Dibattiti: c'è un futuro per la sinistra italiana?

Fare società con la politica

Come contributo alla discussione in corso pubblichiamo la relazione tenuta da Mario Tronti all'assemblea annuale del Centro per la Riforma dello Stato il 27 giugno 2008. "La cosa che lascerei in dubbio - scrive Tronti - è se fare un grande partito della sinistra o un partito della grande sinistra. Fare società con la politica è direzione orientativa dei processi.



2 luglio 2008 - Mario Tronti

tronti mario

Il senso di questo impegnativo titolo, che tuttavia sembra avere per me una sua immediata chiarezza, si ricaverà dal giro del discorso. Però prima vorrei inquadrarlo nel contesto di una contingenza. Mi è capitato più volte di sostenere che la politica, o meglio la politica moderna, è nient’altro che il possesso strategico della congiuntura. Il fatto che oggi si pensi che si possa fare a meno di questo, è causa non ultima dell’attuale
decadenza della società umana.

E allora vorrei dire subito una cosa. Questo è un momento favorevole. Perché c’è un passaggio di fase. Non di epoca. Non è concesso al nostro tempo di vivere un’epoca. Dobbiamo accontentarci delle fasi.
Del resto, le epoche sono rare, arrivano all’improvviso, spezzano il continuum storico, mettono il mondo fuori dai cardini e da lì tutto ricomincia. Poi vengono i tempi normali, lunghi, interminabili, in cui invece tutto si riassesta, si riordina, si riequilibra. E non succede più niente. Il meglio che ti può
capitare è un ’68. Tutto il resto è peggio. E un 1648, un 1789, un 1917,
cioè i momenti, lì intorno, in cui si tagliano le teste dei re, be’ quelli,
beato chi ha la fortuna di viverli.

Ora, a parte questa parentesi di filosofia della storia, in che senso
cambia la fase? Per capire, credo che dobbiamo mettere a tema le
“convergenze parallele”, tra le due transizioni che hanno occupato l’ultimo
ventennio: la transizione di sistema politico, e la transizione di
organizzazione della sinistra. Il discorso sul ventennio è essenziale e
pensiamo di farlo in un appuntamento ad hoc. Se è vero che la transizione
italiana si è chiusa, o si va chiudendo – ma questo è tema di discussione –
a destra, dobbiamo chiederci se è proprio vero che la transizione della
sinistra italiana si è chiusa,, o si va chiudendo, sul centrosinistra.
O se
non ci sia un’altra opzione 
Questo è il tema di riflessione che si propone
qui.

Un anno fa proponemmo un Laboratorio di cultura politica a sinistra, con
l’intento di tenere il filo di un rapporto tra le varie anime della
sinistra, a livello appunto di lavoro culturale che, non ho mai capito
perché, viene in genere sospeso quando si assume una funzione di governo.
Il mutamento di fase consiglia, secondo me, una correzione d’accento. Il
Laboratorio di cultura politica deve diventare, provvisoriamente, un
Laboratorio di politica.

Del resto, il confine tra politica e cultura politica è un filo sottile,
che appena appena si scorge. E ci vuole arte per attraversarlo di qua e di
là, senza calpestarlo, a seconda dei bisogni del momento. 
Io non ho nulla
contro quella che spregiativamente si chiama politique politicienne.
La vera
politica è sempre solo politica e non tutte le altre cose assai più belle
che gli si vogliono appiccicare addosso.
Il difetto sta non nella forma
della prassi politica ma nella qualità del ceto politico. 
E’ questa
sopratutto e prima di tutto che bisogna restaurare.

Credo che adesso sia il momento di un’iniziativa tutta politica. 
Questo è,
con la necessaria modestia, il senso dell’uscita con le Undici Tesi. 
La
necessità di portare a compimento la “nostra” transizione detta, essa,
l’ordine del giorno ai temi di cultura politica.

C’ è allora un compito immediatamente politico, che personalmente sento
dettato da un’etica della responsabilità, più che da un’etica della
convinzione, che ci impone, nel tempo medio, cioè in un tempo né breve né
lungo, di porci l’obiettivo di chiudere il dopo ’89.

