Da Cinisi, la voce di Radio Aut

Ventinove anni fa i cento passi di Peppino

Il 9 maggio 1978 moriva Peppino Impastato, ucciso da quella mafia che ogni giorno combatteva e sbeffeggiava dalle frequenze di Radio Aut. Il corpo dilaniato dal tritolo sui binari della ferrovia, i depistaggi dei carabinieri e della magistratura, la lotta della madre Felicia, del fratello Giovanni e dei compagni di Cinisi. Oggi il nome di Peppino divide ancora la sua terra. Riportiamo il ricordo di due amici di Peppino, Salvo Vitale e Umberto Santino.
9 maggio 2007 - Maurizio Papa

Peppino Impastato, 1977 Il 9 maggio del 1978 veniva ucciso a Cinisi Peppino Impastato. Pagò con la vita la sua militanza comunista, al fianco dei contadini, degli edili e dei disoccupati della sua terra. Pagò con la vita la lotta contro la mafia, le denunce irriverenti dal microfono di Radio Aut. Il boss Gaetano Badalamenti, "zu Tano", lo fece ammazzare nel corso della campagna elettorale. Trent'anni, il corpo dilaniato dal tritolo sui binari della ferrovia. I carabinieri, la stampa e la magistratura dissero che era morto preparando un attentato. Poi che si era suicidato. Gli abitanti di Cinisi votarono il suo nome, fu eletto al consiglio comunale. A un anno della morte il Centro siciliano di documentazione, che nell'80 fu intitolata a Peppino, organizzò la prima manifestazione nazionale contro la mafia. La madre Felicia e il fratello Giovanni ruppero pubblicamente con la parentela mafiosa e insieme ai compagni di Peppino hanno lottato per anni fino a veder riconosciuta la matrice mafiosa dell'omicidio.
Oggi, il coraggio di Peppino viene ancora infangato da chi ne cancella il nome dalle strade o da chi ha sradicato l'albero piantato in sua memoria a Termini Imerese. Oggi, il coraggio di Peppino è ancora negli occhi di chi non si piega alla mafia, allo sfruttamento e alle menzogne di Stato.

Riportiamo il ricordo di due amici e compagni di Peppino, Salvo Vitale e Umberto Santino:

