IL LIBRO “LA STRAGE DI STATO”
Il 12 dicembre 1969, con le bombe a Piazza Fontana, cominciava la “strategia della tensione”
Tra il 1969 e il 1984, in Italia, sono avvenute otto stragi politiche dalle caratteristiche comuni: tutte hanno visto coinvolti personaggi appartenenti alla destra eversiva, in tutte sono emerse protezioni, connivenze, responsabilità di appartenenti agli apparati dello Stato, tutte sono rimaste per molto tempo senza spiegazioni ufficiali, senza colpevoli e senza mandanti. In quindici anni sono state assassinate, oltre seicento sono rimaste ferite in attentati stragisti che, ancora oggi, nella quasi totalità dei casi, sono rimasti impuniti.
Si è fatto di tutto intorno alla strage di piazza Fontana, a Brescia, Bologna, Ustica, compresi i processi. Di tutto non per scoprire la verità, ma per occultarla. La verità storica e politica è rimasta per anni patrimonio dei movimenti, imbrigliata dai silenzi, omissioni, depistaggi, fino all'apposizione del segreto di stato, poi è diventata senso comune di larga parte del paese, senza che a ciò corrispondesse però azione adeguata.
Anzi, ancora oggi è piegata agli interessi di chi la vuole complice nella conservazione dell'esistente.
I giorni nostri sono percorsi da un forte vento di destra, spesso con egemonia culturale e sociale. Ovviamente il riformarsi di un “consenso di massa” alle nuove forme del fascismo richiederebbe un’assai lunga e complessa analisi, ma è utile ricordare una indicazione/profezia di Pier Paolo Pasolini (del settembre ’62): “Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: ma occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di un società”.
Il titolo Strage di Stato non a tutti piacque. Anche nella sinistra extraparlamentare nella quale molti degli autori militavano molti pensavano che la strage fosse fascista, forse con qualche copertura o complicità di apparati statali. La storia ha dimostrato che non era così. Anche le successive stragi degli anni ‘70/80 (piazza della Loggia, Italicus, strage alla stazione di Bologna, ecc) hanno confermato, fuor di ogni dubbio, che lo Stato promuoveva o consentiva stragi e delitti eccellenti, spesso gestendoli in prima persona e comunque coprendoli: ultimi esempi Ustica, Casalecchio di Reno, la morte di Ilaria Alpi, le navi dei profughi speronate e il Cermis: crimini di guerra e di pace, sempre con la stessa logica del puro dominio.
L’inchiesta fu militante/collettiva e così la diffusione del libro. Fu anche una indicazione di metodo che oggi vogliamo/dobbiamo rilanciare. Tanto più che se alla fine degli anni ‘60 e inizio dei ’70 ancora esistevano taluni spazi d’informazione più o meno liberi, oggi si sono ridotti al lumicino. Difficile credere che qualche giornalista “normale” oggi indagherà sui delitti/bugie di Stato (la guerra ’99 della Nato, per dire il fatto più grave) e comunque che queste inchieste avranno un’eco. Non possiamo però tacere che molti/e oggi chiudono le orecchie, preferiscono non sapere. Dobbiamo dunque informarci da soli e contro-informare con le forze che abbiamo, trovando il modo di sturare le orecchie e aprire le menti cloroformizzate.
In copertina a Strage di Stato ci sono i gendarmi di Pinocchio o forse i carabinieri di Valpreda; continuità dello Stato forte con i deboli e debole con i forti. Viviamo sempre più all’interno d’una nazione-poliziotto e in una rete di sbirri mondiali: impediscono agli esseri umani di passare le frontiere proprio mentre capitali, armi e veleni non hanno confini; affamano interi continenti e uccidono (o imbavagliano, se si vive nella parte privilegiata del mondo) chi ne spiega le vere ragioni; si lamentano in Italia della sicurezza (imbrogliando sui dati, diffondendo razzismo) mentre ogni giorno 4/5 persone muoiono in Italia nei luoghi della produzione, per colpa provata di un’organizzazione del lavoro criminale; c’è anche chi vorrebbe sempre più portare il poliziotto/prete dentro le nostre camere da letto. Trent’anni dopo abbiamo la certezza o forse solo la conferma che esiste un filo, un continuum fra lo Stato armato e terrorista e la piccola/spiccia repressione, fra i grandi trafficanti d’armi internazionali (che poi piangono sulle vittime e organizzano le “missioni Arcobaleno”) e il tentativo di controllare e/o ingabbiare le nostre esistenze. Un discorso lungo e complesso che, come altri, qui accenniamo solo. Noi crediamo che questo filo vada spezzato, ovunque sia possibile. Non abbiamo grandi organizzazioni/energie per farlo, anzi come direbbe Totò, “alla forza pubblica possiamo opporre solo la nostra privata debolezza”. Però lo faremo e invitiamo a farlo ogni giorno: “Dire mai al Mai” o altro ancora, i nomi contano poco, è come s’agisce quel che fa la differenza. Se un anello della catena dello Stato poliziotto viene lacerato, più facile sarà che anche altri anelli si spezzino. E viceversa: ogni volta che chiudiamo gli occhi sui diritti di “un altro/a”, perché non sappiamo identificarci con lui/lei, stiamo saldando una catena che stringe/stringerà il collo di tutti/e. Perché lo Stato globale oggi è una falsa democrazia che in realtà si basa sulla dittatura degli 850 leader che si riuniscono al Forum internazionale di Davos (e possiedono il 95% o giù di lì dei massmedia mondiali, tanto per dare un’idea) e che hanno 50 mila “luogotenenti” per controllare qualche miliardo di consumatori a Nord (se sono buoni, altrimenti diventano criminali) e di schiavi al Sud (che se provano a ribellarsi vengono uccisi con le armi, con gli embarghi o con “le politiche di aggiustamento strutturale” della Banca mondiale). Oggi come ieri, lo ripetiamo: ribellarsi è sempre giusto, possibile, necessario.
