Sono i nostri dati sensibili la moneta con cui paghiamo i servizi di Big G

Illusione Google

Ripubblichiamo da Left-Avvenimenti del 12 Settembre 2008.
«Ci sono parecchi motivi per cui diffidare di Google: l'aspirazione al monopolio della ricerca online, i molteplici casi di censura, il controllo esercitato attraverso la profilazione degli utenti e un'altra dozzina di ragioni, tutte analizzate nel saggio Luci e Ombre di Google (Feltrinelli, 2007), scaricabile anche gratuitamente da ippolita.net.»
17 settembre 2008 - Gruppo di ricerca Ippolita

Illusione Google Google ha formato milioni di persone alla navigazione digitale: sono in molti a pensare che Google e la Rete siano più o meno la stessa cosa, o meglio che Google “contenga” tutto il Web. Ne sia testimone il bottone “Mi sento fortunato”, che ci catapulta direttamente alla pagina che stiamo cercando. Incredibile! Google sostiene di poter intercettare ed esaudire perfettamente i nostri desideri di ricerca.

“Mi sento fortunato” è l'esemplificazione della filosofia oracolare googoliana. Questa religione nascente ha un bug concettuale, di fondo.
Semplificando, il sistema "democratico" e "oggettivo" di Google per ordinare il mondo si fonda sul PageRank. Questo algoritmo ordina i risultati in base al numero di link in entrata per ogni sito e in base all'importanza che i siti linkanti a loro volta posseggono. Più un nodo sarà connesso più acquisterà posizioni di testa nella lista dei risultati. Google parla esplicitamente di “voto”, poiché ogni link equivale ad un voto. Un sito fortemente votato (linkato) si troverà in una posizione di vantaggio nel ranking rispetto ad un altro meno conosciuto. Scambiando la popolarità e il filtro tecnologico per democrazia, si può arrivare a definire Google una democrazia elettronica. Infatti, sostengono a Mountain View, “lo spider non si interessa dei contenuti di una pagina ma solo dei link”: sembra proprio che ci troviamo di fronte a una tecnologia in grado di garantire l’oggettività di un risultato. Il ragionamento sotto inteso è che il Pagerank, un algoritmo matematico: in quanto oggetto tecnologico non giudica, non può mentire, è buono per natura. Peccato che in questo meccanismo di assegnazione matematica di un valore si scorga la convinzione di fondo che “più saranno conosciuti più saranno famosi”, un diktat del nostro tempo. Anziché dar voce alla creatività e alla ricerca scientifica, Google legittima il primato della Paris Hilton di turno, la quale non ha ovviamente nessun merito se non quello di essere giustappunto famosa.

Ma entriamo nel merito. Quest’idea del link come espressione di un voto positivo ha una sua precisa origine culturale. Si tratta infatti di una traduzione in senso matematico della citazione scientifica. Il peer-review (revisione dei pari) è un metodo per valutare le pubblicazioni scientifiche: più un articolo scientifico viene accolto in maniera positiva da altri scienziati (che si suppone lavorino in maniera indipendente), più l’articolo stesso viene considerato importante e meritevole. Brin e Page traslano nel proprio campo di ricerca questo approccio e sviluppano la teoria secondo cui il numero di link che conduce a una pagina è un modo per valutare il valore della pagina stessa e in un certo senso la sua qualità. Il criterio dell’autorevolezza del recensore scientifico diventa più banalmente la misurazione della popolarità di un sito. Ma l’espressione della democrazia digitale è ben più complessa! Il metodo che teoricamente offre le garanzie maggiori di oggettività è il cosiddetto “doppio cieco” (double-blind): prima di essere accolto in una rivista scientifica, un articolo viene sottoposto ad almeno due ricercatori di chiara fama, che non devono conoscere il nome dell’autore. Il secondo passaggio riguarda l’estensore dell’articolo che non deve conoscere il nome dei recensori. Insomma nella Repubblica Scientifica il sistema è un pò più complesso, e non può essere applicato a tutte le risorse della rete, perchè queste non hanno un valore univoco. La risorsa “Paris Hilton”, in un sistema di ricerca che si picca di gestire oggettivamente l’interezza delle conoscenze umane in rete, non ha lo stesso valore della risorsa “Rita Levi Montalcini”. Il PageRank di Google si presenta perciò come una sorta di peer-review dei poveri e veicola un'idea di democrazia quantomeno demagogica.