(...) Navigavamo in un arcano desiderio di giustizia sociale e di eguaglianza che non trovava particolari sbocchi di riferimento istituzionale. Ci prestavamo qualche libro, lui "Stato e Anarchia", di Bakunin, io " Stato e rivoluzione" di Lenin, lui Rimbaud, io Prevert, lui gli scritti di Mao, io quelli di Sartre e Marcuse.
Maturammo le più belle esperienze di lotta nel '68 con le lotte per l'esproprio delle terre di Punta Raisi: avevo laggiù una casa che finì col diventare un punto di ritrovo. Il gruppo, che veniva a piedi da Cinisi, ( circa tre chilometri), era molto eterogeneo: nel corso di incontri improvvisati qualche contadino ci comunicava le sue paure di perdere la terra e il lavoro, qualche altro mi guardava con deferenza, perché scrivevo sul giornale "L'Ora", c'era chi partecipava animosamente alle discussioni, chi se ne andava sotto un ulivo a masturbarsi ( -" Manueli, chi fai?" - "Minchia, è bellu"), chi non rinunciava alla sua veste di credente, (" Dio in cielo e Mao in terra"), chi non riusciva a sganciarsi dall'ombra del papà-partito.
I miei quattro anni di differenza mi consentivano un maggiore filtro di lettura e di razionalizzazione nelle analisi e nelle decisioni, mentre Peppino definiva subito la possibilità dell'intervento forte e immediato.
Ricordo le lunghe notti passate all'università occupata, la paura di aggressione da parte dei fascisti o della polizia, le estenuanti letture dei classici del marxismo di cui era fornita la biblioteca della Facoltà, le oceaniche assemblee in cui noi, quattro gatti del PCD'I ml, riuscivamo a mettere in minoranza Corradino Mineo, che proponeva di metter fine all'occupazione, accusandolo di non so quali tresche col Rettore e con i professori.
Una volta che ero andato a trovare Peppino, suo padre mi disse: "Ci u dicissi lei. Nun m'interessa si fa politica. L'importanti è ca si pigghia un pezzu di carta". Provai a convincerlo ed egli mi sfidò a una singolare scommessa: avremmo sostenuto l'esame di Storia delle dottrine politiche senza toccare libro: lui prese ventotto, io trenta, ma solo perché conoscevo l'argomento del corso monografico. Per il resto non volle più sentirne: sosteneva che l'Università è un veicolo della subcultura borghese, una fabbrica d'ignoranza al servizio del potere .
Poi ci perdemmo di vista, io in Sardegna, vicino a "Servire il popolo", lui, dopo qualche simpatia per il "Manifesto", (1972) dentro "Lotta Continua".
Andavo a trovarlo quando tornavo in Sicilia ed egli aveva sempre del materiale politico di prima mano da darmi. In uno di questi incontri mi mostrò alcune lettere che lo invitavano "amichevolmente" a non occuparsi più degli edili, e che lasciavano intravedere chiare minacce di morte nel caso avesse continuato.
Organizzammo insieme lo spettacolo che diede l'avvio al circolo "Musica e Cultura", ma, in rapporto a questa esperienza , provavo qualche momento di disagio: non mi ero scrollato l'esperienza del '68 mentre intorno impazzava il '77. Ritenevo importante stare tra la gente e non chiusi in una stanza : molti mi sembravano più zombies o cacciatori di sesso che soggetti politici, cioè patologia del rivoluzionarismo; erano maturate alcune esperienze che non avevo vissuto, delle quali, quando rientrai, rimaneva in piedi Radio Aut.
Nel settembre del '77 Peppino mi diede una scossa: "- Mi sembra che non te ne importi più niente. Fatti vedere, vieni a trasmettere" " -" Ci sto. Ma senza "menate": fioretto per la gente comune e rasoio per gli "amici", con un obiettivo: allargare l'area del consenso".
Iniziammo un sodalizio quasi disperato: avessimo avuto altri mezzi e altra gente avremmo scelto altre strade più violente per lottare contro la mafia, ma accanto a noi c'era solo molto "personale" promosso a "politico": c'era molto bisogno d'amore, di sesso, di scarico delle tensioni e solo in pochissimi rifiutavamo l'erba, per fumare un'ideologia e una pratica d'intervento che per noi era seme, per i destinatari era invece pura follia o spaventata curiosità.
Di quegli otto mesi di intenso impegno conservo ancora qualche rimorso: ho tirato e fatto tirare la corda più di quanto Peppino avesse fatto sino allora, stimolando la sua naturale aggressività e lasciandogli sviscerare senza remore la sua grande conoscenza degli ambienti mafiosi e politici di Cinisi; ho cercato di elevare ad arte e a strumento di civile lotta politica la satira e ho finito con lo scordarmi che, quando la ridicolizzazione e la denuncia aperta intaccano interessi e credibilità, scattano sistemi di risposta e controffensive che, in una terra di barbarie e di violenza come quella in cui ci siamo mossi, prevedono anche la pena di morte.