Anche questa riedizione è firmata solamente dai nomi di due compagni (Edoardo e Marco) che nel frattempo sono morti; perché materialmente ne scrissero gran parte ma anche per ricordarli. Nel ‘97 è morto anche Edgardo Pellegrini, uno dei tanti/tante che ci diede una mano: per lui - scrive la sua compagna Elettra Deiana - “il metodo che portò alla stesura di Strage di Stato fu sempre un punto di riferimento, una memoria feconda anche per l’oggi”. Gli altri/le altre coautori non ci tengono a far sfoggio dei loro nomi, anche se sono orgogliosi di aver preso parte a quest’impresa. La ragione di questo essere “anonimi” ben la spiega Sarina (la poetessa del gruppo): “nel regno dell’avere, al tempo della ufficializzazione del nulla, chi aspira a essere non può che essere clandestino”. O, se preferite una versione più politica, noi comunque (con il triste privilegio dell’età, in parole povere pur invecchiati e ingrassati) continuiamo a sentirci parte d’un grande movimento, ad aver senso/ragione solo dentro questa mobile, eterogenea folla che combatte “lo Stato presente delle cose”.
Non siamo dunque pentiti di questa contro-inchiesta (anzi ne siamo assai fiere/i), come non siamo pentiti d’aver lottato e di continuare a farlo (ognuno/a a suo modo), dopo 30 anni. Ci sentiamo di sottoscrivere quanto, nel ’95; scrisse un “pazzo” compagno statunitense, Albert Hoffman, in prima fila nel movimento degli anni ‘60/70: “Certo, eravamo giovani. Certo, eravamo arroganti. Eravamo ridicoli, eravamo eccessivi, eravamo avventati, sciocchi. Ma avevamo ragione”. Avevamo ragione noi, anche su questo: la strage è di Stato. E diciamo a voi, gente perbene, che “per quanto vi crediate assolti”, come cantava allora Fabrizio De Andrè, “noi verremo ancora a bussare alle vostre porte”, perché siete sempre - e per sempre - tutti coinvolti.
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COME LO STATO SI ASSOLVE
Fra tragedie e involontario humor nero, ecco una cronologia essenziale sui principali “misteri d’Italia”dall’uscita del libro “Strage di Stato” a oggi
22 luglio ’70: attentato al treno Freccia del Sud: 7 morti e 139 feriti a Gioia Tauro. Classificato come disastro colposo (dei ferrovieri) ma nel ’95 finirà sotto processo un mafioso pentito con due parlamentari ex missini e ora di Alleanza Nazionale (Aloi e Meduri) più altri esponenti di destra e ‘ndrangheta.
8 dicembre ’70: i congiurati sono pronti ma all’ultimo minuto il golpe capitanato dal fascista Junio Valerio Borghese è bloccato.
12 dicembre ’70: manifestazione a Milano contro la “strage di Stato”; un candelotto lacrimogeno della polizia uccide lo studente Enzo Santarelli.
5 marzo ’71: una riunione della P2 (di cui allora nulla si sa) traccia le linee guida si un governo “autoritario”.
13 aprile ’71: il giudice di Treviso Giancarlo Stiz emette mandati di cattura contro 3 neofascisti veneti (Freda, Ventura e Aldo Trinco) fra l’altro per gli attentati dell’aprile e agosto ’69.
novembre ’71: il procuratore milanese Luigi D’Espinosa promuove un’indagine sulla ricostituzione del partito fascista in tutta Italia, indagando anche sui massimi dirigenti dell’allora Msi e incriminando (nel luglio ’75) Almirante e altri 41 deputati e senatori missini; altra inchiesta che si scioglierà come neve al sole (se qualcuno avesse bisogno di cercare una spiegazione ricordi, a esempio, che l’anno successivo il presidente della repubblica, il dc Giovanni Leone, sarà eletto con i voti determinanti dei missini).
febbraio ’72: inizia a Roma il processo “contro Valpreda”; il 6 marzo viene bloccato con il pretesto del trasferimento a Milano “per competenza”. Sempre in febbraio un episodio significativo quanto gelosamente nascosto: lo scioglimento dell’intero comando della Terza Armata, ritenuto completamente “infiltrato” da fascisti irriducibili.
4 marzo ’72: Stiz fa arrestare Pino Rauti con l’accusa d’essere coinvolto nell’attività eversiva di Freda e Ventura.
21 marzo ’72: Stiz invia da Treviso gli atti sui fascisti Freda e Ventura al suo collega milanese D’Ambrosio (che il 24 aprile scarcererà Rauti); il 28 agosto contro i due vengono emessi mandati di cattura per strage. Dunque ci sono ora 2 diverse (e politicamente opposte) indagini su piazza Fontana.
31 maggio ’72: a Peteano (Gradisca d’Isonzo) esplode una bomba uccidendo 3 carabinieri. E’ l’unica indagine su una strage degli anni ’70 che si chiuderà con una condanna.
13 ottobre ’72: “per motivi di ordine pubblico” (ovvero la campagna della sinistra contro i fascisti) il processo di piazza Fontana è strappato al giudice milanese dalla Corte di Cassazione e va a Catanzaro.
30 dicembre ’72: Valpreda e gli altri anarchici sono rimessi in libertà.
15 gennaio ’73: Marco Pozzan, fedelissimo di Freda, viene fatto espatriare dal Sid.
7 aprile ’73: preso sul fatto il fascista Nico Azzi (la bomba gli scoppia fra le gambe) mentre prepara un attentato sul treno Genova-Roma, rivendicata con volantini e quotidiani della sinistra extra-parlamentare che aveva addosso; più chiaro di così il meccanismo della provocazione non poteva essere!
