Da xenos, "estraneo, insolito" e phobos, "paura", nasce la parola xenofobia. Ma non è di questo che stiamo parlando. Perchè non c'è ormai nulla di insolito, di diverso, di estraneo, nella presenza di migranti in questo paese. Sono circa 4 milioni solamente i regolari, si stima che quasi un altro milione sia presente senza permesso di soggiorno.
Quello che sta avvenendo in questi giorni, l'imminente approvazione del pacchetto sicurezza, il respingimento in Libia di 227 migranti (nessuno libico) senza possibilità di effettuare la richiesta d'asilo, la proposta di istituire vagoni separati nella metrò di Milano, il suicidio di Ponte Galeria, dopo l'annuncio dell'espulsione, non hanno nulla a che vedere con la xenofobia.
Certo, il lavoro della crisi, il suo agire sul corpo vivo della società (non si tratta ormai è chiaro di un problema di titoli tossici) racconta di spinte di protezionismo sociale, a volte xenofobe, altre volte semplicemente identitarie, anche da parte dei migranti stessi, altre ancora positive, come quelle della comunità di Lampedusa o dei rifugiati di Milano. Forme di difesa, di auto-protezione, problematiche e dal segno contraddittorio.
Ma quello con cui facciamo i conti oggi si chiama razzismo. E' una guerra dal nome di razzismo. Non quella molla a volte irrazionale che mette davanti la paura alla conoscenza, la chiusura all'apertura, ma semplicemente razzismo, dello stato, della norma, della pratica di governo.
Il razzismo di oggi gioca con la paura, si alimenta del timore diffuso, a sua volta contribuisce a deformare le percezioni, le opinioni, i rapporti. Ma trova le sue radici da un'altra parte. Nei tentativi della Lega Nord di recuperare legittimità davanti al tracollo dell'ipotesi autonomista e realmente federalista, davanti ai tagli agli enti locali ed allo stato più centralista degli ultimi 30 anni. Nella necessità di chi governa di ridefinire le strategie del controllo della mobilità, del lavoro (o meglio della crisi del lavoro) della libertà, del dissenso.
Questo è un momento di nuova riscrittura delle regole del controllo delle migrazioni.
Non si tratta ovvio di un disegno compiuto, non c'è nessun architetto diabolico a progettare omogeneamente tutto questo. Ci sono piuttosto una serie di apprendisti stregoni, non per questo meno pericolosi, che stanno mettendo in gioco, nella crisi, miserabili strategie di uscita (o di gestione di essa?).
Il razzismo, il dissenso, il controllo sulla vita.
Sul pacchetto sicurezza c'è poco da aggiungere. Il provvedimento è disumano. C'è un arretramento generale della vita in comune alle porte, il tentativo di legittimarlo, di utilizzo della crisi per disporre nuove e più marcate linee di frattura utili al comando. La sua disumanità, gestita dalla politica come necessità di lottare contro i clandestini, ha allargato la portata delle norme non solo ai migranti, ma a noi tutti (quelle anti-terrorismo, quelle sull'iscrizione anagrafica, etc etc etc). Contro il dissenso e la povertà non si fanno certo discriminazioni. Si tratta di una battaglia che vede il Carroccio in testa ma che a ruota, non senza contraddizioni interne, vede impegnata l'agorà della politica nella sua interezza. C'è chi si scandalizza per i medici o i presidi spia, chi spinge, chi cede, c'è chi rivendica umanità dopo aver esso stesso istituito i cpt (è il caso dell'opposizione del
centr-sinistra) ma la sostanza non cambia. Rimangono, contenute nel pacchetto, disposizioni che agiscono fino in fondo sul corpo sociale e sulle sue possibilità di ricomposizione. Se questa è la risposta alla crisi, allora dobbiamo essere all'altezza di questa sfida: libertà contro crisi!
Ma altri avvenimenti riempiono la cronaca di questi giorni e ci aiutano (ahinoi!) a far chiarezza.
Diritto d'asilo e libera circolazione
Nelle ultime settimane, anche grazie alle mobilitazioni dei rifugiati di Milano, avevamo avuto l'occasione di assaggiare la crudeltà delle retoriche sull'accoglienza e la libera circolazione in Europa. Rifugiati senza un tetto e una vita dignitosa, ingabbiati nella metropoli senza la possibilità di muoversi liberamente nell'Europa di Schengen e dalle frontiere mobili.
