Settanta anni fa moriva, provato dagli stenti, dalla malattia e dai lunghi anni di carcere, Antonio Gramsci. Vari convegni, tra Roma e la Sardegna, lo hanno ricordato. Finanche il presidente della repubblica Napolitano ha reso omaggio al fondatore del Pcd’i.
La memoria, si sa, fa scherzi strani. Continuamente oblia e ricorda, riplasma e piega a suo modo, reinventa pensieri, azioni, intenzionalità. La storia della memoria e, vorremmo dire, dell’oblio a cui il pensiero e la vita di Gramsci sono state consegnate, è davvero maldestra. E, davvero, insopportabile. Tanto, troppo inchiostro è stato versato su Gramsci profeta della “via italiana” al socialismo. La memoria si fa sempre a partire dal futuro e dalle intenzionalità di chi la scrive. Il senso della ricostruzione sta nel suo futuro, non in ciò che ha da dire sul passato. E Gramsci è stato vittima, in ciò, dei progetti di una intera classe dirigente che da Togliatti in poi la ha incarcerato nuovamente, stavolta costringendolo a stare nelle maglie strette di quella strategia di lungo periodo di quel partito che aveva contribuito a far nascere. Un moderno principe che avrebbe dovuto condurre la battaglia italiana per il comunismo. I manifesti colorati dei democratici di sinistra in onore di Gramsci che abbiamo visto nelle nostre città, le dichiarazioni di Fassino che vuole Gramsci, insieme a Gobetti, padre del riformismo italiano democratico e di sinistra, le dichiarazioni di Giorgio Napolitano che fanno di Gramsci un grande intellettuiale nazionale, espressione di una totalità mal capita e di una volontà generale volutamente male interpretata, sono i “coup de theatre” del gioco della memoria e della storiografia al servizio di un potere logoro che si ciba della carne e del sangue dei suoi più lucidi e più potenti nemici.
Del resto, l’oblio a cui è stato consegnato Gramsci riguarda, purtroppo, anche i “rivoluzionari”. Da sempre il movimento ha parcheggiato Gramsci nella inattualità, lo ha confinato nella inutilità, schedato addirittura come nemico. I nuovismi facili lo hanno relegato nell’angolo e condannato senza appello. Ma il gioco della storia oggi sembra averlo riscoperto. Nel mondo, si tratta dell’intellettuale italiano più letto e più studiato.
Ma forse il punto è: cosa ha ancora, oggi, da consegnarci il pensiero di Gramsci? Cosa ha da propori? Intanto, una teoria dell’egemonia. Uno sguardo sulla complessità delle strutture sociali e delle linee di potere che innervano le società complesse odierne. Ma, si sa, la storia si ripete sempre due volte, e la seconda volta non ha nemmeno il gusto della tragedia. Solo la grossolanità della farsa. Un Gramsci postcomunista, profeta della pacificazione nazionale e del nascente partito democratico, o un Gramsci postmoderno, questo è quanto. Nel bivio della scelta sta l’oblio della memoria. E, con essa, la chiusura a ogni contributo futuro del pensiero di Gramsci.
I giochi sono fatti. Se non che, spirito vendicativo e beffa per chi pensava di aver già chiuso i giochi, ci ha pensato un altro vecchio dimenticato, e parcheggiato anche lui, anche lui usato e piegato per i comodi a venire (ma di chi, poi?), Mario Tronti, a riaprirli. Qualche settimana fa ha ricordato Gramsci con un bellissimo articolo apparso sul Manifesto.