9 aprile ’73: Guido Giannettini, “agente Z”, viene fatto espatriare dal Sid.
17 maggio ’73: il sedicente anarchico Gianfranco Bertoli (ma molti lo accusano d’essere stato legato a “Ordine nuovo”) lancia una bomba contro la questura di Milano: 4 morti e 40 feriti.
23 novembre ’73: cade a Marghera l’aereo militare “Argo 16” (morti i 4 membri dell’equipaggio); una vicenda che allora non insospettisce alcuno ma che rispunterà alla fine degli anni ’80 nelle indagini del giudice Mastelloni.
Nell’ottobre ’73 viene scoperta la rete della “Rosa dei venti”; è una delle tante inchieste (alcune animate da serie intenzioni, altre a puro scopo fumogeno) di quegli anni contro gruppi militari o paramilitari fascisti; questa, dopo aver sfiorato 2 generali e 3 colonnelli, uomini dei Servizi nonché l’industriale Andrea Maria Piaggio, finirà nel consueto tritacarne magistratura/pressioni politiche e dunque si chiuderà in sostanziale burletta.
26 gennaio ’74: in coincidenza con l’arresto di Vito Miceli, capo del Sid, corrono voci d’un golpe che poi si riproporranno in più occasioni fra il ’74 e il ’75: non erano solo avvertimenti o “rumor di sciabole”.
18 marzo ’74: nello stesso giorno inizia a Catanzaro la seconda fase del “processo Valpreda” mentre da Milano arriva il rinvio a giudizio per Freda e Ventura.
18 aprile ’74: ancora la Corte di cassazione strappa l’inchiesta “Freda-Ventura” al giudice D’Ambrosio e l’unifica con il processo di Catanzaro.
28 maggio ’74: in piazza della Loggia a Brescia scoppia una bomba durante una manifestazione anti-fascista: 8 morti e quasi 100 feriti. Tutte le tracce portano ai fascisti eppure nessuna sentenza li troverà colpevoli. Due giorni dopo vicino Rieti si scoprirà casualmente (nella sparatoria rimane ucciso il fascista Giancarlo Esposti dei Mar) che si preparava un'altra strage per il 2 giugno.
19 giugno ’74: Giulio Andreotti, ministro della Difesa, rivela in un’intervista che Giannettini è un agente del Sid e che Giorgio Zicari, giornalista al “Corriere della sera” è un informatore.
4 agosto ’74: nella galleria di san Benedetto-val di Sambro (Bologna) esplode una bomba sul treno Italicus: 12 morti e 48 feriti; ma la strage doveva essere ben più tragica perché il timer era mirato per esplodere in galleria . Anche qui le indagini faranno solo volare qualche straccio.
novembre ’74: con Vito Miceli, ex capo del Sid (dal 18 ottobre ’70 al 1 luglio ’74), arrestato dai giudici padovani (le accuse: occultamento di prove, complicità con i fascisti, cospirazione) il 31 ottobre si rafforzano le voci d’un golpe nel ponte d’inizio mese (dunque con le fabbriche chiuse); magari in coincidenza con il viaggio romano di Henry Kissinger, il quale avrà pur preso un “premio Nobel della pace” per il Medio Oriente ma altrettanto certamente è fra i principali artefici del golpe in Cile, l’anno prima, contro il democraticamente eletto Salvador Allende.
27 gennaio ’75: inizia il processo “unificato” (cioè ad anarchici e fascisti) di Catanzaro.
Nel maggio ’75 entra in vigore la “legge Reale”, in teoria contro criminalità e terrorismo, in pratica una specie di assoluzione preventiva all’uso di armi da fuoco da parte delle “forze dell’ordine” (le quali comunque, solo fra il gennaio ’48 e il settembre ’54, avevano ucciso 70 persone e ne ferirono 5104 durante manifestazioni politiche o sindacali).
27 ottobre ’75: il giudice D’Ambrosio chiude l’inchiesta sulla morte di Pinelli: “malore attivo”, tutti prosciolti.
Maggio/giugno ’76: mandati di cattura per cospirazione golpista contro Edgardo Sogno (si saprà poi: tessera P2 numero 2070 codice E1979, fascicolo 0786), Randolfo Pacciardi, il dc Filippo De Jorio e indagini anche su Luigi Cavallo e molti altri “fascisti in camicia bianca” che muovono i fili dei cosiddetti “Comitati di resistenza democratica” e di altre strutture che quantomeno dal 1970 collegano destra democristiana, fascisti, industriali e ambienti militari; anche quest’inchiesta - occorre dirlo? - si dissolverà in una nuvola di fumo.
23 novembre ’77: al processo di Catanzaro per piazza Fontana viene condannato (ma subito rimesso in libertà) il generale Saverio Malizia, consulente del ministro della Difesa, per falsa testimonianza; sarà poi assolto il 30 luglio ’80.
23 febbraio ’79: condanna all’ergastolo per Freda, Ventura e Giannettini (fascista ma anche uomo dei servizi segreti), assoluzione per Valpreda e gli anarchici. Ma Freda è già sparito (dal 1 ottobre ’77 è in Costarica, verrà ri-arrestato 3 anni dopo) e poco prima della sentenza si dilegua (in Argentina) anche Ventura. Lievi condanne (4 e 2 anni) anche agli uomini dei Servizi, il capitano Antonio La Bruna e il generale Gianadelio Maletti.
27 giugno ‘80: si inabissa a Ustica il Dc-9 Itavia: 81 morti. Fu probabilmente un atto di guerra (nel corso d’un assalto a un aereo libico?) o un “errore” militare; di certo Servizi, comandi dell’Aeronautica, governi sapevano e proprio per questo depistarono.
