Giuliano Giuliani ha partecipato, la settimana scorsa, a un’assemblea all’Università organizzata dalla Sinistra Giovanile. Abbiamo colto l’occasione per realizzare un’intervista che, nei suoi contenuti, è molto di attualità. Marco Trotta, l’intervistatore, ci ha detto che l’incontro col padre di Carlo Giuliani è stata, umanamente, un’esperienza straordinaria.
In questi giorni sono emersi nuovi particolari su quello che è successo il 20 Luglio in Piazza Alimonda, ce ne vuoi parlare?
«Sì, la novità è sui bossoli ritrovati: sono due e secondo una perizia del perito d’ufficio, Valerio Cantarella, hanno bassissima compatibilità tra di loro quindi potrebbero non essere stati sparati dalla stessa arma. Questo dimostra che la verità su quello che è successo è ancora di là da venire, bisognerà proseguire l’indagine con molta serietà e fare tutte le verifiche del caso per capire cosa è successo. Però è possibile già oggi dire alcune cose che non temono smentita. Uno: i colpi esplosi sono due e quello che uccide Carlo è il primo, come dimostrano tutti i filmati, perché quando viene esploso il secondo Carlo è già sotto il defender e inoltre la folla intorno è già scappata. Questo mi fa pensare che se il primo fosse stato sparato in aria oggi Carlo sarebbe ancora vivo. Due: noi siamo abituati a valutare la distanza di Carlo dal defender usando la famosa immagine della Reuters che però è stata scattata con un potente teleobiettivo che ha prodotto un effetto schiacciamento. Qui anche la relazione di minoranza è stata equivoca. Carlo sembra vicinissimo, ma quando viene colpito è sicuramente a più di tre metri dal defender. Per lo stesso motivo sembra che la distanza di Carlo dal muro all’angolo del bar di quella piazza sia di circa cinque metri, comprendendo il defender e lo spazio di ingombro del cassonetto. In realtà, in quel momento, Carlo si trova dal muro a oltre sedici metri. Su Rai Net c’era anche una foto che documentava questo, ma che è circolata poco e ora mi sembra che non sia neanche più disponibile. Questa cosa può mettere in discussione la tesi della legittima difesa sostenuta fino ad ora ma noto anche che c’è una sorta di censura sui materiali visivi che non accreditano fino in fondo una tesi. Io ho lavorato su materiale esclusivamente di dominio pubblico».
Tu, però, hai dichiarato di avere ancora fiducia nella magistratura.
«Certamente perché io sono un uomo che per la mia storia politica e sindacale che viene da lontano, ho sempre avuto fiducia nelle istituzioni e voglio continuare a conservarla. Spero che la verità venga fuori tutta anche se mi rendo conto che è cosa molto complicata. Altra cosa, però, è la valutazione sull’operato del vice-presidente del consiglio Fini che all’indomani della morte di Carlo aveva già emesso una sentenza dall’altro della sua carica: legittima difesa. Io sto ancora aspettando di avere qualche spiegazione meno inricevibile del “portare solidarietà”, sulla presenza di parlamentari di alleanza nazionale che per sette ore e mezza sono rimasti nel centro di coordinamento dei carabinieri a Genova».
Cosa pensi di Mario Placanica, il carabieniere che ha sparato?
«Di aver sparato lo ha dichiarato lui, e quindi la sua responsabilità personale resta. Ma ancora più grandi sono le responsabilità di chi ha diretto, di chi ha deciso che si poteva sparare, di chi non ha voluto fermare i cosiddetti black bloc, di chi li ha usati per giustificare aggressioni terribili a giovani e meno giovani assolutamente inermi e pacifici, di chi ha creato artificiosamente un clima pazzesco. Di chi ha cercato di ridurre al silenzio la voce di dissenso e di critica che si manifestava a Genova. Queste responsabilità vanno individuate e colpite severamente. E’ la condizione per ripristinare un clima di fiducia e di stima nei confronti delle forze dell’ordine da parte della società civile, che a Genova si è incrinato. Quel clima di fiducia e di stima che personalmente ho sempre avuto e continuo ad avere, distinguendo sempre fra chi compie con abnegazione il proprio dovere e coloro che, e per fortuna non sono tantissimi, a Genova non lo hanno fatto».