L’algoritmo del Pagerank dunque è utile per rintracciare il senso comune riguardo a un certo argomento. Insomma, funziona per ricerche generaliste su risorse note. Ma quanto la nostra intenzione di ricerca è di tipo esplorativo, ossia quando non sappiamo esattamente cosa cerchiamo, ma siamo in una fase di ricognizione sulle informazioni disponibili, ecco che il sistema di valutazione googoliano perde di senso. Sia perché scomodo da utilizzare, sia perché superficiale. Se dobbiamo per esempio scrivere una tesi è quasi certo che i primi risultati ci interessino poco. Cerchiamo probabilmente una risorsa poco linkata, un articolo specifico, magari scritto in gergo tecnico e classificato da Google tra le ultime pagine. Anzi, una risorsa può essere poco conosciuta ma interessante, se non anche fondamentale, su un piano di ricerca tutto individuale. Improvvisamente l’interfaccia di Google diventa scomoda: impossibile vedere la relazione fra i risultati forniti in una classifica a liste, distinta solo per alto e basso. L’unica cosa che rimane da fare è sfogliare l’universo google a mano, pagina dopo pagina.

Aggiungete a tutto questo che, attraverso le tecniche di profilazione, Google è talmente sicuro di sapere cosa stiamo cercando che ci ripropone sempre gli stessi risultati. Chi sostiene il contrario non ha mai condotto una ricerca per motivi di studio o lavoro o gioco al di là delle rotte più navigate. Profiling più PageRank uguale piccolo stagno di Google: altro che tutto il web! Le ricerche tramite PageRank sono tendenzialmente funzionali, evitano al massimo la possibilità di broken link (link rotti) o di informazioni diverse da quelle precedentemente archiviate. Il problema è che in questo modo gli utenti sono indotti a credere erroneamente che Internet sia un mondo chiuso, connesso, completo, privo di strade poco illuminate o di percorsi preferenziali, poiché sembrerebbe che, data un’interrogazione, si giunga sempre al risultato “giusto”. Tuttavia questo non significa affatto che su internet siano assenti isole di dati. L’integrità referenziale proposta dalla base dati di Google sottintende l’idea di un mondo unico per tutti, chiuso e finito. Al contrario, tracciare un percorso in una rete complessa significa compiere un’esplorazione che determina sempre dei risultati relativi e parziali.
Il sogno di un Google contenitore di tutta Internet è un’idea particolarmente comoda, utile per sostenere tutte le caratteristiche che rendono Google un “servizio unico”, un dispensatore di verità. Questo meccanismo ci illude che la libertà consista nell’ottenere una qualità totale a costo zero, immediata, perché ci sentiamo fortunati. Sappiamo invece che in un sistema reticolare complesso come la Rete digitale non esistono verità assolute, ma solo autorità distribuite a seconda del percorso che si desidera affrontare, o anche solamente in funzione del tempo che si è disposti a investire nella ricerca. La qualità dipende interamente dalla nostra soggettiva percezione dell’accettabilità del risultato.

Google usa le sue potenzialità soprattutto per creare comportamenti standard, profilare e ridurre il bacino a un’ideale risposta “esatta”. D'altra parte, spesso gli utenti si accontentano di ricerche superficiali o peggio usano le proprie capacità tecnologiche per procacciarsi il migliore posizionamento all’interno del modo localizzato da Google. Perciò se chiediamo cambiamento, dobbiamo essere i primi ad agirlo cambiando mentalità, cominciando per esempio a interessarci alle tecniche per garantire anonimato e privacy. Ci sono, si istallano sul browser e non sono di difficile utilizzo. Ne trovate alcune sul nostro sito. Ma non esistono bacchette magiche: quello che deve cambiare davvero è il nostro approccio alla ricerca e alle tecnologie digitali in generale. Per farlo occorre cominciare a informarsi e informare: inseguire l’ultima applicazione favolosa sul mercato, con spirito tecno-entusiasta, peggiora solo la situazione di passività digitale e alimenta la tecno-crazia. Intendiamoci, noi amiamo l’informatica e per questo vi invitiamo a sviluppare un'attitudine “hacker”: metteteci le mani sopra, andate a vedere come funziona, cosa c’è dentro, cosa fa esattamente quella roba li. Fermatevi a valutare.

