Prosegue il dibattito sul movimento bolognese

Un'escrache a Bologna

Giovedì 15 giugno 2006, alle ore 21, l’Assemblea di VAG 61 discuterà come il nostro spazio autogestito affronterà collettivamente la situazione del “movimento” a partire dalle questioni politiche e sociali in cui siamo stati coinvolti in questi mesi. Insomma, dopo averci girato intorno per un bel po’ di tempo, abbiamo ritenuto che il tema della “presenza politica” di VAG in città sia venuto a maturazione.
13 giugno 2006 - Valerio Monteventi

Scusate se, per una volta, parto dal fondo.
Intendo usare una figura retorica (quella degli estrache argentini) per dare sembianze riconoscibili, modalità di coinvolgimento e funzionamento alla forma con cui VAG 61 dovrebbe caratterizzare la sua presenza sociale e politica in città. A me sembra un’ottima suggestione.

Escrache è una parola del dialetto lunfardo di Buenos Aires che, in italiano, si potrebbe tradurre come “sputtanamento”. Non è facile trovarla nei dizionari spagnoli, quando ci si riesce, la versione in lingua madre, ha una definizione più edulcorata: evidenziare, portare alla luce, tirare fuori dall'ombra.
Nella realtà, escrache è una “tecnica” di denuncia e di protesta civile ideata negli anni ’90 da HIJOS (acronimo che sta per “Figli per l’identità e la giustizia, contro l’oblio e il silenzio”); è una delle azioni di mobilitazione sociale e politica più innovatrici ed efficaci dell’Argentina contemporanea: un vero e proprio incubo per gli assassini, a tutt’oggi in libertà, del passato regime dittatoriale (1976-1983) che fece sparire nel nulla più di 30 mila persone.
A metà tra la manifestazione di piazza ed il teatro di strada, l'escrache si esplicita con canti, balli, musica, battitura di tegami e casseruole, causando un vera e propria baraonda nei pressi delle abitazioni o dei luoghi di ritrovo e lavoro dei torturatori e degli assassini della dittatura militare argentina che, non solo non sono stati puniti ma spesso hanno fatto carriera.
Un altro contrassegno, che contraddistingue l’estrache da qualsiasi altra manifestazione politica, è il coinvolgimento dei dimostranti: c’è chi prepara i cartelli di segnalazione dell'abitazione del torturatore, chi distribuisce volantini con il suo nome, cognome, numero di appartamento e telefono, chi suona e inizia a caricare l'atmosfera con i primi slogan, altri che riprendono e fotografano.
Tutto questo non è un lavoro che inizia o finisce nell’arco di un giorno, ma è il frutto di mesi di discussione dell'assemblea popolare di barrios. La "mesa d'escrache" comprende una serie di attività durante le quali vengono organizzati seminari e dibattiti nelle scuole e nelle piazze, con l’appoggio delle associazioni del quartiere, proiettando film e mostrando documenti.
Non si punta solo all’effetto mediatico, ma si vuole tessere una trama sociale di costruzione collettiva della memoria e della condanna. In questo modo si arriva alla corresponsabilizzazione degli abitanti del quartiere dove vive il criminale. La gente gli toglie il saluto, i negozianti si rifiutano di servirlo: tanti piccoli segni che facilitano il ricordo, che aiutano a non dimenticare, ad evitare che qualcuno riesca a cancellare un passato affatto chiaro e che, invece, tutti dovrebbero di conoscere.
Infine c’è il sentimento: la commozione che si alterna con l'allegria e la danza. Per gli organizzatori, “anche la festa è un mezzo per resistere a questo presente che si trascina tristemente, un modo per cercare di cambiare”.
Partiti come forma di denuncia di grande effetto mediatico, come originali “atti di ripudio”, gli estrache si sono rapidamente estesi in vari settori della società, oltrepassando l’ambito specifico della lotta per i diritti umani: ne sono stati organizzati davanti agli istituti bancari, alla Corte Federale, alla linea aerea Iberia, ad una chiesa a La Plata e alla Casa Rosada; hanno “scortato” una campagna contro l’Aids con distribuzione gratuita di preservativi nelle universitá e nei quartieri poveri.
Gli Hijos sono giovani, sognano, fanno paura. Oggi, gli estrache sono sempre più colpiti dalla polizia, ma la repressione non riesce a fermare una straordinaria esperienza di uso creativo della strada e, al tempo stesso, un’insolita forma di comunicazione diretta e di controinformazione.

