Inchieste Chinatown alla Bolognina. Chi sono e cosa pensano i suoi cittadini

Se la mortadella è in salsa di soia

Import-export al posto dell'artigianato, per una comunità di imprenditori a tutti i costi. E una micro-società a strati: gli integrati fianco a fianco agli «alieni» di passaggio. Per moltissimi di loro, una vita comunque difficile, faticosa e piena di rischi
16 maggio 2007 - Piano B

comunità cinese A Bologna, in via Jacopo di Paolo, una traversa di via Ferrarese, qualcuno, col probabile intento di delimitare una frontiera, ha tracciato con la vernice bianca una linea sull'asfalto scrivendoci accanto «chinatown».
Siamo nella Bolognina e quella linea rappresenta una trasformazione, sancisce il passaggio da una realtà territoriale di fabbriche, popolata di operai, a una nuova dimensione sociale fortemente caratterizzata dalla presenza di immigrati, tra i quali predomina la componente cinese.
Oggi il quartiere Navile, di cui la Bolognina fa parte, è l'area della città con il maggior numero di stranieri residenti, 6.800 sul totale dei circa 30.000 che abitano nella città. La comunità cinese si concentra intorno a via Ferrarese costituendo una presenza assai visibile: negozi di abbigliamento, bar, erboristerie, alimentari, videonoleggi, ristoranti, fotografi, farmacie, autoscuole, agenzie di viaggi.
I cinesi approdano nella ex roccaforte del partito comunista emiliano per un'alchimia di coincidenze sfruttate bene. A partire dagli anni Novanta, in seguito alle dismissioni industriali, le storiche officine meccaniche e i capannoni delle ditte di autotrasporti della Bolognina diventano depositi di merci provenienti dalla Cina o laboratori, e i negozi gestiti dagli italiani che un tempo vivevano sull'indotto delle grandi fabbriche passano, nel giro di pochi anni, in mano cinese.
«I cinesi pagano bene...»
«Il cinese individua negozi vuoti e poi cerca là intorno, perché i nostri negozi e supermercati è sempre meglio che siano vicini, così è più comodo per la gente che viene da fuori» - dice Andrea Liu, presidente dell'Associazione cinese di Taiwan a Bologna. «In questa situazione i gestori bolognesi hanno cominciato a vendere i locali in via Ferrarese e quando i negozi cinesi sono aumentati, anche gli ultimi commercianti italiani rimasti hanno preferito spostarsi. E poi a cedere a cinesi il vantaggio c'è, perché se un italiano ha disponibili 10.000 euro, a un cinese puoi chiederne anche 40.000. Il cinese paga lo stesso. Poi i cinesi pagano in contanti, mentre con gli italiani fai le rate e magari ti pagano in due-tre anni».
Riguardo alla provenienza di questi soldi, gli stereotipi farebbero pensare all'intervento di organizzazioni criminali. Andrea Liu fornisce un'altra interpretazione: «La tradizione cinese è molto realistica: chi ha soldi gestisce affari, chi non ha soldi chiede prestiti ad amici; la comunità cinese aiuta. Se uno vuole iniziare una sua attività, i suoi vicini e parenti fanno una raccolta, prestano soldi. Se chiedi un prestito di 30.000 euro, fissi un giorno e quel giorno risarcisci».
L'arrivo dei cinesi a Bologna non è storia di ieri. Sotto le Due Torri si racconta ancora la vicenda quasi leggendaria di Umberto Sun, che nel 1958 fonda la SunGas, un'azienda per l'approvvigionamento del gas nelle abitazioni, conosciuta in tutta la città. In quegli anni i cinesi si stabiliscono in alcune vie del centro (via Polese, via San Carlo), occupandosi prevalentemente di piccole attività artigianali di tessitura, pelletteria e ristorazione. La seconda migrazione massiccia avviene a partire dal 1985, immediatamente dopo svolta liberalizzatrice del regime di Pechino. La terza e più recente fase migratoria è stata favorita dal susseguirsi delle sanatorie a partire dal 1995, ma è dal 2000 che l'afflusso a Bologna s'intensifica: oltre la metà dei residenti (53%) arriva in città tra il 2001 e il 2005; secondo i dati pubblicati dal Comune, circa la metà di loro ha meno di 30 anni.
Il quadro è quello di un gruppo molto variegato, formato da immigrati che vivono a Bologna da diversi decenni, giovani arrivati da poco e adolescenti nati in Italia.
Valerio, 17 anni, è uno dei «cinesi-italiani» della Bolognina. «Sono nato a Brescia e a cinque anni, con la mia famiglia, mi sono trasferito dai nonni a Bologna. Le scuole le ho fatte qui. In classe da noi c'erano altri tre cinesi. Alle elementari eravamo quasi una simpatica presenza. Quando nel 2000 ho iniziato le medie incominciava ad arrivare il vero flusso che c'è adesso. Vedevi questi ragazzi di 12-14 anni arrivare a scuola sapendo poco o niente di italiano, con una grande difficoltà ad integrarsi. Molti di loro hanno lasciato la scuola perché non ritengono indispensabile studiare. I cinesi culturalmente sono votati al lavoro. Prima si incomincia a lavorare, prima e di più si potrà guadagnare. Meno tempo si spreca meglio è. Io mi sentivo a disagio, un ibrido, perché non ero conforme né ai modelli italiani né a quelli cinesi».
Ma qual è il modello cinese? Prova a spiegarlo Valeriano Valdiserra, responsabile della Cna (Confederazione nazionale artigianato) del quartiere Navile: «Culturalmente sono imprenditori, tendono a lavorare in proprio, basta guardare anche tutto il sistema del piccolo commercio. Su 1.200 clienti al Cna Navile abbiamo in tutto 120 imprenditori cinesi che occupano circa 250 dipendenti connazionali. Il 50% di loro si occupa di import-export. Questo perché hanno capito che a un cinese non conviene produrre più qui, è molto meglio far venire le merci dalla Cina. In genere esportano dall'Italia alcuni tipi di merce e ne importano altri. Sono molto autonomi, hanno una loro finanziaria, hanno consulenti cinesi».