Salvo Vitale
dal sito http://www.peppinoimpastato.com

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Cara Felicia,

oggi ti darò (ci daremo) del tu, per la prima volta. Ci siamo intravisti ventisei anni fa, quando su queste strade pesava una nuvola densa di morte. Era il 10 maggio 1978, giorno dei funerali di Peppino. Eravamo in centinaia, forse mille, venivamo in gran parte da fuori (di Cinisi, come del resto dopo e anche oggi, non erano in molti).
Tu eri dietro la bara, con il tuo vestito nero, silenziosa, chiusa nel tuo lutto. Una donna siciliana, si sarebbe detto: la solita donna siciliana, la mater dolorosa, una figura arcaica, uno stereotipo. All’improvviso, come a rispondere agli slogans dei compagni ("Peppino è vivo e lotta insieme a noi"), si levò, alto, deciso, il pugno chiuso di Giovanni. Era una prima risposta. Un filo cominciava a intrecciarsi. Dentro la famiglia Impastato qualcuno dichiarava pubblicamente di prendere il testimone, si schierava apertamente con Peppino e con i suoi compagni. Ai muri del paese in un piccolo manifesto si leggeva: "Peppino Impastato è stato assassinato. L’omicidio ha un nome chiaro: Mafia".
Il giorno dopo ci doveva essere il comizio di chiusura della campagna elettorale. Doveva parlare Peppino. Ma il corpo di Peppino era ormai ridotto in briciole e a salire sul palchetto su cui Peppino era salito tante volte ora c’era un compagno di Peppino, Giampiero La Fata e il compagno Franco Calamida di Milano. Inaspettatamente c’ero pure io. I compagni mi avevano chiesto di prendere la parola e di dire quello che mi suggerivano: che per dieci anni Peppino aveva denunciato la mafia e i mafiosi, con nomi e cognomi. Che era un omicidio e che non poteva che essere un omicidio di mafia. Che i mafiosi di Cinisi erano arcinoti, e che in testa a tutti c’era Gaetano Badalamenti. Ad ascoltare il comizio c’erano poche persone e il corso di Cinisi era un nastro lunghissimo di finestre chiuse. E dissi: "Se queste finestre non si apriranno, tutto il lavoro di Peppino è stato inutile". Le finestre non si sono aperte, non sono aperte neppure oggi, ma il lavoro di Peppino, e il nostro, nonostante tutto, non è stato inutile.
Lo stesso giorno abbiamo presentato un esposto alla procura, ribadendo quelle semplici verità. Ma intanto un’altra versione si affermava: Peppino era morto compiendo un atto terroristico e il clima di quei giorni avallava quella versione. Lo stesso giorno del delitto era stato trovato il corpo senza vita di Aldo Moro.
Il 16 maggio 1978 è una data storica. Quel giorno, i familiari di Peppino, la madre e il fratello, presentavano un esposto alla procura, scrivendo: "Giuseppe è stato l’ispiratore e il conduttore delle campagne di denuncia contro i Badalamenti e contro tanti altri presunti mafiosi", che si trattava di un omicidio e chiedendo giustizia. Era una rivoluzione, domestica e sociale. I familiari di Impastato, invece di scegliere la strada della vendetta privata, fedeli a un codice mafioso e barbarico, venivano allo scoperto e sceglievano un’altra strada. La madre di Peppino, con addosso gli abiti neri della donna siciliana indossati per una sequela di lutti, si recava al palazzo di giustizia, presentava l’esposto, parlava con i giornalisti, con Mario Francese, e dichiarava: "Sì, sono la moglie di Luigi Impastato e la cognata di Cesare Manzella, mio figlio è stato ucciso, non voglio vendette, chiedo giustizia".
"I morti uccidono i vivi", leggiamo nelle Coefore di Eschilo, delitto chiama delitto, sangue chiama sangue. Gli Impastato violavano la legge del taglione, barbarica e mafiosa, non avviavano una faida o una guerra di mafia contro Badalamenti, ma si schieravano con i compagni di Peppino, con noi del Centro siciliano di documentazione, difendevano la memoria di Peppino, infangata dalla menzogna, iniziavano una battaglia che doveva essere lunga e riservare innumerevoli amarezze. Era una rivoluzione, una rivoluzione possibile ma dura e difficile, e come tutte le rivoluzioni ha avuto i suoi costi.
