L’abbraccio mortale tra università e precarietà risulta strutturale e ben saldo da qualsiasi prospettiva si provi ad analizzare il modello dell’ateneo-azianda. Non solo un sistema formativo pensato e gestito con l’unica finalità di sfornare lavoratori precari pronti da sacrificare sul mercato. Non solo l’inesistenza di un vero diritto allo studio che attraverso elevatissimi costi di accesso ai servizi condanna gli studenti ad una condizione di precarietà esistenziale quotidiana. L’università infatti non si accontenta di essere luogo virtuale o generico di precarietà e se ne fa promotrice diretta entro le sue stesse mura, applicando con cinica coerenza il modello produttivo che da anni contribuisce a costruire e preservare.
Luogo paradigmatico di tale realtà è la mensa universitaria di Piazza Puntoni. Esternalizzata dall’ARSTUD alla privata Concerta, offre agli studenti posti limitatissimi e prezzi inaccessibili e, come altra faccia della stessa medeglia, sfrutta ordinariamente i suoi dipendenti con condizioni di lavoro e dispositivi di controllo degni delle catene della grande distribuzione che per anni hanno rappresentato il modello dell’azienda totale. I contratti Concerta sono ancora in maggior parte a tempo indeterminato, ma ciò non fa altro che confermare che la precarietà è oggi condizione generalizzata, non più definibile in termini astrattamente contrattuali.
I livelli salariali forniscono la prova più immediata: grazie al perenne ricatto della disoccupazione e nascondendosi dietro una crisi che in realtà non c’è (la privatizzazione dilagante sta aprendo ad aziende come la Concerta un mercato vastissimo), le buste paga parlano di stipendi bassissimi anche per dipendenti qualificati come i cuochi che altrove potrebbero percepire più del doppio. E indipendentemente dalla tipologia di contratto, un efficace strumento di ricatto è comunque garantito dalla clausola che prevede di poter essere trasferiti arbitrariamente anche da un giorno all’altro. Gli incentivi per i dipendenti “leali”, invece, passano per premi di produzione che con criteri di attribuzione tutt’altro che trasparenti hanno legalmente sostituito i vecchi regali fuori busta, in nero.
Se i salari sono bassi, le condizioni di lavoro aggiungono peggio al peggio. A chi lavora in cucina, ad esempio, viene affidata la responsabilità di dare da mangiare agli studenti lavorando in spazi ristretti, con controlli sanitari concordati, attrezzature insufficienti e prodotti in larga parte semilavorati e precotti, spesso non certificati. Se poi qualcuno si lamenta o semplicemente c’è bisogno di aumentare la produzione, tutte le responsabilità e i carichi vengono riversate sui lavoratori: lavorate di più e meglio.
Di più e meglio perché l’azienda è tutto, tutto è l’azienda. Lamentarsi non ha senso perchè la Concerta è una grande famiglia. O almeno questo è ciò che si tenta di inculcare ai lavoratori con ogni mezzo, attraverso la celebrazione del mito aziendale ed una forte pressione di gruppo che porti ad identificarsi con il marchio. Così come fa chi è stato scelto per rivestire ruoli di responsabilità, la cui funzione, nella logica dei “kapos”, è dare visibilità al potere che deve essere presente anche quando no lo è. Così da far scattare nei lavoratori profondi meccanismi identitari, come la sofferta autoimposizione del silenzio di chi vorrebbe suggerire agli studenti di scegliere la combinazione di portate più conveniente o di evitare quel piatto riciclato dagli avanzi del giorno prima.
L’esercizio del potere, del controllo e della gerarchia passa quindi per l’applicazione sistematica di veri e propri dispositivi totalizzanti, da quelli più manifesti a quelli più sottili. C’è il dipendente richiamato duramente davanti a colleghi e clienti per aver dato troppe patate ad un ragazzo visto che il contorno da lui richiesto era terminato e per altro la mensa stava per chiudere. C’è la cassiera troppo irrequieta a cui vengono sistematicamente rilevati degli ammanchi di cassa solo per farle pressione; e poiché chi sta in cassa trova ogni giorno in postazione un biglietto con l’andamento del suo turno precedente, ma non potendo contare i soldi né a inizio né a fine servizio non ha modo di contestare i conteggi, arriva ad autoconvincersi dell’errore, cadendo nella diffusa torsione identitaria della conversione alla verità aziendale. C’è il caso della sospensione lavorativa in occasione della lunga ristrutturazione dei locali: quattro mesi senza paga e la continua promessa di una pronta riapertura che ha impedito ai dipendenti di cercarsi nel frattempo un altro impiego. Ci sono le cassiere che il giorno dopo aver scioperato si ritrovano a lavare i piatti o che, circondate da inutili televisori al plasma e arredamenti ultimo modello, sono costrette a svolgere l’intero turno in piedi sentendosi spiegare che l’azienda ha deciso di risparmiare proprio sulle loro due sedie. C’è la lavoratrice con invalidità al 70% che chiede da tempo di passare a mansioni meno gravose ma con l’unico risultato di farsi licenziare e riassumere con le nuove certificazioni in modo che la Concerta possa usufruire degli sgravi fiscali. Le mansioni sono rimaste le stesse, lei va avanti con continui e degradanti permessi per malattia e soprattutto, quando non può fare a meno di presentarsi, con gli antidepressivi.
La sintesi è presto fatta. La mensa è selettiva e si mangia male, i lavoratori vivono una quotidianità fatta di sfruttamento e angoscia, la Concerta approfitta degli enormi vantaggi offertigli su un piatto d’argento e fa profitti su profitti. Completano il quadro Alma Mater e ARSTUD, che si preoccupano solo di spartire la torta-università scaricando ogni responsabilità di ciò che accade al suo interno, e sindacati silenziosi e conniventi in virtù dei soliti vecchi intrecci con la lega delle cooperative e le aziende più influenti.
Alla mensa universitaria di Bologna si mangia precarietà cotta a puntino. Buon appetito.