Il rinvio forzato di 227 migranti soccorsi al largo delle coste siciliane verso la Libia segna però un nuovo inizio.
Nel 2005 l'Italia era già stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo proprio perché aveva effettuato dei respingimenti collettivi dei migranti sbarcati a Lampedusa, a partire dall'ottobre del 2004, con voli, prima militari e poi charter, decollati dall'aeroporto dell'isola con destinazione Tripoli e Misurata.
Ora però la pratica diventa ufficiale e l'Europa, brava a lanciare grida dall'allarme, sembra troppo debole per imporre marce indietro.
In ballo c'è la fine del diritto d'asilo. L'accordo Italia-Libia, il respingimento verso la Grande Jamāhīriyya Araba di Libia Popolare e Socialista, uno dei paesi più disumani del mondo, parla fino in fondo il linguaggio dell'arbitrarietà sulla vita. Non solo respinti, non solo inibiti nell'esercitare il diritto di fuga dalla miseria e dalla guerra, ma anche forzatamente rinviati verso le carceri e le torture libiche, senza che nessuno di loro sia libico. Una aberrazione.
Il controllo della libertà di circolazione, da sempre campo di tensione, di limitazioni ma anche di rivendicazioni, si esprime oggi in tutta la sua centralità nella ridefinizione dello spazio di governo nazionale, europeo, globale. Governo della crisi, ovvio, visto che questo è il nuovo paradigma del presente. Se la crisi modifica tutto (e non solo in questo paese ma anche nello scenario mondiale) da un lato le spinte alla libertà di circolazione sono sempre più pressanti (non per forza verso l'Europa ovvio) dall'altro si esaspera la necessità di disegnarne i canali, controllarne le forme, subordinarne le possibilità.
La detenzione come forma di gestione dell'esubero
I tempi di detenzione si allungano. Il fine è l'espulsione dicono. Per Nabruka Mimuni, tunisina di 44 anni, l'annuncio dell' espulsione è stata la morte. Si è tolta la vita nella sua cella di Ponte Galeria per evitare il rimpatrio nel suo paese. Non è la prima volta, non è la prima storia. Di detenzione si muore.
Nel pacchetto sicurezza è contenuto il prolungamento dei tempi di trattenimento nei Cie. Ma le espulsioni sono poche, a volte letali, in ogni caso un miraggio per chi spera di risolvere in questo modo il nodo dell'irregolarità del soggiorno. La realtà è ben diversa. Racconta di una nuova necessità, quella della dilatazione dei tempi dell'incarcerazione davanti all'esubero della forza lavoro, davanti alla caduta nella clandestinità di chi perdendo il posto perde anche il permesso, davanti alla differenziazione della messa al lavoro degli irregolari (i cantieri edili sono in crisi, per l'assistenza familiare non è lo stesso). I cpt sono oggi ancor più di un tempo una valvola necessaria nella gestione della precarietà. Utili a governare il lavoro
ed il non lavoro ed insieme lo spettacolo della caccia ai clandestini, le retate metropolitane, le maxi-operazioni di pulizia urbana.
L'apartheid nella metro e la radicalità del momento
Non è certo sorprendente, in passato abbiamo sentito altre cose impronunciabili. Le sparate sui vagoni differenziati, sugli autobus divisi o sugli spari contro i barconi, si inseriscono in questo quadro senza più apparire come voci fuori dal coro o esuberanti ed esagerate singole prese di posizione.
Incessantemente, con cadenza regolare, siamo costretti ad ascoltare ogni tipo di provocazione. La crisi è anche questo. Il tentativo di interpretare in forma radicale (negativa ovvio), i rapporti sociali ed i conflitti che vivono nella società stessa. Anche questa sfida richiama una risposta all'altezza.
Non vi sono coscienze da muovere, non ci sono toni da moderare, neppure una sacralità dell'istituzione da ripristinare. Il conflitto è presente oggi più che mai nella nostra vita. Dentro a questa crisi tutto è in gioco e non è possibile chiedere di rimettere la palla al centro. Chi governa, questa partita ha scelto di giocarla fino in fondo.
E non si tratta di una questione che riguarda gli anti-razzisti, o i migranti semplicemente.
A noi tutti è richiesta la scelta. Non c'è spazio per gli spettatori.
Nicola Grigion, Progetto Melting Pot Europa