So che in questi giorni diverse scuole occupate ti hanno chiamato in alcune assemblee. C’è quasi qualcuno che dice che finalmente i giovani tornano a farsi sentire, forse perché c’era poca sensibilità all’ascolto prima. Tu quanto hai visto dell’impegno di tuo figlio nelle facce dei ragazzi che stai incontrando in questi giorni?
«Io vedo che questo movimento segna davvero il risveglio di una generazione che sembrava assopita. Probabilmente anche ad occhi disattenti, ma non c’era un impegno visibile così forte. Sono convinto che questi giovani che sono figli di una società del benessere (perché, pur con diverse sacche di povertà, la maggioranza in Italia vive in sufficiente benessere). Ma sono anche molto generosi e quel benessere sono disposti a metterlo in gioco e si battono per degli ideali di giustizia, un sogno che forse il mondo degli adulti ha un po’ perso. Sono un elemento di grande positività che possono e debbono aiutarci a ritrovare voglia di fare delle cose che abbiamo il senso della giustizia. Viviamo in un mondo drammatico, tragico, con un termine forte: schifoso. E allora è necessario che ci sia una rivolta morale contro le cose che vediamo e mi pare che i giovani siano protagonisti perché vogliono cose più serie, più giuste, che non siano concesse dall’egoismo personale ma scaturiscono da un senso di solidarietà vera con la gente di questo paese e con la gente del mondo. E siccome al mondo che troppa gente che soffre in modo indecoroso se pensiamo alla mancanza di diritti elementari come il cibo, l’istruzione, l’acqua. Sono cose che gridano vendetta. Forse noi abituati a stare meglio non ce ne siamo accorti. I giovani, e Carlo fra questi, queste cose le vedevano e ritengono che siano intollerabili».
Quali credi che siano le differenze sostanziali tra un movimento come quello che ha visto la tua generazione protagonista trent’anni fa contestare un modello di società contestando anche i padri, e quello oggi fatto anche da figli di quei contestatori?
«Credo che la differenza sostanziale sia il senso di solidarietà verso gli altri. I movimenti a cui ho partecipato guardavano alla difesa, per carità legittima, di interessi e tutele anche personali di quelli che si battevano. Oggi vedo in questi giovani una capacità solidale molto più forte. E non è un caso che una gran parte di questi giovani, e lo dice uno di forti convinzioni laiche, siano cattolici che vivono con grande dignità e senso di giustizia la loro fede. Anche per questo il movimento fa paura, perché segna un risveglio forte di persone che tenacemente vogliono perseguire questi ideali di giustizia nel segno della solidarietà. Questo è un grande valore che spero inforni maggiormente l’operato di chi ha il potere e si affanna a fare dell’altro piuttosto che a dare risposte».
Pensi che in Italia ci sia una classe politica, al governo o all’opposizione che abbia le capacità o possa dimostrare di saper ascoltare le cose che questo movimento denuncia e quelle che propone?
«Credo che ci voglia un grande sforzo ed una grande alzata di ingegni. Il mio giudizio su questa maggioranza è molto negativo. Sono convinto che il nostro paese stia attraversando una fase umiliante ed inquietante. Però vedo che anche nel settore dell’opposizione ci vorrebbe un colpo d’ala. Siamo al di sotto di quelle che sono le necessità oggi di comprendere e di battersi. Mi auguro che questa cosa possa essere risolta e sono convinto che un contributo forte potrà venire da questo movimento di giovani per le caratteristiche già dette. Bisognerà essere capaci di raccogliere contributi ma anche di darne. Io, personalmente, non ritengo giusta l’etichetta “no global”, sintetica e mediatica, col quale si definsce spesso questo movimento. Non tutto quello che è dentro la globalizzazione sia da buttare via. Sono ancora convinto che essa vada governata, ma certo il contributo di contestazione agli aspetti più negativi deve servire per scegliere le cose più positive e importanti. Io sono legato al concetto della “globalizzazione dei diritti”, per la mia lunga esperienza sindacale e questo è un fatto positivo. Una globalizzazione sotto il segno della solidarietà e della rivincita morale necessaria con i tempi che corrono».
