La gravità della crisi in cui versa il settore automobilistico americano è sintetizzabile nei volti di Rick Wagoner, Alan Mulally e Bob Nardelli. Le espressioni che si leggono sulle facce degli amministratori delegati delle “Big Three” di Detroit General Motors, Ford e Chrysler, non hanno bisogno di commenti. Costretti a recarsi in pellegrinaggio al Congresso, per metà come imputati della crisi e per metà come questuanti alla ricerca di aiuti, hanno dichiarato che senza soccorsi rapidi è in gioco la stessa sopravvivenza delle loro rispettive corporations. La profondità del collasso è misurata dallo sprofondare delle vendite, cadute ai minimi da 25 anni con una flessione-simbolo del 32% in ottobre, la dodicesima consecutiva, a 836.156 veicoli, pari a vendite su base annuale inferiori ai 10,6 milioni rispetto ai 16 del 2007: il mese più nero dalla fine della seconda guerra mondiale. Solo nei primi dieci mesi del 2008 il declino è stato del 15 per cento. E novembre e dicembre, secondo gli analisti, potrebbero chiudere ancora peggio.
Il 12 novembre scorso, non contenta, la sola General Motors ha perso in un unico giorno di contrattazioni quasi il 30% del proprio valore di mercato, tornando ad avere la stessa capitalizzazione che aveva nel lontanissimo 1946: in 24 ore un salto indietro nel tempo di ben 62 anni. Appare evidente a tutti che non si regge a lungo in una simile condizione: la grande azienda, un vero simbolo dell'industria, del sogno e dello stile di vita americano non è alla frutta, è all'ammazzacaffè. La crisi finanziaria, dopo le banche, punta a disossare, dunque, un altro settore chiave per le economie occidentali: il settore automobilistico. Questo, tuttavia, ed è bene ricordarlo, non senza la complice responsabilità dei rispettivi manager, colpevoli di aver seguito politiche industriali che definire poco lungimiranti sarebbe un eufemismo. La realtà, però, impone di agire: sono a rischio milioni di posti di lavoro.
Se lasciar morire l'industria dell'auto - qualora lo meriti - è doveroso, meno saggio è farlo, infatti, in un momento come questo, nel mezzo di una crisi finanziaria tra le peggiori dell’ultimo secolo. L'industria automobilistica occupa negli States circa 3 milioni di persone: mandarle tutte a spasso in un colpo solo, considerata l’inesistenza di ammortizzatori sociali, significherebbe probabilmente dare il colpo di grazia all'intero Paese e, di conseguenza, all’economie di mezzo pianeta. Mentre tutti gli occhi sono puntati sul salvataggio delle banche, una grande quantità di denaro, infatti, è stata trasferita nelle tasche di un’altra causa che non se lo merita. Già il 25 settembre scorso, George W. Bush accordò un prestito di 25 miliardi di dollari al settore automobilistico. Un prestito a basso interesse che, secondo Bernard Simon del Financial Times, costerà al governo non meno di 7,5 miliardi in termini di mancati interessi percepiti dalle casse dello Stato. Purtroppo poche persone se ne sono accorte e meno ancora hanno combattuto per contrastarne l’effetto. La Camera dei Rappresentanti ha approvato la misura con 370 voti a favore e 58 contrari ed il grande salvataggio, purtroppo, si sta estendendo come una piaga ed ha già attraversato l’Atlantico.
Considerata la compiuta globalizzazione del mercato automobilistico, infatti, il 6 ottobre, stando a quanto riportato dall’ACEA (the European Automobile Manufacturers Association. ndr), le imprese europee del settore hanno domandato che l’Unione Europea accordasse loro 40 miliardi di Euro in prestiti agevolati, per eguagliare i sussidi degli Stati Uniti ed evitare le inevitabili storture che ne deriverebbero per la libera concorrenza. Dopo il rifiuto di Bruxells sarà, dunque, inevitabile che la crisi americana produca disastrose conseguenze a catena in termini di occupazione, a cominciare proprio dalle fabbriche del gruppo GM presenti in Europa.
