive’, quindi di soldi e di pubblicità, o c'è dell'altro?

R: In generale si può dire che, seguendo Pierre Bordieu, nei periodi di crisi il “campo politico” assume una tale superiorità sugli altri campi da riuscire in definitiva a dettarne l'agenda.
In situazioni di crisi, infatti, il campo politico attua una serie di sanzioni nei confronti del giornalismo, mi riferisco in particolare alla “scomunica disfattista” e “collaborazionista” che viene lanciata nei confronti di chiunque non si omologhi al discorso dominante sulla guerra. A tutto ciò va sommato il problema della proprietà dell'emittente, di solito grandi gruppi industriali, che hanno interesse ad avere rapporti privilegiati con interlocutori politici. Tutto questo porta a quello che si può definire la creazione di un "business patriottico".

Trasmettere immagini sconvenienti e forti che possano turbare il pubblico, infatti, non è certo cosa gradita a chi investe in pubblicità. Anche per questo la guerra diviene, paradossalmente, umanitaria, non vengono cioè mostrati i suoi orrori. Quindi, per rispondere alla tua domanda, in situazioni di guerra si mette in moto un complesso circuito mediatico che incorpora dentro di se sia poteri politici che economici che mediatici. Nel complesso questo sistema va a sostenere quelle che sono le versioni ufficiali che 'debbono' essere sostenute.

D: Nel tuo libro parli di vere e proprie fiction che il mondo dell’informazione avvalla per vendere meglio la guerra. A questo proposito fai l'esempio del gruppo “Citizen for Free Iraq” che, all'indomani del primo conflitto del golfo, denunciò al mondo un presunto rapimento di bambini kuwaitiani da parte di miliziani iraqueni che li prelevarono direttamente dalle incubatrici...

R: Si, prima che scoppiasse il primo conflitto iraqueno l'amministrazione Bush si trovava di fronte ad una serie di problemi: innanzitutto doveva convincere l'opinione pubblica mondiale che uno stato del terzo mondo fosse una minaccia per l'umanità; secondariamente doveva far dimenticare al grande pubblico globale che Saddam fino a due anni prima era uno stretto alleato degli States.
Escluso, quindi, che si potesse raccontare delle reali atrocità che erano state commesse, si preferì ricorrere alla fiction.

Come io descrivo verso pagina 60 del libro, venne letteralmente istruita una bambina kuwaitiana sulla storia che avrebbe dovuto raccontare sul grande palcoscenico mediatico globale. Questa storia raccontava di 312 bambini strappati dalle incubatrici e lasciati morire sul pavimento dell'ospedale di Kuwait City. Il bello è che questa dichiarazione venne utilizzata di fronte al Consiglio di Sicurezza dell'ONU come prova evidente del fatto che bisognava approvare la risoluzione che legittimava l'uso della forza contro l’Iraq. Solo in seguito si venne a sapere che era un falso. Di queste pseudo-notizie è pieno sia il primo che il secondo conflitto del golfo.

Questo ci porta alla conclusione che l'informazione non è più un oggetto da manipolare o censurare a seconda degli obiettivi bellici, ma viene essa stessa utilizzata strumentalmente per promuovere e vendere guerre.
Se dovessi fare dei paragoni direi che quello che è stato fatto ha avuto dinamiche simili ai dispositivi pubblicitari in cui, per vendere un prodotto, non vengono utilizzate argomentazioni razionali ma il tutto viene giocato più semplicemente sull’ irrazionalità e sulla emozionalità dello spettatore.
Nel caso specifico della guerra iraquena è stata utilizzata la paura.

D: Quali differenze di news management rilevi nella trattazione mediatica dell’attuale guerra in Iraq rispetto a quella del ‘90/91?

R: La prima guerra del golfo è stata la prima guerra televisiva ma anche una delle più misteriose mai combattute. Noi ci illudemmo di seguirla in diretta sebbene le immagini della guerra si ridussero ai traccianti della contraerea iraquena. Eppure queste poche immagini riuscirono a convincere l’opinione pubblica del fatto che la censura non aveva prevalso sull’informazione di guerra.

La seconda guerra irachena, il sequel, si è svolto invece in un contesto mediatico completamente diverso. Se nel 1991 una sola emittente satellitare poteva trasmettere da Baghdad, la Cnn, nel 2004 la tecnologia satellitare era, invece, già esplosa: qualsiasi giornalista munito di videotelefonino poteva riprendere le immagini dal fronte; per di più nascono ora anche le emittenti arabe che, con l’avvento di Al Jazeera, s’impongono come nuovi attori nel panorama mediatico.

Nel 2003 l’amministrazione Bush aveva quindi due dilemmi: da una parte doveva mobilitare l’opinione pubblica contro il nemico, presentandolo come il male assoluto da sconfiggere, dall’altra parte, per contrastare ‘il potenziale di disinformazione’ delle emittenti arabe decise di attuare un’altra strategia mediatica arruolando i giornalisti. I giornalisti cosiddetti ‘embedded’, ovvero allineati, vivono e mangiano insieme ai soldati e sviluppano nei loro confronti dei sentimenti di lealtà, oltre a basarsi sui dispacci del Comando generale americano per costruire gli articoli. Si capisce come da questa pratica ci fosse tutto da guadagnare e nulla da perdere.

