Si tratta di una questione del tutto specifica del sistema universitario anglosassone e che in Australia riguarda in particolare gli studenti provenienti dal Punjabi, regione dell’India. Le proteste sono cominciate dopo l’ennesimo omicidio di uno studente che lavorava come tassista, avvenuto nell’aprile 2008 (cfr. su Youtube, “punjabi students in melbourne”)
La condizione degli studenti immigrati in Australia è regolata da un complesso sistema giuridico e burocratico di selezione. In particolare, tale sistema costruisce una gerarchia “del merito” su base geo-economica: per esempio, gli studenti provenienti dall’India sono valutati “studenti di quarto livello”. L’accesso alle università australiane è definito in base a un conto in alcune migliaia di dollari da depositare come quota fissa nelle banche australiane. Gli studenti cinesi, invece, sono studenti di terzo livello e il costo a loro carico è minore di quello stabilito per gli studenti indiani. Il sistema di fatti garantisce l’accesso per gli studenti dei paesi ricchi, mentre risulta più selettivo per gli studenti indiani. Per poter studiare in Australia bisogna inoltre aver superato un test definito dal governo australiano.
Questa condizione fa sì che si crei una circolazione legale di debiti e di prestiti: gli studenti immigrati sono costretti a lavorare, ma secondo la legge non possono superare un limite di venti ore alla settimana. Per poter mantenersi e mandare i soldi a casa, si è dunque obbligati ad accettare anche lavori a nero.
I collegi privati, in cui alloggiano gli studenti immigrati, hanno stretti rapporti con agenzie di lavoro che offrono impieghi. Molti studenti del Punjabi sono tassisti, e per questo i media australiani hanno parlato di proteste dei tassisti, e non di studenti.
Contro questo gigantesco business dell’immigrazione, diffuso nel mondo anglosassone, gli studenti hanno protestato in modo del tutto autonomo, senza mediazioni né rappresentanze sindacali. Il governo, in particolare il ministro dei trasporti, è stato costretto a trattare direttamente con il movimento: prima ha cercato di imporre la linea dura, poi, dato che le proteste non si placavano, ha accettato il dialogo.
Il movimento degli studenti lavoratori immigrati si è dunque politicamente costituito in modo autonomo: suo prossimo obiettivo è far fallire uno dei collegi privati.
La presentazione di questo problema dimostra come ci sia una feconda estensione delle lotte su vari livelli e in varie parti del mondo: la contestazione parte dagli studenti, in quanto è lo studente il primo soggetto in formazione ed essendo la formazione il fenomeno più importante nel mondo del lavoro di oggi. Ma non bisogna leggere l’evento australiano come un fantasma che in futuro potrebbe incombere sull’Italia: oltre alla radicale differenza del sistema universitario e della sua composizione studentesca, in Italia non ci sono le condizioni perché l’università possa essere riformata secondo il modello anglosassone. Per esempio, i privati da noi non hanno alcuna necessità, né hanno mai manifestato interesse, di investire in formazione.
Il caso australiano va piuttosto considerato sul piano politico: lì le proteste riguardano le tre figure che subiscono il quotidiano sfruttamento sociale ed economico – studenti, immigrati, lavoratori – riunite in un solo corpo, quello degli studenti del Punjabi. È questo il problema che toccherà, e che già è molto dibattuto, nel movimento in Italia: come tenere insieme studenti, immigrati e lavoratori? Come costruire una sintesi che sia concreta e reale, e non una semplice sommatoria di diverse istanze più o meno corporative? È questa la domanda cruciale per portare avanti il conflitto sociale, costituendolo dal basso, senza rimandare ad alcuna rappresentanza politica o sindacale, proprio perché si tratta di una composizione plurale e differente, la cui molteplicità è già dentro il movimento degli studenti.
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