2 agosto ’80: scoppia una bomba alla stazione di Bologna: 85 morti e decine di feriti: come si sa, dopo lunghe vicende giudiziarie, processi annullati e rifatti, si finirà con un sostanziale “tutti assolti” per i Servizi e con discusse condanne solo per i fascisti Mambro e Fioravanti (killer crudeli ma tutto sommato “pesci piccoli” nel panorama dell’eversione).
Nel 1981 viene alla luce la loggia segreta “P2” di Licio Gelli; fra gli iscritti giornalisti, generali, politici, magistrati, uomini dei Servizi e un tal Silvio Berlusconi (con il numero 1816, codice E1978. Gruppo 17, fascicolo 0625). 20 marzo ’81: la sentenza di secondo grado assolve tutti - dunque anche i fascisti - gli imputati per la strage di piazza Fontana; e già che c’è dimezza le pene a Maletti e La Bruna.
24 agosto ’81: la Commissione inquirente archivia le accuse contro Andreotti, Rumor, Tanassi e Zagari (ministri della Difesa a turno) come complici dei molti “depistaggi” del Sid. Figurarsi.
11 giugno ’82: la Corte di Cassazione annulla la sentenza d’appello per piazza Fontana e dispone un nuovo processo a Bari (escludendo solo Giannettini) il quale decreterà – il 1 agosto 1985 -- l’assoluzione definitiva per tutti gli imputati e ridurrà ancora le pene a Maletti e La Bruna. Ci sono ancora strascichi giudiziari (nel 1987) contro i fascisti Delle Chiaie e Fachini ma i due sono assolti (il 20/2/89) con sentenza poi confermata in appello (il 5/7/91).
23 dicembre ’84: il rapido 904 è squarciato da una bomba: 16 morti e 200 feriti. Fu un delitto di fascisti e camorra? Al solito i processi si contraddicono: per una Cassazione, presieduta dal solito Corrado Carnevale (quello che assolve i mafiosi e raddoppia le condanne ai compagni) che proscioglie, ci sarà nel marzo ’91 una successiva condanna all’ergastolo inflitta al solo Massimo Abbatangelo, deputato dell’allora Msi; pare poco credibile che abbia fatto tutto da solo.
27 gennaio ‘87: la prima sezione della Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale (guarda un po’ chi si rivede), respinge i ricorsi e conferma la sentenza barese d’assoluzione per piazza Fontana.
Nel 1988 il giudice milanese Salvini, durante le indagini sul gruppo fascista “La Fenice”, trova elementi che sembrano portare verso la strage di piazza Fontana; inizia un lavoro di controllo anche su carte e bobine dei servizi segreti. Nel gennaio ’89 apre una nuova inchiesta, che arriva a conoscenza dei giornalisti solo nel novembre ’91.
2 agosto ’90: alla Camera dei deputati, il presidente del Consiglio Andreotti fa sapere che fornirà entro 60 giorni i documenti sulla “struttura parallela e occulta che avrebbe operato all’interno dei servizi segreti”; sta per arrivare la bufera Gladio.
3 agosto ‘90: alla commissione parlamentare sulle stragi Andreotti nega tutto anche che Rudolph Stone, capo della Cia in Italia, fosse iscritto alla loggia P2 con il numero di tessera 2183, fascicolo 0899, come invece è noto.
18 ottobre ’90: Andreotti invia il documento promesso in agosto sul “cosiddetto Sid parallelo, il caso Gladio”. Successivamente la “commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e le stragi” deciderà d’includere Gladio nelle sue indagini: i documenti confermeranno il quadro politico noto (Dc, fascisti e Usa al centro di ogni trama) ma si confermerà anche che i manovratori di filo sono intoccabili. Al solito iniziano i depistaggi (nel febbraio ’95 un colonnello dei Servizi verrà arrestato appunto per questo), i tempi lunghi conditi da belle parole, ricatti sott’acqua e insabbiamenti Vale al riguardo la pena di ricordare che il 21 marzo ‘91 l’allora presidente Kossiga dichiarerà in tv che piduisti e gladiatori sono tutti (o quasi) bravi ragazzi anzi patrioti.
Nel gennaio ’91 circolano sui massmedia gli elenchi (incompleti) dei “gladiatori” mentre in Parlamento arrivano i documenti (ma restano molti “omissis) sul “piano Solo”, ovvero il golpe del 1964 quando un tal Andreotti era ministro della Difesa e Antonio Segni (padre dell’attuale referendario detto anche Mariotto) capo del governo.
10 ottobre ’91: il giudice veneziano Felice Casson trasferisce a Roma (“per competenza”) la sua inchiesta sul terrorismo in Alto Adige che coinvolge militari e “gladiatori” e che finirà poi sostanzialmente archiviata; un mese e mezzo dopo Kossiga rivendica di nuovo che Gladio era cosa ottima e legale.
13 marzo ’95: il giudice Salvini rinvia a giudizio 26 persone (fra loro fascisti come Fachini, Giannettini, Delle Chiaie ma anche Gelli e il generale Maletti) per piazza Fontana. Intanto l’ammuffita e impotente “commissione stragi” apprende da Salvini che oltre a Gladio c’erano”36 legioni” con 1500 uomini (Nato, fascisti, militari) pronti ad attentati e golpe; solo un’alzata di sopracciglio e tutto finisce lì.
28 marzo ’95: alcuni giornali pubblicano stralci delle testimonianze del terrorista nero Gaetano Orlando: “Armi? Ce le davano i carabinieri”, una delle tante “rivelazioni” che sarebbero esilaranti se di mezzo non ci fossero tragedie.
4 ottobre ’96: un perito del giudice Salvini scopre a Roma, in un deposito sulla via Appia, 150 mila fascicoli non catalogati dal ministero dell’Interno, inizia una nuova farsa e chi si fosse aspettato clamorose novità dal nuovo ministro, l’ex comunista Napolitano, sarebbe restato assai deluso. Tutto muta, nulla cambia.