Una teoria del politico. Ripartiamo da lì. Gramsci concettualizza pienamente e lucidamente l’opera del Machiavelli. Una fondazione del politico radicalmente immanentista, materiale e fondata sul gioco dei rapporti di forza. La riscoperta di un orizzonte della soggettività che non sipiega né ad un volontarismo distaccato e separato dalle condizoini sociali e dal gioco delle strutture di produzione, dunque astratto, né ad un oggettivismo determinista. Il recupero di Machiavelli è nella proposta politica del “moderno principe”, cioè di una grande macchina democratica e collettiva che dirige, intenziona, agisce la trasformazione. Fuori da ogni irrealismo e da ogni mitologia. Sorel dimentica, a differenza di Machiavelli, il politico. E finisce in questo modo per essere economicista. L’analisi dei rapporti di forza deve tener conto del surplus di forza e di potenza che il politico può mettere in campo. Il politico è farsi istituzione. Farsi istituzione vuol dire: “non può esistere distruzione, negazione senza una implicita costruzione, affermazione, e non in senso metafisico, ma praticamente, cioè politicamente, come programma di partito”. Una affermazione collettiva e costruttiva, cioè dialettica, che supera “il carattere astratto della concezione sorelliana del mito”. L’analisidei rapporti di forza contenuta nel capitolo sul Machiavelli è una perla di scienza politica. Di analisi socio-economica, storica e politica finalizzata alla praxis rivoluzionaria. Il problema è attuale, vivo. Sembra che la proposta politica di Gramsci abbia perso. Ma, con essa, chi ha vinto e chi ha perso? Sembra che il movimento di ieri e di oggi sia più figlio di Sorel che di Gramsci. Anzi, certamente lo è. Nella sua proposta politica generale, al di là delle distinzioni interne. La fine del mito della presa del potere è precisamente la vittoria della mitologia. Di una mitologia dilettantesca che pretende la vittoria senza volere vincere. Di un idealismo astratto, realmente antimaterialista, che guarda all’autogoverno e alla liberazione senza misurarsi col fatto, ontologicamente irriducibile, dell’esercizio della vita, cioè del potere. Certe degenerazioni di una sorta di mto fondativo, quasi edipico, dell’autorganizzazione e della distruzione del potere, restano, come ogni mitologia, premorni e astratti. Astratti perché concepiscono il potere come fatto assoluto, lo entificano in ogni sua determinazione senza distinguere la qualità e il tipo di potere di cui si sta parlando. Miti fondativi che nascondo una qualche troppo accentuata concessione ad una concezione del potere e a una pratica della politica sorelliana, e non machiavellica, gramsciana. “Ma questa volontà collettiva, così formata elementarmente, non cesserà subito di esistere, sparpagliandosi in una infinità di volontà singole che per la fase positiva seguono direzioni diverse e contrastanti?” La moltitudine deve farsi istituzione, si sente dire ultimanente. Una istituzione fondata nel comune, non già data, ma da fare, da costruire. La verità è che la moltitudine deve farsi “partito politico”, nel senso generale del termine partito, deve farsi volontà unica, classe. Deve cominciare a fare politica, come insegnano Gramsci e Machiavelli. L’ordine nuovo, la nuova norma, la città futura, si temporalizza nella decisione. Una decisione di un principe moderno, che è una collettività. Ma una collettività politica, non semplicemente sociale. E, soprattutto, una decisione non volontaristica, ma fondata nell’analisi dei rapporti di forza. Questo, tra gli altri, è un contributo ad una prassi futura che Gramsci può dare. E questo è il senso di un recupero possibile di Gramsci. Come sempre, recupero della memoria è recupero, riappropriazione del futuro. Non mera rivisitazione neutrale. Il senso di questo recupero è la domanda su una sconfitta politica di ormai lungo periodo. È, semplicemente, la domanda su una sconfitta che, nel novecento, sempre si è riproposta ogni qual volta il mito della distruzione senza affermazione ha vinto su Gramsci e Machiavelli, ogni qual volta, cioè, il mito dello “sciopero generale” non si è fatto politico. Ogni qual volta la questione del potere non è stata tematizzata in maniera matura e disinibita.
Talvolta si narra che il potere, allorquando dovette confrantarsi con chi voleva distruggerlo, annietarlo, nullificarlo, estirparlo dal mondo e dalla vita, abbia temuto seriamente per la sua sopravvivenza. Che abbia vacillato come mai prima d’allora. Che abbia temuto seriamente per la sua sopravvivenza. Ma altre fonti, non si sa quanto attendibili, narrano invece che uno sei suoi uomini più saggi, nel bel mezzo delle nozze con lo scemo, proferì tali parole: “il potere logora chi non ce l’ha”.