Forse Robert De Niro si è convinto che Matt Damon sia il volto migliore per esprimere la fascinosa, lugubre doppiezza dell'impero americano.
Fatto sta che The Good Shepherd è un film sulle origini della più potente e discussa centrale di spionaggio ha grandi qualità e altrettanto grandi difetti. La regia indugia ripetutamente nella ricerca di attimi di classicismo. Centosessanta minuti diventano insufficienti per spiegare la natura del rapporto fra marito e moglie, e se era davvero amore quello con la ragazza che fu abbandonata. Il cast stellare sembra alludere al ritorno di questi personaggi in un sequel quasi obbligato, potendo giocare sull'andirivieni fra gli eroismi della seconda guerra mondiale, gli speranzosi anni kennediani, il naufragio nel gorgo vietnamita, eccetera. La sceneggiatura è esemplare per misura e senso del climax. C'è qualcosa di Le Carré nel tono dolente con cui le spie vengono tratteggiate, le loro vite appese al filo della menzogna, sempre e comunque, le alleanze mutevoli, un senso della patria quasi tribale, da setta o società segreta, dove diventa impossibile rintracciare la purezza delle origini. Infatti, si lascia capire che anche fra le spie qualcuno ruba e tradisce, ma la "pietra angolare" della CIA non può che cementarsi intorno alla gelida paranoia di un bambino che ha visto il padre suicidarsi.
Matt Damon, appunto. È lui l'architrave perfetto su cui appoggiare una storia come questa. Perché possiede il talento di mister Ripley e quella faccia tosta che gli serviva a fare il doppio gioco in The Departed. Dietro la sua americanissima maschera, è inutile cercare la verità. Tradirà senza alzare un sopracciglio. Il suo abbraccio al figlio, davanti alla chiesa, è terribilmente simile a quello che il giovane Al Pacino riservava al fratello maggiore (John Cazale), subito dopo aver dato l'ordine di ucciderlo.