LE DIFFICOLTA’ DEL MOVIMENTO NON DEVONO RAPPRESENTARE LA SUA FINE
Per il movimento sono tempi duri. Non ci sono più i grandi numeri degli anni passati, quando bastava convocare un’iniziativa e arrivavano migliaia di persone.
L’eco delle grandi manifestazioni di piazza iniziate alla fine del ’99 a Seattle e poi proseguite a Bologna, Davos, Praga, Nizza, Napoli, Genova, sembra molto lontana. Per quattro anni non abbiamo perso nessun appuntamento del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, dell'Organizzazione Mondiale per il Commercio, dell’Ocse o di altri vertici. Ci sono state, poi, le grandi manifestazioni contro la guerra: a Firenze, a Roma, nelle capitali europee.
Con i Forum Sociali Mondiali e Continentali si è vinta la “battaglia delle idee”, molte tesi che appartenevano solo al movimento oggi stanno diventando opinioni condivise da molti. Alcune campagne di boicottaggio delle multinazionali hanno effettivamente inciso sui loro fatturati.
Questa onda lunga dei movimenti contro la globalizzazione, se a livello mondiale sembra proseguire, a livello italiano, però, si è trasformata in schiuma.
Una fase si è chiusa, lo “spirito di Genova” sembra ormai scomparso, è venuta meno quella consonanza che permetteva la partecipazione politica spontanea e l’opposizione sociale contro la guerra agli attivisti no-global, a lavoratori investiti dalle trasformazioni del lavoro contemporaneo, a soggetti marcati dalla precarietà della loro collocazione sociale. Si è disperso quello “spazio pubblico” che prefigurava la possibilità di nuove forme di partecipazione politica capaci di esprimere radicalità e conflitto in maniera generalizzata. Sì è esaurito quel circuito virtuoso, e quasi automatico, di “radicalità e unità” che sembrava destinato ad allargarsi man mano a nuovi terreni (dal movimento no-global a quello dei lavoratori, dal movimento contro la guerra alle proteste popolari per la difesa dei territori e dell’ambiente).
I fattori di questa crisi sono diversi, alcuni, “esogeni”, derivano dalla complessità della situazione politica.
Il potere di “veto” del popolo della pace, nel momento più alto della sua mobilitazione (i 110 milioni della “seconda superpotenza” mondiale), se ha condizionato alcuni governi a non entrare in guerra subito, non è riuscito a fermare l’invasione anglo-americana dell’Iraq e i bombardamenti (anche se erano decisioni politiche palesemente ingiuste, illegittime e respinte dalla maggioranza dei cittadini).
Successivamente, il clima è cambiato e il movimento è stato colpito da una sorta di ipnosi: una situazione di stallo derivata dal condizionamento, tutto istituzionale, della Politica. Anche reti e organizzazioni che sono state parte attiva del movimento hanno perseguito un quadro di compatibilità e la ricerca dell’unità con il centro-sinistra per battere Berlusconi. Un’aspirazione senza dubbio giusta, motivata e condivisibile, ma non sufficiente se prescinde dalle forme e dai contenuti di questa battaglia politica.
Sarebbe però fuorviante interpretare la crisi del movimento esclusivamente come conseguenza del riadattamento istituzionale di alcune sue componenti.
Nella realtà si è verificata un’estrema difficoltà a mettere in rapporto i grandi temi delle mobilitazioni generali con l’individuazione di campagne e iniziative a livello territoriale.