Ti ricordi Felicia, l’isolamento, i bocconi amari, l’inchiesta chiusa e riaperta innumerevoli volte e poi la difficile emersione della verità? Non si trattava solo di chiedere giustizia e stare ad aspettare, ma di avere un ruolo attivo, raccogliere prove (come erano stati i compagni a raccogliere i resti di Peppino, frettolosamente lasciati in giro, prendere le pietre macchiate di sangue nel casolare dove era stato tramortito prima di collocarne il corpo sui binari, con una carica di tritolo sotto il torace), scavare nella memoria, sostituirsi agli investigatori e ai magistrati, smantellare l’edificio di menzogne messo rapidamente in piedi.
Nel primo anniversario dell’assassinio di Peppino abbiamo organizzato la manifestazione nazionale contro la mafia, la prima della storia d’Italia. Vennero in duemila, da ogni parte del Paese e già allora la storia di Peppino e dei suoi familiari usciva dagli stretti confini della provincia siciliana. Ma per anni siamo stati in pochissimi a ricordare Peppino, eppure nel 1984 ottenevamo un primo, significativo risultato. Rocco Chinnici, assassinato nel 1983, e Antonino Caponnetto, venuto da Firenze a prendere il suo posto, scrissero la sentenza in cui si diceva inequivocabilmente: Peppino è stato ucciso, l’ha ucciso la mafia ma è impossibile individuare mandanti ed esecutori. Stampammo il dossier Notissimi Ignoti, curato da Salvo Vitale e Felicetta, raccogliemmo le testimonianze dei compagni e la tua storia di vita, pubblicata nel volume La mafia in casa mia. E ti sei ricordata del viaggio di tuo marito negli Stati Uniti, quando ai suoi parenti aveva detto: "Prima di uccidere Peppino debbono uccidere me". Dopo un volantino più duro ed esplicito del solito (Badalamenti era etichettato come "esperto di lupara e di eroina") era venuto a casa, in cerca di Luigi, tuo marito, Vito Palazzolo e aveva portato l’ambasciata: don Tano gli vuole parlare.
Abbiamo fatto subito un esposto, presentato alla Procura il libro in bozze e Falcone partì per gli Stati Uniti in cerca di quei parenti, ma l’inchiesta doveva essere ancora una volta archiviata. Si doveva riaprire alcuni anni dopo ma dovevano passare ancora altri anni prima di arrivare a Badalamenti. Ti ricordi quando i carabinieri vennero a perquisire casa tua e le case dei compagni e non andarono a rovistare neppure per finta nelle cave e nelle abitazioni dei mafiosi? Chinnici e Caponnetto avevano parlato di depistaggio, ma anche quando si è arrivati a Badalamenti dei depistatori non si parlava più.
Ti eri data un appuntamento: il processo a Badalamenti, la scena l’aula bunker e tu che già ti muovevi stentatamente, sorretta dall’avvocato, seduta su una seggiola, con l’indice puntato contro il boss dietro un teleschermo. "Sei tu l’assassino di mio figlio" hai gridato e tu, con tutta la tua fragilità, eri un’accusatrice dissacrante e implacabile; lui, il boss dei due mondi, il capomafia irriducibile e tutto d’un pezzo, un povero vecchio, uno straccio d’uomo che non resisteva al peso della tua accusa.
Il giorno tanto atteso era arrivato, ma tu ormai non eri solo una madre alla ricerca di giustizia per il figlio assassinato. Eri già da tempo un punto di riferimento per chiunque lottasse contro la mafia. La tua casa era già diventata un altare civile, un santuario laico, con tutte le carte delle attività di tanti anni appese alle pareti come gli ex voto.
Anche grazie a un film che è arrivato dove noi, con i nostri poveri mezzi (il Centro è stato e continua ad essere autofinanziato, una scelta obbligata tra tanti accaparratori di denaro pubblico, in nome di un’antimafia tra spettacolo episodico e retorica continuata), non potevamo arrivare, qui, tra queste pareti, sono venuti in tantissimi, vecchi partigiani e giovanissimi dei noglobal. Sono venuti studenti da tutta l’Italia, sono venuti gli scout, commossi e felici di incontrarti. Qui si sono incontrate Felicia Bartolotta e Pina Grassi, Rita Borsellino e Haidi Giuliani, donne diversissime, provenienti da mondi lontani, che si sono capite e riconosciute. Qui è arrivato Armando Gasiani, deportato a Mauthausen, e tra lui e Felicia, che conosceva bene solo il siciliano, non c’è stato nessun problema di comunicazione. Le Resistenze, tutte le Resistenze, da quella antifascista a quella antimafiosa a quella antiliberista, si sono incontrare nel più naturale dei modi. Tutti sono venuti a parlare con te e a imparare da te.