27 marzo ’97: il giudice veneziano Carlo Mastelloni incrimina (per falso e soppressione di prova) 22 ufficiali dell’Aeronautica nell’inchiesta su Argo 16, l’areo del Sid precipitato il 23 novembre ’73 vicino Porto Marghera; un’altra vicenda che sembra intrecciarsi con Gladio, in parte (almeno per ciò che riguarda i protagonisti) con Ustica e sicuramente conferma che i Servizi non sono stati ripuliti come 100 e 100 volte promosso dai vari governi della Banan/Italian repubblica. In maggio Mastelloni invia alla “commissione stragi” documenti che informano sul funzionamento di una “Gladio civile” al Viminale fra il ’50 e il 1984, che sarebbe come dire 34 anni di illegalità al vertice dello Stato ma già gira la barzelletta che i vari governi non ne sapessero alcunché.
novembre ’97: per chi fosse dotato di humor nero le notizie sui “misteri d’Italia”, passati e presenti, sono fonte di continuo gaudio. Nel giro di pochi giorni si parla infatti di bombe anarchiche contro i palazzi di “giustizia” (l’infinito ritorno) e si dice che sì, 37 anni prima (caspita, che velocità le inchieste!) l’aereo di Mattei, presidente dall’Eni, fu effettivamente abbattuto, anche se ovviamente non si sa ha alcuna idea sui responsabili.
10 febbraio ’98: con 34 rinvii a giudizio si chiude la seconda parte dell’inchiesta Salvini: in 60 mila pagine c’è di tutto ma i protagonisti son sempre loro cioè dc, fascisti e Nato/Cia.
Per completare il quadro, bisogna riassumere che dal 12 dicembre ’69 al 23 dicembre ’84 per 8 stragi che le prove non meno che il buon senso politico certificano come “nere” (fascisti più Stato) con 149 morti e 688 feriti ci sono due soli colpevoli condannati: Vincenzo Vinciguerra (reo confesso)e Carlo Cicuttini per l’attentato mortale di Peteano (chi volesse approfondire può leggere “La strage di Peteano” di Gian Pietro Testa, edito da Einaudi). E che per i molti delitti compiuti nelle piazze dai fascisti vi sono state pochissime condanne.
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COS’È STATO L’AUTUNNO CALDO
Trent’anni di storia, quasi sempre sono un nonnulla, nel caso delle lotte operaie e studentesche della fine degli anni Sessanta, sembra invece di fare riferimento a un secolo lontano. C’è una rimozione diffusa di quello straordinario periodo di lotta e partecipazione di massa. Provate a parlarne oggi a ragazzi di 20/25 anni: strabuzzano gli occhi non tanto contro i pericoli di un nostalgico retaggio, ma perché pensano che si stia ricordando la discesa dei marziani o degli UFO sulla terra. Un po’ di memoria storica, dunque, non fa di certo male, soprattutto se a scrivere di quel periodo è una persona come Bifo che, per tutta la sua vita, si è posto il problema di pensare “anticipando” i cambiamenti sociali in essere.
di Franco Berardi Bifo
QUELL’ESTATE A PORTO MARGHERA
Estate '68, Petrolchimico di Porto Marghera. Per la prima volta, in questa occasione, un organismo autonomo di base operaio, sufficientemente forte e rappresentativo da guidare una lotta su obiettivi rivendicativi egualitari, impone l'obiettivo di un aumento salariale uguale per tutti: la cifra è di 5000 lire al mese, sotto la voce "premio di produzione".
La richiesta sembrava scandalosa ai padroni ed alla stampa di destra, ma anche a buona parte dei dirigenti sindacali. Si pensi che, ancora nel marzo 1969, Bruno Trentin, che pure nel sindacato era uno dei più aperti verso i fermenti innovativi provenienti dalla base, in un discorso pronunciato a Rimini, dichiarò che parlare di aumenti salariali uguali per tutti era un'utopia.
Ma questa utopia gli operai del Petrolchimico riuscirono ad imporla prima al sindacato e poi al padrone, e questo ebbe un effetto così forte che solo un anno dopo, nell'autunno del 1969, i metalmeccanici ed i chimici riuscirono ad imporre nella piattaforma contrattuale l'obiettivo salariale egualitario, insieme all'altro grande obiettivo unificante, quello della riduzione dell'orario di lavoro a 40 ore pagate 48.
Quella stagione di movimento e di lotta che passò alla storia come "autunno caldo degli operai italiani" inizia lì, inizia a Porto Marghera; nell'estate del '68, perché in quella vertenza gli operai riuscirono ad ottenere un aumento in paga base uguale per tutti.
il “PARTITO” DI MIRAFIORI
Nella primavera del '69 dopo un crescendo di vertenze aziendali disseminate in tutt'Italia, esplode la lotta autonoma alla FIAT, che coinvolge molte officine di Mirafiori, e particolarmente le officine delle Carrozzerie.
Intorno alle lotte della FIAT, tra il '69 ed il '73, si giocano molte delle questioni essenziali della storia politica di quegli anni.
Con la lotta degli operai FIAT acquista forza di maggioranza un nuovo linguaggio politico, il linguaggio dell'egualitarismo operaio e dell'autonomia degli operai dal dominio.
Più soldi, meno lavoro. Fuori i soldi, per il resto sbrigatevela voi. Aumenti salariali uguali per tutti in paga base. Lotta continua.
Parole semplici che vanno dritte al cuore delle questioni fondamentali: la libertà dal lavoro, la riduzione del tempo di lavoro, l'autonomia della società dal capitale, l'uguaglianza, un'altra idea di ricchezza, fondata sul piacere della socialità e non sulla competizione economica.
Queste parole danno vita al "partito di Mirafiori", che non è un partito, ma un divenire.
Il movimento degli studenti, soprattutto a Torino, a Roma, e a Padova, percepisce l'importanza della lotta che è iniziata alla FIAT Mirafiori.
