Nel suo libro recente "Ceti medi senza futuro - Scritti, appunti sul lavoro e altro", che presenterà oggi a Scienze Politiche, Sergio Bologna propone temi di grande rilevanza e forte impatto politico.
L'autore scrive a partire da una constatazione: le tesi espresse nel suo libro con Andrea Fumagalli del '97, sul lavoro autonomo di seconda generazione, sono rimaste del tutto inascoltate nell'ambito della sinistra. Forse anche da ciò deriva il suo sentirsi un "apolide", difficilmente collocabile - ma, confessa, si sente felicemente apolide. Il libro, bellissimo e da leggere assolutamente, è costruito intorno a 3 grandi parti: Postfordismo e dintorni, quella centrale e più importante e densa dal punto di vista politico, Operaismo e dintorni, interessante per gli spunti storici che offre, e Stralci di Lumhi, con divagazioni varie. Ne trattiamo qui in modo non sistematico, cogliendo alcuni spunti che la lettura ci ha offerto.
Partiamo dal titolo: è convinzione di Bologna che uno dei temi cardine
del nuovo Millennio sia la difficoltà del ceto medio. Con lo
smantellamento dell'impiego pubblico, con il degrado dei servizi
pubblici, con l'aumento delle assunzioni nelle piccole aziende, dove
anche il lavoro a tempo indeterminato non offre garanzie e sicurezza a
lungo termine, abbiamo assistito e stiamo assistendo ad una crisi
crescente del ceto medio. Crisi determinata sia da incertezze sul piano
economico (sempre più di frequente si sente parlare di "middle class
poverty") che dalla perdita dello status privilegiato.
All'interno del certo medio, Bologna si sofferma a lungo sui
lavoratori della conoscenza, figure indissolubilmente legate alla
nostra società dell'informazione. L'ipotesi implicita (forse non del
tutto) che percorre il libro è che questi lavoratori della conoscenza
(non soltanto loro, ovviamente) potrebbero in potenza essere portatori
di un nuovo progetto politico.
Più in generale, quella che Sergio Bologna ci offre è un'analisi del
lavoro nell'epoca del postfordismo. Il postfordismo tende a superare e
distruggere l'idea della cooperazione, ad instaurare tra i lavoratori
un meccanismo competitivo. La frammentarietà e la diversificazione
delle condizioni lavorative dominano: per questo, sostiene Bologna,
non si arriverà mai ad una condizione di "precarietà generalizzata",
altrimenti l'unità della condizione del lavoratore verrebbe a
ricomporsi. Al contempo, la condizione di precarietà dilaga, non
riguarda più soltanto una generazione o una specifica fase del
percorso lavorativo ma "acquista i contorni di classe". Data la
frammentarietà e la diversità delle condizioni lavorative, dato il
fatto che difficilmente il sindacato si è mosso per rappresentare i
precari, privilegiando piuttosto i lavoratori a tempo indeterminato,
le espressioni di denuncia sulle condizioni di lavoro avvengono
tramite strumenti comunicativi diversi da quelli consueti.
Un'analisi della blogsfera - dei blog, dei siti - consente in tanti
casi di capire la condizione dei precari - qui la condizione dei
lavoratori della conoscenza trova una sua espressione. Si tratta di
modalità espressive che non richiedono un'organizzazione (il blog può
essere gestito da un singolo) ma che aspirano alla condivisione di
situazioni di vita, ad offrire servizi, ad aprire discussioni. Più
visibile invece la protesta messa in atto da alcuni movimenti, come
quello contro il contratto di prima assunzione (CPE) in Francia, o
come la Mayday Parade in Italia, che ha avuto tra altri il vantaggio
di rinnovare "l'estetica della protesta". Il limite dei movimenti,
osserva lucidamente Bologna, sta nel fatto che, una volta esaurita la
spinta propulsiva, vengono talvolta "cavalcati" da politicanti di provata
esperienza che, utilizzando "il frusto linguaggio dell'estremismo di
sinistra" e "le stucchevoli procedure della piccola burocrazia di
partito", vampirizzano i movimenti e contribuiscono a ridurne la
spinta e l'impatto. A proposito della protesta dei precari in Italia,
portate avanti primariamente da ricercatori, studenti, lavoratori
della pubblica amministrazione,
Bologna critica l'enfasi posta sulle campagne improntate
prevalentemente al tema della stabilizzazione nel quadro più generale
della lotta per l'abolizione della legge 30. Ritiene inoltre che il
"frontismo" anti-Moratti o anti-Berlusconi favorito in certi casi da questi
movimenti abbia portato ad un momento di arresto sul piano della
riflessione politica - l'antiberlusconismo tutto nasconde e occulta.
