Secondo alcuni, la morte di Bobby Kennedy coincide con la fine del Sogno Americano. E lo conosciamo bene quel cinema americano, animato dalle migliori intenzioni, che affronta la storia del proprio paese con inesausta volontà di non disperderne la memoria. Verso quel cinema ci sentiamo costretti a critiche accomodanti; vorremmo tanto averla noi, una cinematografia "impegnata" a rievocare le pagine oscure della nostra storia, sapendo coinvolgere nugoli di grandi attori. Puntando al grande pubblico.
Ciò che è accaduto all'hotel Ambassador di Los Angeles, il 6 giugno 1968, il giorno in cui Robert Kennedy fu assassinato, compone un mosaico di varia umanità interclassista, 22 personaggi che per puro caso transitano in prossimità dell'Evento - in quel Sessantotto già stracolmo di Storia e di lutti - e ne vengono in qualche modo travolti. La stessa sera, Don Drysdale, lanciatore dei Dodgers, stabilì il suo record di eliminati al piatto; nel suo discorso, Bobby gli farà i complimenti, manifestando la sua sintonia sentimentale, prima che politica, con tanti americani (persino neri e chicanos), prima di confermare la sua determinazione a uscire dall'inferno vietnamita.
Bobby è un film corale, a cui mancano la leggerezza sapiente dell'Altman di America Oggi, e la visionarietà lisergica dell'Anderson di Magnolia. Purtroppo, le storie e la Storia arrivano fredde, solo le immagini di repertorio sul 42enne senatore che sta per venire ucciso, suscitano palpiti emozionanti. Da quel volto (e dai sottotitoli che traducono le sue parole), arrivano il rimpianto per ciò che poteva essere e la nostalgia per il Grande Paese che fu.
Senza dimenticare che fu il fratello maggiore, JFK, a cominciare la guerra in Vietnam…
Rudi Ghedini