Questa può essere la dodicesima tesi - queste tesi consideriamole in
progress – e integriamo, aggiungiamo, sopprimiamo, in un lavoro collettivo,
da laboratorio appunto.

Chiudere il dopo ’89 vuol dire superare la diaspora che ha diviso la
sinistra a partire da quella data e ricomporla unitariamente, in grande, in
avanti.

Questa è la tesi e vediamo adesso – sinteticamente – quali condizioni sono
intervenute che rendono possibile questo passaggio.

Il passaggio di fase corrisponde a un passaggio di ciclo. Viviamo in una
struttura-mondo e dentro questo ordine delle cose dobbiamo ragionare. Sta
sotto i nostri occhi l’esaurimento del ciclo neoliberista. Che lo sviluppo
capitalistico abbia un andamento ciclico, come ci avevano insegnato i
maestri, da Marx a Schumpeter, ce lo siamo dimenticato. E invece la
soluzione neoliberista è stata assolutizzata, come fosse l’approdo
definitivo della storia del capitale. Non a caso è intervenuto lì
quell’apparato ideologico che è andato sotto il nome di “fine della
storia”, dopo la sconfitta del socialismo.

Il ciclo, che è partito dalla Trilaterale, si è espresso nelle politiche
thatcheriane e reaganiane, ha occupato gli anni Ottanta, ha impiantato una
globalizzazione selvaggia in nome del primato dell’economia, e di una
economia finanziarizzata, volge al termine, o no? Discutiamone. Io vedo i
segni di un ritorno di primato della politica, in nome dei bisogni di
sistema, in presenza di un rallentamento dello sviluppo e di una perdita di
competitività, non di questo o quel paese, ma dell’intero Occidente
rispetto a un resto del mondo, che comincia a sfuggire alla sua egemonia.

La nuova destra riparte da qui.
C’è stato un segnale premonitore, che noi,
sinistra, come al solito, per pigrizia intellettuale, non abbiamo colto.
E’stata l’emergenza neo-con negli Usa. Io l’ho guardata con grande
interesse. Un’emergenza breve nella durata ma durevole nelle conseguenze.
Noi abbiamo visto il Bush della guerra, ma quella guerra, meno dettata da
interessi economici e più preoccupata degli spazi geopolitici, era una
forma di ritorno del primato della politica visto da destra. Questo
dicevano l’enduring freedom, l’esportazione della democrazia, la guerra
permanente, che scimmiottava la rivoluzione permanente, e così portava
pezzi di cultura europea dentro la Casa Bianca. 
Insomma, se la svolta
neoliberista era partita dal Rapporto della Trilateral, la svolta
neoconservatrice parte dal libro di Huntington sullo scontro di civiltà, un
grande libro di cui si è letto spesso solo il titolo, senza cogliere
l’analisi della nuova geopolitica. Di lì è ripartito un episodio di
rivoluzione conservatrice. E la rivoluzione conservatrice ha anch’essa un
andamento ciclico dentro la modernità capitalistica: e segna sempre una
rivendicazione della logica del politico sulla logica dell’economico E non
è reazione, come semplice ritorno al passato, è restaurazione
modernizzatrice, è, secondo una formula molto felice, “modernismo
reazionario”-.

Questa è la destra permanente nel Moderno, prodotto genuino della forma
permanentemente rivoluzionaria del capitalismo. Ma allora non bisogna
ridurla alla momentanea irruzione delle soluzioni totalitarie. Questa rozza
identificazione è, sì, essa, un lascito del Novecento. Come ben sapete,
tutti vogliono uscire dal Novecento. C’è una ressa a chi guadagna prima
l’uscita. Poi accade questa cosa strana: che i più vogliono uscire dalle
cose giuste del Novecento, rimanendo nelle sue cose sbagliate. Sbagliata è
oggi – oggi non ieri – questa riduzione della destra a fascismo.

