Tredici condanne su ventinove imputati, trentasei anni comminati contro i cento richiesti dai Pm. Tutti i vertici della polizia assolti; questo, lo ricordiamo, l’esito del processo sui fatti della scuola Diaz durante il G8 del Luglio 2001 a Genova. Dopo la sentenza arrivano, ora, le motivazioni che hanno condotto il presidente della terza sezione del tribunale di Genova, Gabrio Barone, ad esprimere questo giudizio.
Lo scritto di oltre quattrocento pagine che contiene le motivazioni della sentenza dice pure: “Quanto avvenuto in tutti i piani dell’edificio scolastico con numerosi feriti, di cui alcuni anche gravi, tale da indurre lo stesso imputato Fournier a paragonare la situazione ad una macelleria messicana, appare di notevole gravità sia sotto il profilo umano che legale. In uno stato di diritto non è accettabile che proprio coloro che dovrebbero essere i tutori dell’ordine e della legalità pongano in essere azioni lesive di tali entità, anche in situazioni di particolare stress”. C’è quindi, nel fondo del ragionamento, questo giudizio morale che viene, di fatto, attenuato nel momento in cui si comminano le pene. Questo giudizio morale, basato su principi morali, non norma, come invece avrebbe dovuto secondo molti, le delibere dei giudici. Riamane solo un'evidenza manifestata per essere meglio taciuta. In linea teorica, infatti, è tanto più grave, come viene ricordato dallo stesso testo, che ad infrangere le garanzie dello stato di diritto sia chi, giuridicamente parlando, è preposto a preservarle. Ma questo aspetto, come si vedrà, più che funzionare da frame, cornice di senso, in base al quale comminare pene esemplari, è al contrario la ratio attraverso la quale i fatti vengono ricostruiti e ricondotti ad un'eccezione (la polizia spranga) carica di distinguo (i capi c'entrano poco con quanto successo). Il fine è, in pratica, quello di ottenere una riabilitazione del corpo di polizia. Sempre riferendoci al testo, si può infatti leggere:"Quanto accadde all'interno della scuola Diaz-Pertini fu al di fuori di ogni principio di verità, oltre che di ogni regola e previsione normativa, anche se fu predisposta in presenza dei presupposti di legge".
Ciò che sembra emergere dalle sentenze è, come poi viene spiegato dal documento rilasciato in questi giorni, che non esistano della aggravanti rispetto a quella sciagurata azione delle forze dell’ordine: non si è trattato di una ‘spedizione punitiva’ né di ‘rappresaglia’. “A parte le carenze di prove concrete – scrivono i giudici – appare difficile che un simile progetto possa essere stato organizzato e portato a compimento con l’accordo di un numero così rilevante di dirigenti, funzionari e operatori di polizia”. E a questo punto s’intravede anche un dispositivo della spiegazione che suona da attenuante: “…si ritiene che che i dirigenti fossero convinti che l’operazione avrebbe avuto un rilevante successo e si sarebbe conclusa con l’arresto dei responsabili delle violenze e delle devastazioni dei giorni precedenti”. Ciò che viene sottolineata è la buona fede dei vari Luperi e Gratteri. Di nuovo, la polizia, nella veste dei suoi capi, ha agito come se vigesse lo stato di diritto, la sua azione non ne rappresenta una sospensione. Sicuramente qualcuno è andato oltre, ma si tratta solamente di qualche mela marcia e il processo viene investito della funzione di reciderle.
Ma è a questo punto che il testo rilasciato dai giudici diviene più contorto e non facilmente interpretabile: come già detto, quella della Diaz, non è un’azione premeditata. I capi, cioè, non vogliono, o non vorrebbero, secondo la ricostruzione fatta, che la Diaz si trasformi in una macelleria messicana. Questo, comunque, si verifica. Ma ciò che conta a questo punto è la narrazione dei fatti, la ricostruzione letteraria che si fa degli avvenimenti, la loro finzionalizzazione in sede di processo verrebbe da dire. Secondo i giudici, le violenze verso i ragazzi hanno avuto "un’origine spontanea poi propagatesi per un effetto attrattivo". Una logica da branco, qual è quella a cui si appellano sempre i media e i politici nostrani per declassare e identificare, sul piano individuale, chi commette i reati e per rendere più condivisa l'operazione del sanzionare. In questo caso, al contrario, la logica del branco viene richiamata per spiegare una degenerazione rispetto alla quale i capi possono poco e con cui hanno poco a che fare. La logica del branco non è qui funzionale a quell'operazione di configurazione delle responsabilità individuali di ogni agente presente sul posto se non per le mele marce, i capri. Gli stessi dirigenti vengono presentati come degli inconsapevoli, ma "a spingere gli agenti ad agire in quel modo sarebbe stata la certezza dell’impunità", la coscienza del fatto che i loro capi non avrebbero sporto denuncia. I capi tornano, quindi, di nuovo in ballo per poi eclissarsi nuovamente dal discorso. Il loro è un silenzio assenso di cui poi si perde traccia. Nessun ordine è stato dato, né per far partire le violenze e né per bloccarle. Ques't ultimo aspetto, forse, meritava di essere preso in più seria considerazione dai giudici.
Riguardo il ritrovamento delle molotov vale lo stesso discorso: i capi sono poveri fessi. Il fatto che ci siano numerosi video che ritraggano personale della polizia mentre introduce le molotov all'interno della scuola non significa che i capi ne sappiano qualcosa. Tutto si blocca su un passaggio, diciamo così, logico. Ma questo passaggio porta il discorso a spostarsi su un altro punto di vista. Ne consegue la domanda: "Ma come funziona la polizia italiana? A cosa serve la gerarchia di questi corpi?" . Quindi, in mano si ha esclusivamente il dato per cui "ci sono dei semplici indizi non univoci" sulla consapevolezza dei capi della polizia, Giovanni Luperi (ex vicedirettore Ucigos) e Francesco Gratteri (ex direttore dell Sco). Riportiamo di seguito uno stralcio del testo:
«Se è vero che gli elementi indicati dall'accusa possano da un lato determinare il sospetto circa la consapevolezza da parte dei citati imputati della falsità del ritrovamento delle bottiglie molotov all'interno della scuola - si legge nel documento -è anche vero dall'altro che non possono valere a provarla con la dovuta certezza trattandosi di semplici indizi non univoci». Si ma cosa è vero? Con la sintesi di questi due lati a cosa si arriva? Si può soprattutto ottenere una sintesi tra la presunta pre-conoscenza della situazione da parte dei capi e la mancanza di prove che colleghino questa pre-conoscenza ad una colpa individuale? Ecco, metterla in questi termini rappresenta un buon esempio di come spesso è la narrazione dei fatti più che il fatto in sè a decretare vincenti e perdenti. Il problema consiste allora nel vedere quali istanze producano il discorso. Questa la lettura - ritengo ovvia - del processo genovese, un tentato rito di ricomposizione di quella profonda frattura dell'immaginario collettivo del Luglio 2001. Si poteva fare una narrazione dei fatti, attraverso questo processo, che risultasse, se non vera, almeno veridica? La risposta è ovviamente no. Perchè lo Stato di diritto non può andare contro se stesso, e anche quando di fatto ci va può farlo solo entro un range di attribuzione di responsabilità depotenziato. Questo era il modo per fare contenti tutti. Tutti tranne quelli che a Genova hanno sperimentato una vera sospensione di questo stato di diritto. E il rito non glielo ha fatto certo dimenticare,anzi.
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