“La FIAT è la nostra università”, c'era scritto nel '68 su un muro dell'università di Roma. La Fiat diventava il centro dell'attenzione di tutti coloro che, con il '68, avevano cominciato a riconoscersi in un movimento unitario anticapitalista.
LA BATTAGLIA DI CORSO TRAIANO
Quotidianamente veniva distribuito ai cancelli un volantino-giornale, stampato in decine di migliaia di copie, con il titolo Lotta continua. Ma tra i militanti esterni non tardarono a manifestarsi divergenze di stile politico ed agitatorio, e soprattutto divergenze di prospettiva, relative alla concezione dell'organizzazione, ed alla filosofia del rapporto tra lotta di fabbrica e processo rivoluzionario di lungo periodo.
Il momento culminante della lotta giunse a luglio, quando la tensione accumulata in tre mesi di cortei interni alla fabbrica, di assemblee e discussioni, scioperi a singhiozzo e blocchi a scacchiera si concentrò e si scaricò, con una violenza senza precedenti in una giornata di lotta "per la riforma della casa" indetta dal sindacato, che passò alla storia delle lotte operaie come la giornata di Corso Traiano.
E' il 3 luglio. Il sindacato indice lo sciopero generale per tentare di riconquistare, tramite una scadenza esterna alla fabbrica, il controllo su una classe operaia ormai largamente egemonizzata da posizioni rivoluzionarie. I comizi indetti dal sindacato la mattina vanno quasi tutti deserti. L'assemblea operai-studenti ha deciso di non andarci, e di concentrarsi invece nel pomeriggio, alle 14.30, davanti alla Porta 2, la porta principale di Mirafiori, il punto di incontro di tutti gli operai rivoluzionari. Ma alla porta 2 c'è il questore Voria, un vecchio nemico degli operai di Torino, che guida il battaglione celere giunto da Padova. La polizia carica due volte gli operai davanti ai cancelli, cercando di disperderli. Ma la cosa non riesce; nel giro di mezz'ora il corteo si riforma, ed è forte di dodicimila operai, che sfilano davanti alle palazzine, e raggiungono Corso Traiano, un viale immenso, assolato, polveroso.
I carabinieri si schierano in mezzo al viale, in fondo, per aspettare con i manganelli sguainati gli operai. Ma gli operai si fermano a metà, formano decine di barricate, incendiano alcuni camion-bisarca pieni di automobili, ed iniziano una battaglia a suon di molotov, sampietrini, che dura fino alle 2 di notte. Ogni casa del quartiere, ogni cortile, ogni magazzino, garage, diventa un luogo in cui si organizza la resistenza operaia.
Il giorno dopo il governo Rumor cade davanti alle Camere. Singolare coincidenza o forse no. La lotta operaia, lungi dall'essere rinchiusa nei limiti dell'economicismo, assumeva potenza di sovversione politica radicale.
Il 27 e 28 luglio, su appello dell'assemblea operai- studenti di Torino, che aveva svolto un ruolo importante nella lotta FIAT, si riuniscono a Torino, al Palazzo dello Sport, i comitati di lotta di Milano, del Veneto, di Roma, ed i gruppi di studenti e di militanti di Bologna, Firenze, Padova e di altre città.
GLI SCIOPERI DEI METALMECCANICI
Ritornati dalle brevi ferie; gli operai di Mirafiori riprendono le agitazioni, e la direzione mette in libertà (cioè sospende) circa seimila dipendenti. Nei primi giorni di settembre l'esplosione sembra prossima. La mediazione sindacale sembra molto debole, e lo scontro rischia di vedere operai e padronato direttamente a confronto.
Il 5 settembre la direzione FIAT ritira le sospensioni. E' un gesto di buona volontà finalizzato a restituire credibilità al sindacato ed alla mediazione politica esercitata dal Ministero del Lavoro. Il giorno seguente iniziano gli scioperi per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Chi gestirà queste lotte? Gli operai autonomi o sindacati? Fin dall'inizio è chiaro che gran parte della partita si gioca alla FIAT di Torino.
I sindacati si presentano a questo appuntamento con la forza che viene dalla presenza in tutte le fabbriche del paese, da una rete di collegamenti tra una fabbrica e l'altra, tra una città e l'altra; dalla delega formale, dall'apparato di funzionari permanenti. Gli operai della FIAT, che si sono organizzati nella assemblea autonoma durante i mesi della primavera ed autunno non hanno niente di tutto ciò. Nessuna organizzazione formale, nessun collegamento stabile, nessun appoggio esterno, se non i gruppi che si sono costituiti proprio in questo periodo. Ed i gruppi, particolarmente Lotta continua e Potere operaio, giocano, in questa fase, un ruolo di coordinamento fra le avanguardie operaie, senza generalmente svolgere un ruolo di direzione e di indicazione che vada al di là del coordinamento.
Sarà solo dopo l'autunno caldo, dopo la conclusione di quella ondata di lotte, dopo la Strage di Stato, che, con un processo di autolegittimazione discutibile, i gruppi si definiranno come organizzazioni politiche con vocazione di direzione esterna della lotta di classe. Ma per il momento, la funzione dei gruppi è strettamente legata al ruolo di coordinamento delle avanguardie operaie che la lotta ha espresso al di fuori dei sindacati.
Per questo, nel periodo delle lotte contrattuali, uno dei principali temi di contrapposizione e di discussione è costituito dalla questione dei delegati. Istituendo la figura del delegato, il sindacato punta a riqualificare la sua organizzazione e la sua presenza in fabbrica, legando questa presenza non più al funzionario esterno, ma al delegato, un operaio eletto direttamente dal suo reparto, che rappresenta in modo diretto la realtà della sua squadra e della sua officina.