Nel 1994 Democrazia e diritto, la rivista del Centro per la riforma dello
Stato, pubblicò un fascicolo monografico sulle destre. Lì c’era il saggio
di un ricercatore storico del Crs, Pasquale Serra, un uomo di grande
spessore intellettuale ed umano – e vi assicuro, per lunga esperienza degli
esseri umani, che tenere congiunti in una persona spessore intellettuale e
spessore umano è cosa molto molto rara – un saggio dal titolo “Destra e
fascismo. Impostazione del problema”, in cui si leggono all’inizio queste
parole:<>. Se allora furono parole inascoltate, adesso è il momento di
ascoltarle. E chi ha dissolto la destra come oggetto specifico di
conoscenza? Si rispondeva lì, con questa ipotesi di lavoro:<<è stato il
nesso che la cultura azionista ha istituito tra antifascismo e modernità e
tra fascismo e tradizione>>.

La cultura azionista ha recato seri danni, soprattutto qui in Italia, al
pensiero, e purtroppo non solo al pensiero, del movimento operaio.
Nel
dopo-89 si è conquistata quell’egemonia che la forza del Pci le aveva
giustamente negato.
E’ emerso un apparato ideologico in cui il berlusconismo
ha fatto le veci del fascismo. Del tutto offuscando e nascondendo, come è
proprio delle ideologie, la realtà delle cose.
A una destra per vocazione
premoderna si voleva contrapporre una sinistra per vocazione moderna.
Di
fatto invece abbiamo vissuto una campagna elettorale in cui la prima forma
di bipartitismo quasi perfetto ha visto una destra moderna e una sinistra
postmoderna. 
Il leggìo di Assisi e l’Arcobaleno: due metafore di una sola
sconfitta.

Quella realtà delle cose si potrebbe dire in tanti altri modi: una destra
concreta e una sinistra astratta, una destra pesante e una sinistra
leggera, una destra realista e una sinistra ideologica, una destra dei
bisogni e una sinistra dei diritti, una destra sul territorio e una
sinistra nelle piazze, una destra storica e una sinistra senza storia.
Messa
così, non c’era partita.

So che cosa state pensando: la solita sopravvalutazione dell’avversario. Ma
quando diciamo destra, non ci deve venire in mente Berlusconi, i suoi
affari privati e l’Italietta che lo segue. Dobbiamo fare il punto
sull’attuale fase politica, di crisi/sviluppo, del ciclo capitalistico. E
lì andare a capire il recupero di questo solido consenso a destra.

Mauro Calise ha parlato dell’eclissi del voto razionale, e dell’emergere di
un voto carismatico macropersonale. Aldo Bonomi ci ha richiamato a quegli
elementi prepolitici (stress, spaesamento, insicurezza, rassegnazione) che
spostano i livelli di autorappresentazione dalla coscienza di classe alla
coscienza di luogo. 
E’vero, sono tendenze reali: la destra può permettersi
di solo rappresentarle, la sinistra deve contrastarle, alla radice,
intervenendo sulla condizione sociale di massa. 
Il problema non è di
radicarsi nel territorio, ma di cambiare il territorio.
Una città, una
provincia, una regione, sono la stessa cosa che il paese: non si
amministrano,
si governano.

Fare società con la politica è direzione orientativa dei processi.

E’ un lavoro di ardua progettazione e difficilissima esecuzione.
Presuppone
un ceto amministrativo e un ceto politico di alta qualità.
La rete di
Fondazioni, che si va profilando, riapra il grande capitolo della
formazione politica.
Il ricambio generazionale, va bene. Ad una condizione:
che nei fatti, nel pensiero, nella parola, nella consistenza umana, i figli
si mostrino migliori dei padri.