Al contempo, riconosce come il movimento dei precari in
certi momenti sia riuscito a denunciare e smascherare i limiti del
sistema universitario e della ricerca e, più in generale, del sistema
pubblico.
Alla sua critica nei confronti della richiesta univoca di "tempo
indeterminato per tutti" si allaccia uno dei punti cruciali,
dirimenti, proposti dal testo: il postfordismo, scrive Bologna, è
stato "il prodotto di una doppia spinta: da una parte la
riorganizzazione capitalistica e dall'altra il rifiuto del lavoro
normato". Insomma, il lavoro autonomo è figlio del postfordismo ma è
anche il frutto dei movimenti sul rifiuto del lavoro del '77. Da ciò
consegue che la lotta contro la precarietà non si può esaurire alla
lotta contro la legge 30, o alla lotta per la stabilizzazione di tutte
e tutti: in primo luogo perché la legge 30 non fa che ratificare
provvedimenti già avanzati dai governi di centro-sinistra (pacchetto
Treu), ma soprattutto perché quella della precarietà è una questione
complessa, che non va risolta tramite ricette semplificanti e
semplificate. Ecco che, in questa prospettiva, vengono espressi tutti
i limiti dell'idea espressa nel programma dell'Unione di "rimettere al
centro il contratto di lavoro a tempo indeterminato". Anche
stabilizzando tutti non si risolverebbe il problema di come molti
lavoratori della conoscenza vivono il proprio rapporto con il lavoro.
In fondo, la necessità di autonomia e flessibilità nei tempi e nei
ritmi di lavoro sono anche il riflesso di un particolare vissuto
soggettivo, vissuto che è patrimonio di particolari categorie
antropologiche, come quella dei lavoratori autonomi di seconda
generazione. E allora "Uno ha il diritto, se vuole, di vivere lavori
alla giornata, ma ha anche il diritto di pretendere di non essere
trattato da cittadino di serie B per questa scelta".
Individuati i limiti non solo dei partiti e sindacati istituzionali ma
anche quelli che possono portare al fallimento dei movimenti
spontanei, cosa resta? Quali pratiche politiche adottare/inventare?
Non che il libro fornisca ricette o soluzioni.
Fornisce però alcuni spunti. Ad esempio, Bologna ritiene che il
movimento delle donne (Bologna apprezza in particolare le componenti
volte a rimarcare il ruolo attivo e la forza della donne, le
componenti insomma meno improntate al vittimismo) abbia sicuramente
qualcosa da insegnare - per l'importanza da sempre attribuita alla
pratica del partire da sé, dal proprio vissuto soggettivo. A proposito
dei lavoratori della conoscenza, un esempio di possibile pratica da
mutuare è dato dalle cosiddette coalizioni. Esempi di coalizioni? La
Freelancers Union di New York, che si propone di ascoltare le storie
di vita dei lavoratori e mira a ottenere alcuni obiettivi molto
concreti, come l'assistenza sanitaria, la riduzione del carico fiscale, altro.
Insomma, occorre infittire le relazioni tra lavoratori che svolgono lo
stesso ruolo, ascoltarsi, dare spazio alle narrazioni, creare delle
coalizioni. Qui il libro si connota anche fortemente del vissuto
soggettivo di Sergio Bologna, della sua esperienza con Acta,
l'associazione di consulenti del terziario avanzato di cui fa parte -
più in generale, della sua esperienza di lavoratore autonomo di
seconda generazione. Ed è anche questo intreccio di vissuto e analisi
sociale, economica e di riflessioni politiche che rende la lettura
appassionante.
> Ascolta gli audio estratti dall'intervento di Sergio Bologna
(Presentazione di "Ceti medi senza futuro?"; Bologna, 22 novembre'07)