Negli ultimi anni il peso maggiore della globalizzazione economica, si tratti di tagli al welfare, all'edilizia popolare, all'istruzione o all'assistenza sanitaria, o di privatizzazioni di beni comuni (acqua, energia, trasporti) è finito sulle regioni e sulle città. In questo contesto si è dimostrata tutta la debolezza e la frammentarietà del movimento che non è riuscito a riversare nei territori la sua capacità di mobilitazione generale, di far muovere le comunità su obiettivi concreti.
Forse è passato il tempo in cui potevamo accontentarci di manifestare fuori dai vertici dei capi di Stato, e organizzare controvertici. Le grandi manifestazioni di protesta non bastano più (e, probabilmente, non è più così facile farle). Non è proporzionato al bisogno attuale puntare principalmente su rivendicazioni e obiettivi a lungo termine (come la Tobin Tax), intorno ai quali radunare grandi masse di persone, o creare eventi in cui la forma simbolica ha molta importanza, raggiungendo così una buona visibilità mediatica.
Certo, la fortuna di un movimento, che è stato molto spontaneo nelle forme della partecipazione, almeno nei termini quantitativi, è derivata anche dalla co-creazione degli eventi da parte degli organi di informazione. Ma quando, per le loro dinamiche di bottega, le aziende della comunicazione non hanno ritenuto più il movimento vettore di “notizia privilegiata”, lo sfondamento dei media si è rilevato una strategia con molti limiti.
E’ evidente, perciò, che la strada per colmare i divari sociali passa attraverso il conflitto sociale e le azioni volte a produrre effetti pratici e immediati sulla vita delle persone. Dobbiamo far vedere ai cittadini un altro modo di essere che spezzi la passività; dobbiamo rivendicare un cambiamento e realizzarlo concretamente.
La paralisi del movimento di cui stiamo parlando è legata in parte all'essere schiacciati dall'ampiezza dei problemi che abbiamo sollevato. Ci siamo limitati a indicare quello contro cui era giusto battersi: ma la maggior parte di noi non si è sentita di avere la possibilità di andare oltre.
In questo momento di congiuntura dire la cosa giusta non basta, dobbiamo fare appello a tutte le nostre forze e riuscire tutti insieme a ottenere dei risultati.
Il movimento in questi anni ha prodotto un rinnovato impulso all'impegno politico, è emersa una nuova generazione di militanti e di attivisti. Oltre alle grandi organizzazioni e alle reti nazionali, la spina dorsale del movimento si è formata sui social forum delle città e dei paesi e sui piccoli gruppi locali di base, nati intorno a esigenze concrete e immediate.
A Bologna, c’è stata la lunga e importante esperienza del BSF, per molto tempo vero “spazio pubblico”, ma anche punto di riferimento per tante istanze politiche e sociali. Oggi però quell’esperienza si può ritenere conclusa.
In questo ultimo anno e mezzo, in città, si sono sviluppate pratiche di intervento concrete, in forme molto variegate sul territorio. Ci sono parecchi giovani che per buoni motivi non credono nella politica dei partiti, ma cominciano a interessarsi alla politica locale con l'idea di trasformare la città in un luogo di resistenza alle politiche liberiste.
Pur con diverse difficoltà, sta emergendo un atteggiamento molto più conflittuale; al tempo stesso, però, il livello di consenso attorno a queste azioni di lotta non è così ampio come qualche anno fa.
Ci sono parecchie “buone pratiche”, ma la mia impressione è che ci sia troppa frammentazione.
Ecco perché un’attività assolutamente necessaria in questa fase sarebbe quella rivolta non tanto alle azioni che le varie soggettività riescono ad esprimere, ma al lavoro di cucitura tra gli spazi intermedi.

