Intervista a Giulietto chiesa sullo “scontro di civiltà” seguito agli attentati dell’11 settembre

La legge del più forte


21 dicembre 2001 - Elisa Sangiorgi

Tra i diversi relatori (Tortorella, Salvi, Casarini, Agnoletto, Casarini, Rinaldini, Bettin, Bersani, Giordano) che hanno partecipato alla straordinaria assemblea del Tpo del 17 dicembre, organizzata dal centro sociale, insieme a Zic, Radio Città 103, Attac e Associazione Rinnovamento della Sinistra, Giulietto Chiesa è stato sicuramente quello più apprezzato per le cose che ha detto sulla guerra in Afghanistan. Siamo riusciti a sottrarlo ai tanti ragazzi che gli ponevano domande o gli chiedevano di firmare uno dei suoi libri. Ne abbiamo approfittato per realizzare questa intervista.

Chi crede che sia davvero in atto uno scontro di civiltà? Come analizza la situazione attuale?

«E’ diventato propriamente uno scontro di civiltà soltanto dopo l’11 settembre: in questa data è cambiato l’equilibrio mondiale. Prima era sicuramente in corso uno scontro di classe tra ricchi e poveri, ora vi è anche uno scontro tra Occidente e Islam: la contraddizione tra queste due realtà è stata volutamente esacerbata.
Ci sono due modelli di vita completamente diversi, due visioni del mondo opposte, entrambe agghiaccianti. Bin Laden propone un modello di società che trovo tremendo, ma allo stesso tempo l’Occidente sta rispondendo a questa barbarie con un’altra barbarie. Nelle democrazie avanzate assistiamo alla fine dello stato di diritto, non c’è più alcun limite alla violenza. Chi rinuncia ai valori dell’Occidente sono in primo luogo gli stessi occidentali: basta pensare ai tribunali segreti, alla richiesta americana di estendere la pena di morte anche in Europa e alla limitazione delle libertà individuali. E’ la fine di ogni criterio di giustizia, il trionfo della legge del più forte. Questa guerra non prevede limiti: una volta che riusciranno a uccidere Bin Laden, si inventeranno nuovi nemici, l’Iraq, la Somalia... c’è la volontà di un dominio totale, siamo oramai in pieno nell’epoca dell’Impero. Lo scontro di civiltà è stato alimentato dagli Stati Uniti come risposta alla crisi della propria economia: la guerra è la conseguenza diretta della involuzione dell’egemonia americana. Insomma poichè il dominio economico vacilla, la parola passa alle armi».

In che senso si può parlare di crisi dell’economia americana?

«Noi siamo cresciuti pensando che il modello americano fosse il migliore, che fosse in grado di produrre ricchezza per tutti. Pensavamo che fosse esportabile e che la produttività potesse essere illimitata: almeno questo è quello che hanno voluto farci credere. Ma era un’illusione, una specie di inganno che è entrato in crisi negli ultimi anni Novanta. L’economia americana era in odore di recessione da anni, rischio che si sta realizzando in questi giorni. Molti altri mercati sono crollati contemporaneamente: si pensi alle borse asiatiche e alla svalutazione monetaria in America Latina. Gli effetti sul mondo del lavoro sono devastanti: basta pensare all’ondata di licenziamenti dopo l’11 settembre. La risposta a questa progressiva destabilizzazione dell’egemonia americana è stata la guerra».
Cosa pensa del ruolo dell’Europa in questo contesto?
«Non esiste una sola Europa, ma due. La prima è quella dei parlamenti e dei popoli, la seconda delle multinazionali, che è più americana dei capitali americani e ha sede a Wall Street. E’ questa Europa che decide qual’è la politica da farsi, che fa pressioni politiche enormi; tutti i leader europei hanno un margine di azione limitato perchè sono ricattati. Non ho alcuna fiducia nelle potenzialità politiche dell’Unione Europea perchè in questo periodo è totalmente subordinata agli Stati Uniti».
Sta parlando di una destabilizzazione del progetto politico europeo?
«Sì. La guerra in Kosovo e questa in corso in Afghanistan sono state costruite per distruggere definitivamente l’Europa. La prima era preventiva: con essa gli Stati Uniti hanno voluto mostrare la propria forza sullo stesso territorio europeo. Ora invece stanno trascinando i leader europei in una guerra infinita, facendo leva su un qualche oscuro potere di minaccia. Se prima del vertice di Laeken infatti le voci di dissenso ad una prosecuzione del conflitto in altre zone al di fuori dell’Afghanistan erano molte, ora si sono azzerate. Il nuovo statuto della Nato, votato nel 1999, non è che una sanzione formale a questo stato di cose».

Che cosa dobbiamo aspettarci?

«La risposta degli Stati Uniti all’11 settembre è stata cieca, disperata. Stanno trascinando il mondo in una guerra di cui loro stessi non sanno vedere la fine. Altra cosa è pensare se vinceranno: l’Occidente potrebbe anche perderla, questa guerra. Abbiamo costruito, negli ultimi venticinque anni, una società basata sul denaro, sul successo, sulla legittimazione del più forte. Il mondo è diventato uno, con tanti nemici che non si riconoscono in questo modello e si allenano per combatterlo. Oggi a Peshawar 500 giovani hanno manifestato per la Jihad. Quando uccideranno Bin Laden quanti diventeranno? Cinquemila? Cinquantamila? E non più soltanto a Tel Aviv. Continuando così, la minaccia del terrorismo diverrà una realtà anche in Europa, ci sarà sempre meno sicurezza. I parlamentari che hanno votato a favore di questo intervento non hanno capito la portata del proprio gesto. Dovranno fare i conti con una guerra continua – qualcuno sta già dicendo che non riusciremo a vederne la fine – e con una diminuzione di tutte le libertà.
Questo modello di globalizzazione capitalistica provoca inevitabilmente un flusso di migranti verso il primo mondo. I popoli verranno da noi e saranno sempre di più. Nessuno può risolvere i problemi del mondo senza chiamare gli altri. Se questa gente imparerà dalla parte migliore dell’Occidente i propri diritti, l’antagonismo alla globalizzazione attuale sarà imponente. Il movimento che si è costituito potrà unirsi ai migranti e proporre un’analisi delle contraddizioni di questo sistema. Se questo movimento riuscirà a trovare le forme per fare questo, un altro mondo sarà davvero possibile, ci sarà l’opportunità di cambiare le cose».