La situazione finanziaria per il colosso americano - ma in realtà per l’intero settore automobilistico - è a tal punto compromessa, infatti, che General Motors, presente anche nel vecchio continente con il marchio tedesco Opel, potrebbe estendere uno stop produttivo a tutti i suoi stabilimenti europei per alcune settimane. Per Rainer Einenkel, rappresentante sindacale dell’impianto Opel di Bochum, il gigante americano starebbe programmando l’ennesima pausa produttiva per la fine di dicembre, dopo quella già realizzata nelle ultime due settimane di novembre. Se si deve tagliare, infatti, è sempre preferibile farlo nelle filiali estere che a casa propria, per la felicità di quanti della crisi pagheranno solo gli effetti.
Così, all’inizio del mese scorso la GM aveva ufficializzato che, a causa della congiuntura economica globale, sarebbe stata costretta a cessare la produzione dei due impianti, con più di 6500 dipendenti, situati in Germania. La produzione verrà inoltre soppressa di 40.000 unità entro l’anno: la vendita dei modelli targati GM è infatti diminuita del 30% secondo quanto afferma il numero uno di GM Europa, Carl-Peter Forster.
In Italia la situazione non è migliore. È notizia di ieri, infatti, il calo del 29,46% delle vendite delle vetture vendute nel mercato dell'auto italiano. Rispetto allo stesso mese dello scorso anno sono state vendute quasi 60mila unità in meno, fermandosi a quota 138.352. Si tratta del maggior calo mensile dal 1993. La situazione si rivela per quella che è: drammatica. La grave crisi economica di queste ultime settimane ha investito, ovviamente, anche la Fiat: la casa italiana, per far fronte al difficile momento, sarà costretta a varare numerosi provvedimenti di cassa integrazione. Lo stabilimento di Mirafiori è stato fermato per 14 giorni - anziché 7 come annunciato precedentemente - nel solo mese di novembre. Più di 3500 addetti, eccetto quelli impiegati nella catene di assemblaggio dell’Alfa MiTo, sono stati già fermati e nulla lascia intendere che la situazione possa migliorare. Altri 1200 dipendenti saranno cassaintegrati all’Iveco Powertrain di Torino. A dare il segno del generale arretramento del settore il raddoppio del ricorso alla cassa integrazione anche per i lavoratori di Cassino e Termini Imerese, mentre a Pomigliano lo stop rimarrà di una sola settimana.
Così, davanti all’incedere della recessione, davanti all’attualissimo rischio di masse di lavoratori messi in mobilità, in cassa integrazione o, come nel caso dei precari, direttamente in strada, tanto in America quanto in Europa, si assisterà ora all’attacco alla diligenza. Mascherato dal velo dell’odioso ricatto, che vede sul piatto della bilancia migliaia di famiglie pronte a finire sul lastrico, i primi responsabili del disastro inizieranno ora a richiedere, sempre più insistentemente, misure per mascherare il proprio fallimento. E questo nonostante in tutti questi anni l’industria automobilistica abbia fatto di tutto per evitare il cambiamento tecnologico, avendo cercato di spremere sino all’ultima goccia la tecnologia esistente prima di cambiare verso modelli migliori. Ma i sussidi sono ciò che i governi pagano quando non esiste una regolazione.
E’ una buona scommessa, infatti, dire che i produttori europei continueranno a non perseguire gli obiettivi sulle emissioni, anche nell’eventualità che si decida di dare loro il denaro che richiedono. Se è vero, infatti, che non è giusto che a pagare per le fallimentari politiche industriali debbano essere sempre i lavoratori, è vero anche che l’atto più ecologico che possono fare ora i governi è permettere che questi striscianti divoratori del pianeta affondino nella miseria.
Tratto da Altrtenotizie