Credo sarebbe molto interessante ragionare su quello che Naomi Klein definisce sindacalismo sociale: le migliaia di piccole azioni locali, le lotte per difendere un pezzo di natura o opporsi alla privatizzazione dell'acqua di una regione, le occupazioni di terre dei contadini poveri oppure le cooperative di inventori di campagne che sviluppano tecnologie eco-compatibili a basso costo, gruppi d'acquisto.
“Alla fin fine, - sono sempre parole della Klein - abbiamo bisogno che il nostro sogno di pace entri nella nostra vita quotidiana e la migliori qualitativamente. Lottiamo per un mondo migliore casa per casa. Questa via apre una straordinaria sequenza di modificazioni culturali. Chi agisce localmente si sente coinvolto in prima persona, non si limita a protestare ma sperimenta la possibilità di mettere insieme le risorse, di verificare la propria capacità individuale e farla crescere, vede nella pratica che è vero che la solidarietà e la collaborazione possono fare miracoli e cambiare il mondo”.
Con estrema semplicità ed efficacia Naomi Klein ci ha suggerito il terreno per una ripartenza del movimento e per nuove forme di resistenza alla globalizzazione: “occorre lavorare a un progetto che metta insieme lavoro e reddito, diritti civili e spazio pubblico”.
Questi temi indicano la necessità di uno spazio intraprendente di inchiesta, progettazione e sperimentazione sul piano locale.
Non credo occorra spremersi il cervello per capire se sia meglio lavorare per un movimento di opinione che si occupa dei grandi temi dell’umanità o se ai grandi temi si arriva attraverso reti di gruppi locali che agiscono su questioni specifiche e concrete, prendendosi cura dei problemi delle persone, impegnandosi a ottenere dei risultati e ad aprire nuove opportunità.
E' chiaro che nessuna delle due impostazioni esclude l'altra ma dobbiamo decidere quale è prioritaria.
E io credo che, in questo momento, si debba scegliere l'azione che parte dai territori, dai luoghi di lavoro, dagli spazi di aggregazione, dalle scuole e dalle università.
Il lavoro di territorio, la relazione quotidiana con gli “ultimi”, il radicamento e la comunicazione con i contesti locali, se immessi in uno spazio di confronto aperto, possono ricostruire linguaggi, strumenti e obiettivi per ridare senso e identità ad un'idea di sinistra capace di proporsi come alternativa credibile al modello neo-liberista.
Dar la preferenza al locale (senza cadere nel localismo) significa, quindi, tornare a tessere relazioni sociali, ritrovare lo spazio circoscritto nel quale le persone possono attuare un controllo e non devono delegare, dove è possibile concretamente riconnettere critica e proposta, partecipazione e democrazia, politica e futuro.
La territorializzazione del movimento, lo fa meno visibile, ma dà un nuovo carattere al conflitto sociale, lo rende vertenziale e diffuso, implicitamente dà vita a nuove soggettività per la trasformazione.

