Il Bologna Process compie dieci anni. E li porta piuttosto male. Cominciato con gli accordi della Sorbona (siglati il 25 maggio 1998 a Parigi tra i ministri dell’istruzione di Francia, Italia, Gran Bretagna e Germania), proseguito con la loro ratifica ed estensione a 29 paesi nella conferenza di Bologna del 18 giugno 1999 (da cui il nome della città che caratterizza il processo), e infine ribadito nella Conferenza di Praga del 2001, il processo di armonizzazione delle diverse linee di riforma dell’università aveva i suoi perni nel mutamento della struttura curricolare, che in Italia ha preso il nome di 3+2, nella differenziazione dell’offerta formativa e nell’introduzione del sistema dei crediti. Attualmente sono 45 i paesi coinvolti. L’obiettivo era quello di creare un mercato della formazione unificato a livello continentale, in grado di favorire la produzione su grande scala di una forza lavoro intellettuale adeguata a rendere l’Europa competitiva nell’economia globale della conoscenza. Così, se leggiamo congiuntamente il Processo di Bologna e la Strategia di Lisbona un anno dopo, vediamo la tendenziale sovrapposizione tra mercato della formazione e mercato del lavoro, al cui interno i saperi e la loro misurazione diventano un filtro di differenziazione e regolazione del valore della forza lavoro cognitiva. Da questo punto di vista, l’istituzione dello European Credit Transfer and Accumulation System tenta di ricondurre le conoscenze ad un’unità di misura temporalmente definita in via puramente artificiale, attraverso cui quantificare e gerarchizzare la produzione del sapere vivo. Proprio su questa identificazione, che assume i tratti della precarietà, hanno insistito le lotte degli ultimi anni in giro per l’Europa, che sono spesso cominciate – così è avvenuto in Italia nel 2005 contro il Ddl Moratti o in Francia l’anno seguente nella rivolta vittoriosa contro il Cpe – non da un progetto di riforma dell’istruzione superiore, ma da una legge sul lavoro. La dequalificazione dei saperi, caratteristica dell’università riformata, diventa immediatamente processo di declassamento, tema comune della nuova composizione soggettiva che si è costituita nei conflitti degli ultimi anni. Cessa l’idea dell’università come tempo di attesa e formazione: lo studente è ormai a tutti gli effetti un lavoratore.
Utilizzo e crisi del Processo di Bologna
Se, come molti hanno evidenziato, il Bologna Process è il risultato di un processo di allentamento dei legami tradizionali tra università e Stato-nazione, diverse sono le motivazioni che hanno spinto i vari paesi a entrarvi. In Italia anche il think tank che ha istruito il progetto Berlinguer-Zecchino riconosce che l’impegno dei due ministri sul piano europeo aveva innanzitutto l’obiettivo di legittimare, accelerare e garantire l’attuazione del processo di riforma del centro-sinistra. Da ciò consegue che l’impatto del cambiamento non è stato mediato, rispetto alla fase della sperimentazione si è privilegiata l’immediata messa a regime, nel timore che il processo di riforma potesse essere bloccato o inceppato dagli altri “stakeholder” del mondo universitario. Berlinguer e Zecchino hanno così tentato di tradurre e applicare dall’alto la riforma in un solo colpo, mentre negli altri paesi europei il processo sta tuttora procedendo tra incertezze, dubbi e vischiosità nel mutamento. In Gran Bretagna, ad esempio, non si riscontra particolare interesse verso gli accordi stipulati a Bologna: presumendo che questi assumano le linee del sistema universitario anglosassone, non deve fare altro che aspettare che il resto di Europa si allinei. In Germania, invece, fino a poco tempo fa solo il 25% delle università funzionava secondo il modello disegnato alla conferenza del ’99: agli atenei viene lasciata la possibilità di sperimentare i due percorsi, quello vecchio e quello nuovo contemporaneamente, cosicché nel 2010 i Land che saranno più avanti verranno premiati. Altrove – come in Spagna o in Grecia – il Bologna Process è passato attraverso riforme contro cui si sono sviluppate importanti movimenti, ma di fatto resta in buona parte inapplicato o comunque di difficile applicazione. Sono state proprio le lotte e le resistenze diffuse degli studenti, del resto, a mettere in crisi se non addirittura a far fallire il disegno riformistico, come in Italia evidenzia perfino chi l’ha sostenuto.
L’esportazione della crisi e il rovesciamento del processo
Forse già la città da cui prende nome il processo, scelta anche per essere sede della più antica università europea, ha simbolicamente prefigurato le difficoltà a venire. Il fallimento del Bologna Process è infatti anche la crisi del tentativo di ripensare un nuovo modello di organizzazione del sapere tra le macerie dell’università moderna. Tradizione e innovazione non solo non si combinano, ma una finisce per bloccare l’altra. Nonostante il fallimento, tuttavia, a distanza di dieci anni assistiamo a una paradossale moltiplicazione su scala globale di analoghe politiche di unificazione: il Lusophone Higher Education Area in Africa, i cosiddetti programmi ALFA in America Latina, il Melbourne Process e l’ASEAN+5 tra Australia e Asia. E mentre in Europa si tenta di importare ed espandere il sistema del debito, alla radice della crisi economica globale, sull’altra sponda dell’Atlantico si sta per varare nuovo progetto pilota di riforma dei curricoli che coinvolge Utha, Minnesota e Indiana, anch’esso come gli altri esplicitamente ispirato al modello del Processo di Bologna. La crisi diventa dunque non solo elemento permanente, ma materia di esportazione.
In questo quadro, la crisi dell’università contemporanea si intreccia allora indissolubilmente con la crisi economica globale: sono segnate dall’eccedenza del sapere vivo rispetto alle forme di cattura e comando imposte dal capitalismo cognitivo. D’altro canto, nella sovrapposizione tra mercato della formazione e del lavoro si riconfigura anche lo spazio della cittadinanza, nella proliferazione flessibile di confini atti a controllare e segmentare la mobilità di studenti e ricercatori precari, ovvero quello che vari studiosi hanno definito un processo di “internazionalizzazione dal basso”. Proprio per questo la resistenza al Bologna Process non può assumere un aspetto conservatore, né essere venato da nostalgie per gli spazi nazionali di formazione del mercato del lavoro. Ciò finirebbe per essere preda di quella tradizione che, come abbiamo visto, non è che una faccia del funzionamento dell’università globale, nella sua esausta combinazione di pubblico e privato. La scommessa che si pone ai movimenti di studenti e precari è direttamente su un piano costituente, cioè della costruzione di uno spazio europeo innervato dai conflitti e dai percorsi di autoriforma che già stanno organizzando una nuova università. A questo livello, “noi la crisi non la paghiamo” può allora diventare l’occasione di un ripensamento radicale dello statuto epistemologico del sapere, a partire dalla riappropriazione della ricchezza sociale prodotta in comune dal lavoro cognitivo.
a cura di Paolo Do e Gigi Roggero (uscito mercoledi 3 giugno '09 sul Manifesto - speciale sull'Europa)