Lavoro arduo per ragioni più di fondo.
C’è un passaggio nelle Tesi che non
sarà sfuggito ai lettori più attenti.
Diceva: la destra corrisponde di più e
meglio al lato oscuro dell’animo umano. 
Miei cari, è così. 
Il buco
antropologico, che il marxismo ci ha lasciato, non lo riempiremo
raccontandoci la favola borghese-progressista dell’individuo sovrano.
L’homo
oeconomicus descrive ancora benissimo la sostanza di questo individuo
neutro, 
neutro, perché, purtroppo è senza differenza.
La femina oeconomica è
lì, non solo simbolicamente, alla presidenza di Confindustria, ma diffusa
nella società civile, in queste insopportabili donne in carriera, che non
contestano, ma esercitano il potere maschile. 
E l’homo democraticus
descrive benissimo questa figura nostra contemporanea del cittadino-massa,
la moltitudine che partecipa al rito delle primarie, credendo di contare,
ma in realtà essendo solo contata.

Insomma, quella società civile, che la modernità ci aveva realisticamente
presentata come sistema dei bisogni, la postmodernità ce la ripresenta
ideologicamente come non-luogo dei desideri.
E allora, al brusco risveglio,
ecco che riparte il lamento: non conosciamo più questa società.

E il discorso finisce lì. E lì rimarrà, finché non si procederà dicendo:
non conosciamo più la struttura della società perché manca la forma
dell’organizzazione politica: organizzazione del conflitto sociale, della
lotta politica, della battaglia culturale, organizzazione del governo.
Perché quando acquisiremo l’idea che governo non è gestione, ma è
direzione, cioè forma istituzionale di organizzazione del sociale?

Attenzione: su questo punto delicato insistono due diversità: una diversità
di forma tra sinistra e nuova destra e una di sostanza tra sinistra e
centro-sinistra. 
Questa destra risolve, dove può, la decisione in una
verticalizzazione istituzionale. 
Il populismo/leaderismo preferirebbe
convertirlo in un populismo/presidenzialismo. 
Per noi il problema è di
garantire la decisione entro un circuito istituzionale e, direi, 
qui conta
la nostra particolare vocazione, anche dentro un circuito sociale, passando
a 
ridisegnare una mappa di corpi e poteri intermedi, non come concessione
al locale, 
ma come sussunzione di territori e di interessi a livello
centrale.

Credo sia venuto il tempo di lavorare a proporre noi, da sinistra, 
la
grande riforma costituzionale.

Il nostro modello dovremmo farlo girare intorno al perno
di un decisionismo
senza presidenzialismo.
Come assicurare una decisione politica che non abbia
bisogno di una forma istituzionale verticalizzata. Che è lo stesso problema
di ripensare una forma della rappresentanza non personalizzata. Che è poi
lo stesso problema di liberarci dal fascino delle parole nuove e vuote –
governance, governamentalità – e riacciuffare il tema serio e classico del
governo politico dei processi.
Qui c’è il grande tema delle élites, l’unica
cura ancora a nostra disposizione, se riusciamo a ritrovare i luoghi e i
tempi della loro selezione, contro queste malattie della politica che sono
populismo e leaderismo.
Io credo che la grande tradizione giuridica europea,
l’eredità di quel monumento storico che è stato lo jus publicum europaeum,
e non solo, quella filosofia del diritto che va da Roma a Weimar, abbia
ancora molto da dire se la smette di parlare in inglese, cioè se la finisce
di pensare che modello Westminster e Washington consensus siano soluzioni
universali.’

Ecco, dopo il Novecento: riprendo, brevemente, questo tema, a me molto
caro. 
Per una considerazione, a cui riflettevo, proprio in questi giorni.

Il passato che non passa, e come, con quali forme, con quali idee, fare in
modo che passi: 
questo è un nostro tema.
Il problema della tradizione è
problema politico per eccellenza.

Abbiamo imparato dal Novecento che i residuati bellici politico-ideologici
rimangono sul terreno, nascosti, molto più a lungo delle realizzazioni
sociali o istituzionali.
Le forme crollano, a volte rapidamente, e invece,
non tanto le idee, ma qualcosa di più profondo, forse di più inconscio, gli
attaccamenti, le abitudini, i comportamenti, quelli che 
Tocqueville
chiamava i costumi, resistono e sopravvivono.