D: Quante narrazioni della guerra ci sono state?

R: Tre narrazioni mediatiche diverse: da una parte la narrazione degli ‘embedded’ per il pubblico americano, che presentava e presenta la guerra come asettica, chirurgica ed umanitaria; c’è stata poi, in parallelo, la narrazione dei media arabi che invece mostrava gli effetti devastanti della guerra, le morti, la distruzione e la miseria; infine c’è stata la narrazione europea che si è collocata nel mezzo, vale a dire che i media europei hanno attinto sia dalla narrazione americana che da quella araba.

E’ anche per questo motivo che l’opinione pubblica europea è stata generalmente più scettica rispetto all’opportunità di fare la guerra in Iraq, mentre, al contrario, l’opinione pubblica americana era in maggioranza favorevole alla guerra, tanto che gli americani hanno riconfermato Bush alla Casa Bianca.

D: Cosa ha fatto l’amministrazione Bush per limitare i danni che Al Jazeera poteva arrecarle?

R: Al Jazeera venne visto come un obiettivo da bombardare. Dal momento che l’informazione diventa una parte integrante della strategia bellica, tutta l’informazione ostile viene vista come un nemico da abbattere. Diventa cioè un obiettivo legittimo come già lo era stato la televisione di stato iraqena nel ’90 e come quella serba nel 1998. Spia di tutto ciò è pure il fatto che, in proporzione alla sua durata, la seconda guerra del golfo ha registrato un numero di giornalisti non allineati uccisi più elevato anche della seconda guerra mondiale. Proprio la sede di Al Jazeera venne ripetutamente bombardata. Si può ricordare come emblematico anche il fatto dell’hotel Palestine: quell’albergo, che ospitava giornalisti non allineati, è stato bombardato da un carro armato americano

D: Si può parlare di un’influenza sul mainstream da parte di emittenti come Al Jazeera o da forme di giornalismo autoprodotto che utilizzano la rete come canale preferenziale?

R: Sicuramente si. La cosa importante è il fatto che nelle prossime guerre considereremo i punti di vista come parziali e ci fideremo meno dei media. Però, se andiamo a vedere la trattazione mediatica degli avvenimenti bellici rivolta all’opinione pubblica interna americana, difficilmente si può affermare che questa abbia ricevuto delle influenze dai blog o dalle emittenti che esprimevano un punto di vista diverso da quello ufficiale.

L’ emblema del blackout informativo negli Stati uniti è la doppia programmazione della Cnn: mentre Cnn international mostrava anche le immagini di Al Jazeera o degli altri networks, Cnn America si guardava bene dal diffondere immagini di quel tipo, piuttosto le censurava. Gli americani non hanno visto niente di quello che abbiamo visto noi e non si può certo dire che noi abbiamo visto tutto. Certo, poi, c’è pure chi s’informa tramite la rete ma in questo caso siamo di fronte a persone che sono già critiche rispetto al punto di vista fornito dal mainstream. Lo spettatore medio questo non lo fa e i media fanno il lavoro sui grossi numeri. Questo spiega, in parte, anche la rielezione di Bush alla Casa Bianca.

D: Pochi giorni fa, presso la sede principale di Al Jazeera, si è svolta una conferenza a cui hanno partecipato giornalisti di tutto il mondo. Intenti a ragionare sulla deriva della spettacolarizzazione e della drammatizzazione della notizia hanno provato a rimettere in discussione il vecchio moto giornalistico ‘bad news is a good news’. Per Al Jazeera sarebbe percorribile una strada opposta a quella adottata dai suoi competitori internazionali?

R: La cosa particolare di Al Jazeera è che, seppure esiste una tendenza consolidata alla drammatizzazione, questa emittente vuole e ha sempre provveduto a fornire il contesto nel quale i fatti accadono. Questo significa approfondire riducendo la drammatizzazione, come dire che Al Jazeera si occupa anche delle cause che stanno dietro agli eventi. Ed è implicito in questo anche il tentativo di limitare il cosiddetto giornalismo fast food delle breaking news per le quali non è prevista nessuna forma di approfondimento. Il problema delle breaking news nasce dal fatto che queste danno allo spettatore l’idea di vivere in un eterno presente e certo non stimolano a ripescare il passato o il contesto come chiavi di conoscenza. Ad ogni modo una brutta notizia rimarrà sempre una buona notizia.



Note sull'autore:

Francesco Congiu (1977), si è laureato in Scienze della Comunicazione all'Università di Bologna, discutendo la tesi da cui è tratto questo libro. Ha collaborato, come redattore, con la rivista bolognese "Zero in Condotta" e per alcuni portali di informazione web. Ha lavorato, come copywriter, presso Interattiva, una software house milanese specializzata nel Digitale Terrestre. Attualmente lavora come Content Manager presso "Abbeynet", una azienda informatica attiva nel campo della comunicazione VoIP. E' alla sua prima pubblicazione.

Note sul libro:

Titolo Informazione e disinformazione di guerra. Il caso Al-Jazeera
Autore Congiu Francesco
Prezzo € 12,00
Dati 2007, 218 p., brossura
Editore Prospettiva Editrice (collana I territori)

Distribuzione:

A Bologna il libro è disponibile presso la libreria MODO Infoshop, in Via Mascarella 24/b.