Il traguardo è l'import-export
L'import-export è il nuovo traguardo di un'imprenditoria sempre più radicata sul territorio e apparentemente pronta per inserirsi pienamente nel tessuto commerciale e produttivo bolognese. Tuttavia, la diffidenza da parte di molti operatori economici locali è ancora alta. La più importante operazione commerciale realizzata alla Bolognina di recente, la nascita del centro commerciale Minganti sulle spoglie di un ex fabbrica meccanica, ha visto l'esclusione deliberata degli imprenditori cinesi. La presenza di negozi orientali è stata giudicata dequalificante da parte della società cooperativa che ha gestito la composizione degli spazi commerciali.
La realtà locale della Bolognina rispecchia, in forma indubbiamente semplificata e microscopica, la contraddittorietà dei rapporti economici tra Italia (ma potremmo dire Europa) e Repubblica popolare cinese. Il peso economico raggiunto dagli imprenditori cinesi ha un prezzo molto alto da pagare: nelle case di via Ferrarese le storie parlano di condizioni abitative indegne, orari di lavoro impossibili, socialità nulla. Sonia, che oggi ha un negozio di bigiotteria, ricorda i suoi primi anni a Bologna: «Era difficile vivere qui. Non conoscevamo nessuno, non capivamo l'italiano, vivevamo in una camera con cinque letti. Ci andavamo solo a dormire, non si poteva neanche cucinare. Si pagava 10 euro a notte». E Valerio, con parole lapidarie: «La generazione di mio padre è centrata solo sui soldi. Non c'è bisogno di affettività. Basta avere una famiglia e sei già contento. Gli amici vengono con i soldi. Cioè, la stima dei colleghi, dei conoscenti arriva grazie al potere economico».
Vista dall'esterno, la cosiddetta comunità cinese appare come un corpo unico; tuttavia, alcuni fattori ne favoriscono la frammentazione. Primo tra tutti la competitività: il piccolo imprenditore, nel perseguire il proprio sogno, è pronto a tutto pur di salvare l'investimento fatto (almeno intorno ai 45.000 euro per un piccolo laboratorio familiare di 6-8 persone) ed è capace di accettare commissioni a volte addirittura svantaggiose, alimentando una pericolosa concorrenza al ribasso, una guerra che coinvolge l'intera categoria e quindi principalmente i colleghi cinesi.

Rischi altissimi
D'altra parte anche le condizioni di accoglienza spingono all'isolamento, come fa notare ancora Valerio: «I nuovi cinesi che stanno arrivando sono per lo più di passaggio perché vanno dove c'è lavoro; come sono arrivati in Italia possono andare altrove. Non sentono il bisogno di incontrarsi. È molto difficile per loro: molti hanno un permesso di soggiorno per 6 o 12 mesi, quindi è meglio stare buoni e continuare a lavorare, anche nell'illegalità. Purtroppo la legge vigente non facilita le cose». Tanto più che il rischio nell'intraprendere un viaggio migratorio alla ricerca al successo è altissimo. Chi parte da Wenzhou (città dello Zhejiang, regione dalla quale proviene la maggior parte dei cinesi immigrati in Italia) paga fino a venti milioni di yuan (circa 20.000 euro) per andarsene dalla Cina, senza permesso di soggiorno e con il rischio di restare a lungo nella clandestinità.
Dopo anni di presenza cinese in Italia una reale integrazione non è ancora avvenuta. Su questo incontro mancato pesano sia il sogno capitalistico degli immigrati cinesi, sia le resistenze della società italiana, come racconta Valerio. «Non è tanto un'integrazione quanto una convivenza forzata, credo. Gli amici italiani a volte dicono per scherzare: 'i cinesi sono il male minore', perché sono quelli che lavorano, che non fanno storie e che si fanno gli affari loro. Gli immigrati sono visti come forza lavorativa, non come individui. Gli italiani si sentono oppressi dai cinesi che vivono qui».