La moneta della conoscenza siamo noi, sono i nostri percorsi, le nostre esplorazioni, la nostra unica e inimitabile impronta digitale. Google è la pellicola più sensibile mai costruita e tutti i grandi player dell’informatica che investono in social network si sono adeguati a questo standard. Google non è buono, a dieci anni di distanza lo slogan "don't be evil" è più ridicolo che mai. Ma Brin e Page non sembrano turbati. Mentre pranzano seduti al ristorante vegetariano del GooglePlex, dietro la locandina Free Tibet, la loro ultima creatura, il browser Chrome, ci imbastisce con l’ennesima balla su bontà e sicurezza. Un altro capitolo della guerra contro Microsoft per il controllo del web. Ci fideremo, certo. Senza dubbio.
I servizi che usiamo li paghiamo con qualcosa di più prezioso del denaro. Ogni volta che utilizziamo i servizi di ricerca, di posta elettronica, YouTube, Blogspot, Office, news...tutte le centinaia di applicazioni collegate ecco, in ognuno di quei momenti noi stiamo fornendo a Google informazioni su noi stessi. Si chiama profilazione e ufficialmente Google la usa per farci pubblicità mirata. Noi non abbiamo alcun controllo su quei dati, non sappiamo nemmeno come vengano gestiti. Questo non è affatto buono o democratico. Google vigila costantemente su ognuna delle miriadi di richieste fatte in tutto il globo terrestre e ci guadagna parecchio denaro, più di quanto si possa immaginare. Ogni volta che immettiamo una parola nella barra di ricerca, ogni volta che facciamo click o riceviamo un’email da un account Gmail, ogni volta che si muove una foglia sul web, Google guadagna dei soldi.

L’industria dei meta-dati è tutto ciò che non riguarda il dato in se, ma il complesso delle informazioni che vi ruotano attorno (chi, dove, in relazione a cosa, per quale comunità etc..). Questo è il nuovo filone aurifero dell’economia informatica di oggi, qui si giocano gli equilibri di domani. Questo tipo di mercato conta sull’inconsapevolezza dell’utente, sulla leggerezza con la quale espone le sue informazioni personali e quelle di coloro che lo circondano. E' urgente elaborare una visione complessiva, trasversale, critica. Internet non si sta espandendo, Google non ci sta rendendo più intelligenti, ci sono solo un pugno di protagonisti che ricombinano lo spazio in sottoreti comunitarie sempre più omogenee. Foto, video, blog, geolocalizzazione sono solo contenitori entro cui accumulare informazioni sui gusti, le tendenze, le paure degli utenti, i preziosi meta-dati che fluttuando foraggiano una fetta notevole dei mercati finanziari. Non è difficile intuire come, una volta costruite le infrastrutture e gli standard di portabilità, sia possibile eterodirigere i soggetti, creando desiderio indotto, stimolando a fornire sempre più informazioni, fino ad una vera e propria formazione a distanza all’utilizzo di sempre nuove piattaforme. Nulla di nuovo, ma i mezzi con cui la creazione spontanea di senso viene convogliata e messa in produzione sono più sofisticati. Soprattutto, il mondo di Internet non si limita a questo. La rete non è uno spazio-tempo fatto solo per il dio denaro, ci sono un sacco di altre cose. Come nella realtà non virtuale, molte cose non sono affatto buone, mentre altre potrebbero servirvi per difendervi dai sedicenti benefattori, tra cui Google. Sta a voi cercarle. Come si diceva: cambiare mentalità, magari a cominciare dall’uso del buon vecchio software libero. Addirittura, “trovare” potrebbe essere meno interessante dell’atto stesso di “cercare”; anzi, forse è piacevole non trovare affatto, perché se non si riesce a trovare significa che si è presi nel gioco del percorso, appassionatamente impegnati a cercare.

Gruppo di ricerca Ippolita

Il gruppo di ricerca Ippolita è nato nel 2005 a Milano attorno alla stesura del testo copyleft Open Non è free, Comunità digitali tra etica hacker e mercato globale. Eleuthera edizioni.