Il sindacato comincia a trasformarsi in seguito ai mutamenti che sono avvenuti nella composizione di classe dal '68 al '69; ma in questa trasformazione agiscono naturalmente diverse motivazioni: una motivazione è rendere più agile e democratico il sindacato, e fornire alla classe operaia strumenti di organizzazione più immediati ed informativamente più ricchi.
Allo stesso tempo, però, agisce la motivazione di riconquistare tramite i delegati un controllo sulla base operaia che i vertici sindacali hanno perduto, per poter poi ricostituire l'obbedienza alla linea politica dei vertici sindacali.
La minoranza "estremista" di fabbrica, e i gruppi Lotta continua e Potere operaio si lanciano in un attacco contro la figura del delegato, accentuando in modo esasperato la sua funzione di controllo.
PIU’ SOLDI MENO LAVORO
E' nel vivo della lotta di questa primavera che si affaccia a Mirafiori, e più precisamente all'officina 13 la figura del delegato, innanzitutto come delegato di squadra, eletto dagli operai in lotta senza la formalità della scheda, scegliendo semplicemente il compagno più combattivo. Il pieno di democrazia è totale, tanto che alcuni, presi dall'euforia, parlano di una prima forma di organizzazione controllata unicamente dagli operai. E' fuor di dubbio che il delegato e l'autolimitazione della produzione nei vari reparti costituiscono all’inizio delle lotte di questo anno alla FIAT un forte elemento propulsore nelle lotte, perché sembrano intaccare il potere di controllo del padrone in fabbrica.
Senonché, è proprio all'interno delle lotte e particolarmente quando si scatena la lotta continua operaia che il delegato rivela i suoi limiti.
Una prima frattura avviene sulla parola d'ordine dell'autolimitazione della produzione per cui con un minimo di perdita di salario si procura un massimo di danno alla produzione. Una formula che ricalca quella con cui gli operai hanno lanciato i loro scioperi autonomi concentrati in un punto nodale di Mirafiori. Ma con questa sostanziale differenza: negli scioperi autonomi, il minimo di danno per gli operai consiste nella perdita di salario per una esigua minoranza dei lavoratori, dato che lo sciopero si sposta qui e là. Mentre con l'autolimitazione si propone agli operai di perdere d'ora in avanti 10 o 15 mila lire al mese rallentando la produzione. Il delegato dovrebbe appunto controllare questa retromarcia della produzione. Ma agli operai, che a giugno hanno iniziato il processo di lotta continua in tutto il ciclo, non gliene frega niente di far perdere miliardi al padrone, ciò che gli importa è avere più soldi per sé. Più soldi e meno lavoro, non meno lavoro meno soldi.
Ma non è che l'inizio. L'organizzazione dei delegati viene proposta ancora reparto per reparto, con il compito di proporre la rotazione di tutti gli operai nella mansione di capomacchine, al fine di ridurre e controllare i ritmi di produzione. E inoltre partendo dal principio per cui nessuno sa meglio degli operai chi merita (sic) il passaggio di categoria, si arriva a sostenere che l'assemblea di reparto convocata dal delegato deve decidere sui passaggi di categoria, e non solo il padrone.
SIAMO TUTTI DELEGATI
Per quanto la figura del delegato contenesse, come abbiamo visto un elemento di forte ambiguità, la parola d'ordine "siamo tutti delegati", lanciata dai militanti e dagli operai legati a Lotta continua, pur essendo carica di un significato di rottura radicale verso l'organizzazione capitalistica del lavoro, e verso la subordinazione del salario alla produttività ed al merito, rimane debole, ambigua, in una prospettiva organizzativa generale.
Per questo la parola d'ordine "siamo tutti delegati" portò, poco alla volta, le avanguardie operaie autonome ad una posizione di minoranza, e portò i gruppi di militanti esterni alla fabbrica a perdere il mordente che avevano avuto nella fase iniziale delle lotte, quando si trattava di proporre i contenuti, e non le linee di gestione del movimento.
L’OCCUPAZIONE DI MIRAFIORI
La parola d'ordine "siamo tutti delegati" riuscì a conquistare un ascolto, un interesse, ma non a costituire un'alternativa organizzativa rispetto alla ricostruzione dal basso del sindacato.
Questa contrapposizione non fu lineare, né priva di contraddizioni. Fabbrica per fabbrica, la battaglia fra organizzazione rivoluzionaria di base e rifondazione consiliare del sindacato si intrecciò, nell'autunno e poi nell'anno seguente, con l'altra battaglia, quella principale, contro il padronato e contro lo stato capitalistico.
Ed un momento essenziale di questa battaglia fu costituito dalla occupazione della FIAT, nel corso della lotta contrattuale.
Così scrive Guido Viale, nel suo libro Sessantotto: “Se gli operai della FIAT non apprezzano gli scioperi esterni, è perché essi non danno loro forza, ma li indeboliscono, gli rubano salario, gli impediscono di organizzarsi, lasciano le decisioni in mano ad altri. Vogliono lo sciopero interno. I sindacalisti ripetono che gli operai non sono maturi per farlo. Come se in primavera non avessero dimostrato il contrario. In realtà i sindacalisti ne hanno paura. Ma il timore che lo sciopero interno parta autonomamente è troppo forte. Dopo qualche settimana sono costretti a dichiararlo. Poi gli operai impongono lo sciopero a scacchiera. Il 10 ottobre, si arriva all'occupazione autonoma di Mirafiori. Al mattino gli operai della Lancia e di altre fabbriche invadono gli uffici e fanno piazza pulita degli impiegati, e dei dirigenti. La palazzina degli uffici di Mirafiori viene cinta d'assedio nonostante il pompieraggio sindacale. Poi gli operai si spargono nei piazzali, bollando e rovesciando le automobili in sosta degli impiegati, e quelle pronte per la spedizione. Davanti ai cancelli la polizia carica i picchetti e spara lacrimogeni dentro le finestre dei capannoni. L'Unione industriale di Torino minaccia la serrata in tutte le fabbriche della città... Gli operai di Mirafiori si riuniscono in assemblea e decidono l'occupazione. Vengono alzate le bandiere rosse sui cancelli. Si chiudono in fabbrica, mentre all'esterno accorre tutto il mondo politico della città: dai notabili e dai partigiani del PCI agli esponenti dei gruppi estremisti emarginati dall'assemblea operai studenti, per fare i pompieri. A occupare sono in migliaia, ma poco per volta se ne escono. Resteranno in trecento all'entrata del turno del mattino”. (G. Viale: Sessantotto, cit. pag. 101).