Si credeva, dopo il ’91, che si stabilizzasse una struttura internazionale
unipolare. 
Questo l’ha creduto il Dipatimento di Stato e l’ha fatto credere
al movimento no-global. 
Nn è andata così. 
Da una struttura bipolare si è
passati, si sta passando, a una struttura multipolare.
Che è il fenomeno più
interessante che sta sotto i nostri occhi.
L’unica luce che attualmente si
accende per il pensiero politico.
Visto che dall’interno dei nostri singoli
paesi siamo praticamente a luci spente.

Il passaggio attraverso il socialismo in soli paesi non è stato recuperato
pacificamente 
dentro una storia eterna del capitalismo-mondo.
Non c’ è stata
semplice integrazione, come poteva apparire nell’immediato dopo ’89.
Il
“secondo mondo” non si è dissolto, si presenta in altro modo. 
Lì non si è
ripartiti dal prima, si è ripartiti dal dopo.
Non si ritorna mai al prima, o
meglio mai al prima della contingenza storica,
mentre si torna al prima
dell’eterno ritorno della storia,
quello che porta in corpo le regolarità
della politica. 
Ed è iniziato quello che è stato chiamato il nuovo “grande
gioco”.

Il passaggio “ideologico” attraverso il socialismo ha ridepositato un
livello diverso, 
a scala allargata , di politiche di potenza.
E attraverso
questo una diversa divisione del mondo, non più bipolare, ma multipolare.

La mia idea è che noi, sinistra, italiana ed europea, dovremmo attrezzarci
per una politica
su due livelli: usando metafore gramsciane, una guerra di
posizione sulla scena del paese 
e del continente, una guerra di movimento
sullo scenario mondiale.

Perché Russia e Cina non sono integrabili in un ordine internazionale a
egemonia unica? 
Primo: perché lì c’è stato un evento rivoluzionario,
scaturito dall’interno delle loro viscere. 
Secondo: perché sono grandi
spazi, e grandi numeri. Mai dimenticare questo.
Terzo: perché portano una
storia di lunga durata, nazionale, statuale, imperiale, 
civiltà
abituate,esse, a una posizione egemonica.

La globalizzazione economico-finanziaria produce politica-mondo, o è da
essa prodotta, 
o, come è probabile ma non sicuro, si producono in reciproco
contemporaneamente? 
Sta di fatto che noi, eredi eretici del marxismo, non
riusciamo a decifrare
il nomos della terra.
Di fronte all’emergere del BRIC –
Brasile, Russia, India, Cina – possiamo solo sapere che
se il tramonto
dell’Occidente ha prodotto nel Novecento grande cultura,
dopo il Novecento
dovrebbe produrre grande politica.

Ma, ecco, che cosa voglio dire, con questo discorso apparentemente
divagante 
su destini che non sono certo nelle nostre mani?
Voglio dire una
cosa semplice, conclusiva.
Non possiamo fare tutto, possiamo fare solo certe
cose.

Marx diceva: sono gli uomini che fanno la storia. 
E noi, dopo che abbiamo
corretto dicendo, sono gli uomini e le donne che fanno la storia, 
dobbiamo
però comunque continuare la frase: ma la fanno in condizioni determinate.
Bisogna riappropiarci di tutta intera questa verità.

Io non credo che esista una verità assoluta, valida per tutti.
Credo che
esistano delle verità assolute valide per alcuni, per molti, anche per uno
solo. 
Verità assolute di parte: che tu devi acquisire e coltivare e
difendere e sviluppare.
Io, dicono che faccia il filosofo. Ebbene, ho sempre
considerata come assoluta, per me, la verità che i filosofi non devono
limitarsi a interpretare il mondo, ma devono interpretarlo 
per cambiarlo.
Come vedete, la professione di relativismo la lascio volentieri ai
girotondi di MicroMega.

Credo che tra i compiti più attuali della sinistra ci siano oggi quelli 
di
ritrovare e ridare alcune certezze, mettere dei punti fermi, 
offrire segni
di orientamento, riprendersi un senso di affidabilità,
basato sulla durata,
sulla consistenza, sulla serietà, sulla profondità.