Dopo Genova, quelle che il movimento aveva indicato come contraddizioni nel sistema, probabilmente sono drammaticamente venute fuori negli attacchi terroristici del 11 Settembre e nell’inizio dei bombardamenti sull’Afghanistan il 7 Ottobre. Tu, quando hai partecipato alla Marcia della Pace ad ottobre, ti sei dichiarato a favore di quella guerra ben sapendo che lì c’era lo stesso movimento di Genova che era contro. Dopo tutto quello che è successo faresti ancora la stessa scelta?
«Io penso che la guerra è di per sé una cosa che mette le mani nelle viscere. Quando fui intervistato non dissi che ero a favore della guerra, ma che anche l’uso della forza può essere a volte inevitabile. Ma in quell’”anche” ci metto dentro tantissime cose. La comunità internazionale non può limitarsi a bombardare, deve anche portare un aiuto vero a popolazioni in quelle condizioni, aiuto vero alla soluzione dei tanti problemi di conflitti nel mondo che offrono alibi a chi pratica o predica iniziative terroristiche che nulla hanno a che fare con la soluzione dei problemi ma guardano a ben altre cose. Sono perché le forze d’interposizione riescano a risolvere conflitti che si trascinano da anni e producono lutti e devastazioni vergognosi ed intollerabili, o che dovrebbero esserlo e ancora non lo sono. Penso che la comunità internazionale debba fare tante altre cose oltre a perseguire il terrorismo. Io ricordo, poi, che la guerra è cominciata l’11 settembre, ma fermasi ai bombardamenti mi sembrerebbe aggiungere sciagura a sciagura. Io mi auguro che non ci sia volontà di ulteriori allargamenti e mi auguro che la pace possa venire davvero come conquista di tutta la parte onesta e libera del mondo. Rispetto a questo non dobbiamo perdere nessuna forza che può essere messa in campo. Io ho partecipato a quella marcia perché considero la pace il bene più alto che ci sia pur avendo le mie posizioni sul significato dell’uso della forza».
E allora tu che diresti al movimento che si è schierato da subito contro la soluzione bellica?
«Certamente di continuare perché mi pare che sia una posizione degna del massimo rispetto ma anche non avere posizioni pregiudiziali di chiusura rispetto ad altre aspirazioni alla pace che ci sono e vanno valutate. E poi anche che chi si oppone alla pace, sull’altro campo, va messo nelle condizioni di non nuocere ad un processo di pace».
Probabilmente Genova, per chi c’è stato e forse non solo, rimarrà nel ricordo di tante persone con una commistione di “pubblico” e “privato”. Per cosa vorresti che fosse ricordata Genova e per cosa vorresti che fosse ricordato Carlo? Quale messaggio manderesti ai ragazzi, a chi tornerà ancora in piazza a chiedere un mondo diverso possibile?
«Io credo che è sempre importante conservare la memoria di tutti gli avvenimenti che segnano la storia della società come le vicende personali. Ricordo una frase di Claudio Magris, letta recentemente: “La memoria non è né vendetta né rancore, ma è custode di verità e di libertà”. Per questo noi dobbiamo ricordare ed ovviamente io non potrò perdere la memoria di Carlo. Mi piacerebbe che venga ricordato per la sua voglia di giustizia, che era un elemento forte, caratteristico del suo di pensare. Abbiamo sempre discusso tanto, a volte anche litigando, ma una cosa che non perdeva mai era la sua lealtà ed il fatto che quando esprimevamo pareri diversi intorno alle cose ti guardava sempre negli occhi a testimonianza che le cose che diceva, anche quando il confronto era acceso ed aspro, non le diceva mai contro di te, ma sulla base di una forte convinzione che era segno di lealtà ed onestà. Credo che sia una cosa importante che spero possa essere presa da esempio».