Riscoprendo il gusto di “lavorare localmente”, occorre, però, conservare la capacità di attingere nelle reti globali valori, saperi, stimoli e contatti. E' proprio nella dimensione locale che molti movimenti si sono sviluppati parlando al mondo intero. Per fare solo alcuni esempi, parliamo degli indios zapatisti del Chiapas, dei contadini del Karnataca, dei Sem Terra brasiliani.
In questo scenario la dimensione locale, territoriale e municipale acquisisce un grande interesse che va in controtendenza con lo svuotamento di potere reale delle istituzioni nazionali.

PER UN NUOVO SPAZIO PUBBLICO
La presenza a Bologna di uno spazio pubblico dovrebbe essere, per noi, una delle principali questioni da cui partire, pena il venir meno dei riferimenti primari a tutte le nostre analisi sul liberismo e la guerra e sulle conseguenze che ne derivano sul piano dei diritti e della democrazia.
Dovremmo essere, però, altrettanto consapevoli che, oggi, la costruzione di uno spazio pubblico (semmai lo è stata) non può essere vista come processo spontaneo.
Márgara Millán, in un saggio dedicato alle donne zapatiste, scrive: “Lo zapatismo, così come va definendosi attualmente, è interessato a costruire uno spazio pubblico, uno spazio in cui i diversi possano comunicare e parlare tra loro. Uno spazio pubblico che sia lo spazio del politico, negato dalla modernità a causa della professionalizzazione della politica parlamentare, soppiantato dal mercato e monopolizzato dal capitale. Spazio dei e per i soggetti sociali, oggi inesistente e ostacolato dalla razionalità del valore, del profitto e della teoria sulla sicurezza nazionale che protegge l’assetto mondiale dei monopoli”.
Per gli zapatisti, lo “spazio” costruito per ospitare il “confronto pubblico” è considerato come una sorta di “arca di Noè”, a sottolineare l’eterogeneità dei partecipanti, la molteplicità delle identità coinvolte, la polifonia dei linguaggi. Deve essere “sufficientemente minuscolo” per permettere agli uomini e alle donne di guardarsi in faccia, nei loro volti di invisibili, attraverso il passamontagna, e di nominarsi a vicenda chiamandosi per nome. Ma quello spazio, capace di parlare un linguaggio non formale e immediato, si può dilatare su scala planetaria, per la sua capacità di far vibrare corde ormai mute, e di mobilitare appoggio, simpatia, identificazione universali.
Per molti di noi, di sinistra, la questione è ancora trovare ragioni vincenti, mettere ordine nei fatti, mostrare l'evidenza dei torti, o semplicemente verificare le prove.
Contro la globalizzazione capitalistica c'è bisogno di una nuova soggettività capace di ricostruire senso, dignità, solidarietà, ma capace pure di rompere con la vecchia logica della rappresentanza, non avendo lo scopo di esercitare o perseguire il “potere-su”, ma nemmeno l’attrazione verso logiche di contro-potere destinate a riprodurre tragicamente lo Stato all'interno dello stesso processo rivoluzionario (quello che si è verificato alla fine degli anni ’70 qualcosa ci ha insegnato).
Semmai occorre pensare ad un anti-potere diffuso che costruisce se stesso nelle lotte di massa, che porta materialmente con sé nuove domande sociali, che si dispiega in modo diverso, avendo come principio centrale l’orizzontalità e il “fare rete” piuttosto che la verticalità.
Oggi, la priorità deve essere data al tentativo di estendere spazi di opposizione, di reale democrazia, fessure di autodeterminazione collettiva, che non accettano confini, che rifiutano la quotidianità della dominazione capitalista.
Occorrerebbe riflettere su nuove forme di impegno che tendano ad ampliare ed amplificare la resistenza e il conflitto sociale, che si pongano domande su quale sia il modo più efficace per destrutturare le forme del potere costituito riuscendo, via via, a liberare forze nuove ed a renderle direttamente partecipi del loro destino.
Noi dobbiamo lavorare per "fare società", investire energie intellettuali, tempo, disponibilità personale e spendersi per ricostruire le modalità dello stare insieme. Non ci ispiriamo a modelli precostituiti, né abbiamo in tasca il “breviario della lotta di classe”. Ci piace pensare a quest’epoca come quella dell'“eresia”, dove si prefigura e costruisce il futuro attraverso la sperimentazione e la pratica sociale.
Il punto è come costruire forme di “pari dignità” tra le diverse forme della politica, ridefinendo spazi, procedure, rapporti reciproci tra soggettività diverse.
Per questo dobbiamo riproporre uno spazio pubblico (nuovo) in cui le pratiche e le esperienze della politica diffusa, le forme diverse dell’auto-organizzazione sociale si confrontino e si incontrino.
Le differenze sono una risorsa, la frammentazione e l’autosufficienza no.

VALERIO MONTEVENTI