Va superato questo gap che si è formato
tra una permanenza della pulsione di
destra
e l’effimero di una ragione di sinistra.

Pensate a quanti nomi e simboli abbiamo cambiato in questi vent’anni,
anche
nell’offerta elettorale. 
E potrete registrare il senso di disorientamento
permanente che questo ha provocato.

Io sbaglierò, ma è più di un’impressione quella che ho
e cioè che la
l’esaurirsi del ciclo neoliberista e il riemergere di una destra
identitaria 
va a costringere la sinistra a chiudere questa fase di
innamoramento, subalterno, 
al leggero, al transitorio, al mediatico, al
virtuale, 
e la costringa, se non vuole continuare a perdere, a ridefinirsi,
sì, 
ma soprattutto a ricollocarsi, a ristabilirsi, anzi, a ristabilizzarsi.
La metafora, mitologica, del passaggio da Proteo ad Anteo, questo voleva
dire.

La nuova fase, neoconservatrice e neomodernizzatrice, della destra 
ha
seppellito le due opzioni dominanti nella sinistra del dopo Novecento:
un
dopo Novecento precoce, perché cominciato nei due decenni finali.
Due
opzioni creative, ognuna, di un consistente apparato ideologico.
L’una è il
governo della Terza Via, l’altra è il movimento no global, o new global.

Il blairismo, con il suo intellettuale di riferimento Anthony Giddens, 
e
con sullo sfondo il clintonismo, ricordiamolo, non era 
la classica terza
via tra socialdemocrazia e comunismo.
o tra capitalismo e socialismo, era la
terza via tra sinistra e destra. 
Una scelta che credeva di essere un
intelligente centrismo, 
pensate alla Mitte di Schroeder, finita
coerentemente nella grosse Koalition. 
La competizione era su chi sarebbe
stato capace di gestire meglio il ciclo neoliberista,
visto, ripeto, come
l’approdo definitivo della modernizzazione e della globalizzazione.
Una
scelta subalterna con pretese egemoniche.

Non era di fatto meno subalterna, malgrado i simpatici toni antagonisti,
l’opzione della generosa contestazione movimentista.
Quell’inseguire sulle
piazze gli spostamenti dei summit 
delle organizzazioni economiche e
finanziarie mondiali,
per scomparire subito dopo, presenti spettacolarmente
davanti ai capi
e assenti materialmente davanti ai poteri,
era la simbologia
di un rapporto di forze drammaticamente squilibrato.

C’è una diversità di fondo tra le due opzioni.
Quella governativa ha
prodotto grigi ceti politici amministrativi e gestionali. 
Quella
movimentista ha visto uno splendido materiale umano politicamente sprecato.

La prospettiva di ricostruzione di una Grande Sinistra, ripeto gli
aggettivi, 
moderna, critica, autonoma, autorevole, popolare,
vuole saltare
oltre questi ostacoli.

Si capisce se stessi attraverso la conoscenza dell’avversario che si ha di
fronte.
Io ho una provvisoria definizione dell’attuale destra, che vi invito
a discutere: 
destra democratica illiberale.
Una definizione compatta, che
andrebbe sciolta, per essere utilizzata. 
Quello che non si può fare è
semplicemente rovesciarla, come abbiamo fatto,
presentandoci come sinistra
democratica liberale. 
Non bisogna mai essere solo anti,
bisogna costringere
l’avversario ad essere solo anti. 
Questo decide su chi ha in mano
l’iniziativa. 
E chi ha in mano l’iniziativa, salvo eccezioni, di solito
vince.

Guardate come è vivo e vegeto ancora l’anticomunismo.
Il comunismo, anche
dalla tomba, costringe i capitalisti ad essere anticomunisti.
Perché? Perché
è statto un grande soggetto del Novecento.

La sinistra deve tornare ad essere una forza con cui bisogna fare i conti.