Sul manifesto che questa notte, grazie a Liborio e a pochi altri, abbiamo appeso sui muri di Cinisi (l’abbiamo fatto in un giorno di festa, i tipografi hanno lavorato con noi, certo per amicizia nei nostri confronti ma soprattutto per affetto verso di te) abbiamo scritto: Ciao Felicia, non mamma Felicia, come sarebbe stato più ovvio. Perché in tutti questi anni non sei stata soltanto moglie (di un mafioso, che a un certo punto ha cercato di difendere il figlio dalle mani degli assassini) e madre (di un rivoluzionario), ma donna per te, matura dentro te stessa, forte di una tua autonomia, di un tuo personale carisma che rendeva il colloquio con te, o anche un semplice saluto, un’esperienza preziosa e irripetibile.
Qui è passata la storia dell’Italia migliore, non solo della Sicilia, ma di tutta l’Italia. Qui sono venuti il presidente e i rappresentanti della Commissione parlamentare antimafia a consegnarti la relazione sul depistaggio nel caso Impastato. Hai detto: "avete resuscitato mio figlio", ma prima che in quelle carte, Peppino l’avete resuscitato tu, Giovanni e Felicetta, i compagni di Peppino che non si sono piegati alla disperazione e alla resa, l’abbiamo resuscitato Anna e io e gli altri compagni del Centro che abbiamo intitolato a Peppino quando quasi tutti pensavano che fosse un povero disperato saltato sulla sua bomba. Una grande vittoria, tua e nostra, questa relazione, che abbiamo pensato potesse e dovesse essere la prima pagina di una storia dell’impunità (tutte le stragi, da Portella a Bologna, sono ancora impunite o solo parzialmente punite), ma il vento doveva andare in altra direzione e ora ci troviamo con un governo e una maggioranza che sono i peggiori di tutta la storia italiana. Una vergogna da rimuovere al più presto.
Cara Felicia, negli ultimi anni, dopo il processo e la condanna di Badalamenti, era come se prendessi gradualmente commiato, ti preparassi a lasciarci, consapevole che avevi svolto fino in fondo il compito che ti eri assegnato. Eri ormai all’apice della tua fragilità e della tua forza. Mi hanno riferito di un tuo colloquio con il segretario nazionale di Rifondazione. Hanno dovuto spegnere i registratori perché le cose che dicevi sull’attuale governo, ma pure sull’opposizione, erano troppo al di fuori dei canoni del politically correct. Mi hanno detto che ultimamente eri contentissima per la pioggia di solidarietà dopo la condanna di Giovanni in seguito alla citazione del difensore di Badalamenti che si era sentito “diffamato”.
Tra piccole e grandi soddisfazioni (avevi “decretato” che Badalamenti non poteva essere sepolto a Cinisi e avevi ribadito che certi delitti non possono essere perdonati) e attutite amarezze, ti preparavi a morire, eri tu che davi l’appuntamento alla morte. Sei morta serenamente, come chi giunge consapevolmente alla fine del viaggio. La bellezza del tuo volto, composto nella morte, ci dice con quanta serena dolcezza è avvenuto il tuo trapasso. Una morte da augurarsi e da augurare.
Ieri è venuto un sacerdote a recitare l’ufficio dei morti. Diceva che sei morta il giorno di Santa Fara, patrona di Cinisi, lo diceva mentre sulla strada era da poco passata la processione dell’Immacolata, dietro cui ai bei tempi sfilava il fior fiore della mafia locale, a cominciare da Cesare Manzella, con l’abitino e la candela in mano. Se per i cattolici il giorno della morte è il dies natalis, il 7 dicembre è il giorno natale di Santa Felicia, santa laica.
Mentre venivano in tanti a vegliare la tua morte, sul tavolo della tua stanza da pranzo scrivevo alcune parole, che ti sono dedicate. Richiamano immagini che mi sono rimaste negli occhi. Lo scorso 9 maggio, quando tu, malferma sulle gambe, aiutandoti a camminare con una sedia, ti sei affacciata su questa soglia, e distribuivi garofani rossi (un fiore caduto in disgrazia!) alle mani dei giovani e dei meno giovani che erano venuti a ricordare Peppino e a riflettere sui problemi che abbiamo di fronte (dal neoliberismo alla guerra preventiva, dall’immigrazione clandestina che ha fatto del Mediterraneo un mare di morte al saccheggio del territorio, per riprendere un tema che fu di Peppino). (...)

Umberto Santino
dal sito http://www.narcomafie.it