Questa, dell'occupazione di Mirafiori è la prima e forse la più grossa iniziativa autonoma di lotta generale presa da strutture organizzate esterne al sindacato, nel corso dell'autunno. Ma è una prova contraddittoria: essa mostra che le parole d'ordine più radicali hanno un seguito consistente nelle grandi fabbriche, ma che questo seguito non si consolida organizzativamente.
NO AL CONTRATTO BIDONE
Il 7 novembre viene firmato il primo contratto di una delle categorie in lotta: gli edili. Questa categoria non aveva certo la forza organizzativa dei metalmeccanici, né la chiarezza politica e la radicalità dei settori più avanzati del movimento operaio. La piattaforma contrattuale degli edili, inoltre, era considerevolmente più arretrata. Prevedibile perciò che la conclusione fosse insoddisfacente, dal punto di vista dei settori più avanzati.
“No al contratto bidone”, scrivono sui volantini i militanti dei gruppi.
E gran parte degli operai metalmeccanici sentono la firma del contratto degli edili viene vista come la rottura del fronte di lotta.
Per gli operai autonomi e per i militanti dei gruppi, le lotte contrattuali dovevano essere l'inizio di una lotta politica per il potere operaio in fabbrica, mentre per il sindacato, ed anche per la maggioranza degli operai (ma questo non ci porti a sottovalutare l'importanza che in quegli anni aveva la minoranza rivoluzionaria tra gli operai, anche quella non organizzata) si trattava invece di un momento di lotta rivendicativa, carica di elementi di innovazione, certo, ma tutta riconducibile ad un progetto di consolidamento del potere sindacale nelle fabbriche e nella società. Quando il sindacato parla della novità politica delle lotte d'autunno parla essenzialmente di una concezione più democratica dell'organizzazione operaia e sindacale, di un maggior potere contrattuale nei rapporti col padronato, di una maggiore presenza delle organizzazioni operaie in fabbrica.
Mentre per la componente rivoluzionaria in quegli anni si trattava di mantenere aperta la lotta di fabbrica fino a farla diventare lotta sociale generale contro il potere capitalistico e contro lo stato. Secondo questa posizione, che in quel momento aveva un seguito di massa rilevante, seppure non maggioritario, nella lotta operaia è presente, in maniera immediata, un carattere anticapitalistico che il sindacato rimuove, contrattualizzandolo, ed il sistema politico riassorbe, cercando di istituzionalizzarlo nelle forme della rappresentanza formale.
LA STRAGE DI PIAZZA FONTANA
I metalmeccanici, punta di diamante dell'agitazione, restano in lotta fino al mese di dicembre. Ed è a dicembre che, con le bombe di Piazza Fontana e l'assassinio del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, il carattere politico dello scontro in atto nel paese emerge con prepotenza.
Purtroppo, le bombe di Piazza Fontana portarono lo scontro - che fino a quel momento era stato radicale nei contenuti, ma generalmente rispettoso delle regole della convivenza sociale - oltre il limite di quelle regole, e diedero la parola alla violenza, bruta, all'aggressione fisica. L'iniziativa di far precipitare lo scontro sociale, e di trasferirlo, dal terreno del confronto radicale ma non violento, al terreno della violenza assassina, fu presa da settori dello stato, da una componente del potere.
Non è qui il luogo di riaprire il capitolo sulla Strage di Stato. E' verità storica ormai acquisita che i responsabili di quella precipitazione (che sta all'origine di un imbarbarimento del confronto politico, che progressivamente coinvolse settori sempre più ampi della società italiana) appartenevano a settori dello stato.
I servizi segreti, fascisti assoldati dagli apparati di stato e nazisti ispirati soltanto dal fanatismo, ed anche settori delle forze di polizia e settori del partito della Democrazia cristiana, furono all'origine di quel crimine, e della precipitazione che esso determinò nella psicologia e nel comportamento sociale.
Il 12 dicembre, dopo lo scoppio delle bombe di piazza Fontana, che uccisero quattordici persone innocenti, i giornali ed il sistema politico si scatenarono contro gli estremisti, contro le iniziative di lotta incontrollate. Si guardò alle lotte operaie come se fossero in qualche modo responsabili dell'evento delittuoso. La lotta operaia andava fermata prima di poter dilagare dappertutto.
Sulle colonne del Giorno, su cui scriveva a quell'epoca, Giorgio Bocca parlò per tutti, scrivendo: “si vorrebbe dire ai sindacati ed alle aziende che credono nella democrazia: signori, fate presto a concludere”. Da queste parole possiamo intendere che chi aveva messo le bombe aveva ottenuto il suo scopo: mettere un freno al movimento operaio, alla sua ricerca politica di massa, al suo egualitarismo.
Il 21 dicembre venne firmato il contratto dei metalmeccanici privati.
L'autunno caldo era terminato. Ma la chiusura dell'autunno caldo non chiuse assolutamente le lotte operaie nelle grandi fabbriche. Anzi, nel 1970 inizia un periodo molto lungo di conflittualità diffusa, nella quale prendono corpo da un lato il sindacato dei consigli, dall'altro le organizzazioni autonome degli operai.