E certo il tema della libertà deve declinarlo in proprio.
Non prenderlo dal
bagaglio liberale e nemmeno da quello democratico.
Ma riscoprirlo dalla
tradizione socialista e comunista 
e dalla quella cristiana, tutte
tradizioni non borghesi della libertà umana.

Ma qui freno, per non andare a sbattere.

So che in questo discorso mancano molte cose,
alcune mancanze volute, altre
dimenticate. 
Io non sono in grado di declinare una sinistra, come si dice,
plurale. 
Mi mancano delle competenze, delle conoscenze, delle sensibilità.
Invito altri però a farlo.

C’è ad esempio il tema delle nuove culture. 
Ma mi diceva ieri Fulvia
Bandoli: non è che poi queste culture siano nuove, 
il femminismo,
l’ambientalismo, il pacifismo, hanno ormai qualche decennio di vita.
Allora
non chiamiamole culture nuove, chiamiamole culture altre,
rispetto alla
tradizione del movimento operaio.

C’è un bell’intervento di Peppe Allegri, nella discussione sulle tesi
che
guarda queste cose da un altro punto di vista, che è quello della
generazione degli 
anni Settanta, quella generazione che ha scartato
violentemente dalla nostra storia
e non l’abbiamo più recuperata. E’ quella
cultura metropolitana, così vicina al 
sentire dei giovani d’oggi e così
lontana dalle nostre abitudini e dalle nostre frequentazioni.
Guai a farsi
scappare lì la parola Partito.
E dunque bisogna spiegarsi, perché contro
quella parola c’è adesso una santa alleanza
di tutte le potenze, nuoviste e
reazionarie, dell’antipolitica.

Anche le culture altre devono però ricollocarsi nella nuova fase. 
E
prendere l’iniziativa di mettere i piedi nella congiuntura.

E’ una raccomandazione che farei in particolare al femminismo della
differenza, 
che tra quelle culture è quella che sento più vicino,
per quanto
mi ha dato di spunti, di idee, di scoperte. 
Mi pare di scorgere una
similitudine tra la sua situazione e la situazione attuale della sinistra.
Anche se la rivoluzione femminile eccede il problema della sinistra.
Ma,
ecco, vedo un analoga crisi di consenso. 
Un isolamento e
un’autoreferenzialità, che non arriva quasi per nulla al sociale
e prende
spesso il politico per il lato sbagliato, rivendicando un criterio di
quantità, 
invece che fare perno su uno specifico di qualità, che sarebbe
invece reso possibile
dalla ricchezza culturale dell’elaborazione.
E cioè una
potenzialità non espressa e quasi repressa.
E il motivo mi pare stia nella
stessa difficoltà della sinistra a tenere tra le dita
il filo fra tradizione
e innovazione.

Il passo indietro per saltare in avanti non è stato molto apprezzato.
E’
scattata la sindrome progressista, che è stata la matrice comune
della
sinistra, di quella rivoluzionaria e di quella riformista. 
La fiducia nelle
magnifiche sorti della storia mi ha sempre fatto pensare
a quella vignetta
con l’ubriaco romanaccio attaccato al lampione che diceva:
se er monno gira,
casa mia deve passa’ qua davanti.

Ho trovato citata una frase di Enzo Paci, un moderno fenomenologo,
scritta
per il terzo Catalogo della casa editrice Il Saggiatore, 
una frase di eco
benjaminiana.

“La vera novità è un passo verso il passato e la vera comprensione del
passato è un passo verso l’avvenire”.

Vi ricordate quando Vittorio Foa teorizzò la mossa del cavallo.
L’abbiamo
fatta. Non mi pare che abbia funzionato.
Forse dobbiamo rifare la mossa
della torre: riprendere la strada diritta e lunga.

La cosa che lascerei in dubbio è se fare un grande partito della sinistra o
un partito della grande sinistra.

www.centroriformastato.it

Per approfondire il pensiero attuale di Mario Tronti consigliamo di leggere:

"Undici Tesi dopo lo Tsunami"

all'indirizzo
http://www.centroriformastato.it/crs/rubriche/11/tsunami