Veniamo da vite vissute differentemente, ma convergiamo oggi nell'azione dentro e verso gli istituti della democrazia diretta che operano nella prassi sociale. Guardiamo ai conflitti sociali cioè con l'occhio all'emergere di proprietà comuni che, nella misura in cui vengono interiorizzate, portano alla formazione dell'individuo dotato di una coscienza sociale. Così, ad esempio, i centri sociali non sono che una delle manifestazioni della potenza collettiva trasformatrice che vive ed agisce da tempo nel nostro paese. Essi, infatti, sono esempi di "comunità elettive", la forma finalmente scoperta nella quale ha luogo l'esodo, questo processo di sottrazione al mercato mondiale e al dominio ideologico del calcolo economico.
1 Le tesi congressuali appaiono ad una prima lettura - ma, per verità, perfino ad una terza - vertere sulla crisi nella sinistra piuttosto che su quella della sinistra. L'antefatto che fonda la discussione è chiaramente la disfatta elettorale o meglio la rottura tra le due anime sinistre: la moderata blairiana raccolta nel Pd e la radicale costretta nell'illusione dell'Arcobaleno.
Il dibattito risulta così attraversato dalla prospettiva di una rivalsa elettorale che consenta di rientrare nei luoghi perduti della rappresentanza. L'impressione che se ne ricava è di un affare tutto interno al ceto politico, la rivendicazione di un posto nel mercato della rappresentanza offrendosi come estrema sinistra, prolungamento della legalità istituzionale nel mondo dei conflitti e della sovversione sociale.
Le differenze vertono sul come conseguire l'obiettivo, cioè sui tempi ed i modi di una nuova alleanza con il Pd e il sindacato.
Anche a ricercarlo con pazienza, non si trova un solo cenno a quell'andare tra la gente, al processo di radicamento nell'autonomia delle soggettività collettive che è, oggi come ieri, la strada maestra per chi pretenda d'ereditare la tradizione rivoluzionaria del movimento operaio. Si intravede, invece, un dibattito incastonato più sullo scontro di potere che sulla linea politica, segnato da pratiche della peggiore tradizione democristiana, con i tesseramenti gonfiati e le accuse velenose.
Del resto, questo rattrappimento della discussione attorno alla sconfitta elettorale è in continuità con un processo di degenerazione che, da Genova in poi, ha segnato Rifondazione: quel privilegiare l'attività di rappresentanza ha finito col conferire al partito una fragile natura istituzionale, impotente e rituale, con qualche caduta nell'antico trasformismo, inseguendo quel parlamentarismo filo-governativo che perseguita la vita morale e civile fin dal nascere della nazione.
Mentre l'attuale carattere extraparlamentare, per quanto sia un limite, può invece essere un'opportunità di rivitalizzazione sociale e di alleggerimento dalle scorie insite nella partecipazione alle forme incancrenite della rappresentanza politica, partecipazione che se non va demonizzata neanche va assolutizzata e mitizzata.
2 In breve, siamo preoccupati di ciò che le mozioni esprimono ma ancor più di quello che neppure nominano.
Per esempio: l'analisi economico-politica lascia intravedere quel paradigma latente, vera e propria illusione cognitiva della società industriale, che affida alla crescita della produzione mercantile la possibilità di una distribuzione della ricchezza più equa e razionale. Viene riproposto il pregiudizio popolare moderno che rimanda al futuro la soluzione dei mali presenti, e misura il grado di civiltà di un paese dalla grandezza del Pil.
La pratica del conflitto agisce qui come leva per ridistribuire la ricchezza, senza che alcun giudizio venga portato sulla natura di questa ricchezza e sull'astrazione che la fonda.
L'altra ricchezza, quella vera perché sentimentalmente esperibile, quella riprodotta ogni giorno dalle relazioni amicali, dal piacere dei sensi, dal godimento dell'intelletto, dal farsi anima della sofferenza condivisa, dal "genius loci ", dalle pratiche comunitarie, in breve la ricchezza dei valori d'uso non merita neanche d'essere ricordata. Mentre una delle principali ragioni della crisi della sinistra è proprio il dileguarsi, presso soggettività collettive che sono minoranze senza per questo essere minoritarie, di quella illusione cognitiva che punta sulla crescita, che attende dal futuro la redenzione da ogni male.
3 Lo stesso potremmo dire per quanto attiene l'irresistibile attrazione che l'assetto costituzionale del paese esercita su tutte le mozioni. Su questo terreno si avverte addirittura una accettazione riottosa del federalismo e la preferenza per un rafforzamento del centralismo statalista e della contrattazione centralizzata, nella convinzione d'imporre il bene con la legge. Qui davvero le mozioni mostrano d'aver perduto il contatto con il sentire comune, di non avere neppure registrato il significato del successo della Lega nel settentrione, né quello dei movimenti locali sui beni comuni.
Va da sé che questa adesione alla legalità costituzionale impedisce ogni analisi critica dello "stato-nazione", del suo strutturarsi nella forma della rappresentanza parlamentare non come configurazione della democrazia moderna ma come forma, la più adeguata, al dominio economico dell'astrazione monetaria.
Scorrendo le mozioni, ci si sente irreparabilmente lontani dalla critica consiliare allo stato moderno, dalla prospettiva di un suo scioglimento e recupero dentro le relazioni sociali generiche, dalla prassi processuale d'estinzione della macchina dello stato. Su questo tema le mozioni non hanno solo dimenticato il Lenin di "Stato e Rivoluzione" ma non serbano memoria neanche della versione addomesticata approntata dalla tradizione del Pci.
4 Un disagio ancora maggiore avvertiamo nei punti nei quali si affrontano i temi del terrorismo e della guerra permanente, per concludere nel solito peana sulla non-violenza. Intanto c'è del farisaico nel porre sullo stesso piano la rivolta armata dei musulmani e la prassi imperiale dell'Occidente, chi si ribella al dominio e chi lo esercita, quasi i fondamentalisti islamici mirassero ad occupare la California, mentre tutti sanno che sono gli Usa a dominare militarmente ed economicamente il Medio Oriente.
Quel che vogliamo sottolineare è che non è il terrorismo a costringere gli Usa alla guerra ma l'inverso: è il tentativo degli americani di controllare militarmente il mercato mondiale a scatenare la ribellione anche armata dei musulmani. E questa ribellione è un gesto umanamente comprensibile perché difende forme di vita sociale minacciate dalla violenza imperiale, anche se i metodi secondo i quali si svolge possono essere deprecabili e orribili.
Lo stesso alone d'ipocrisia finisce col riversarsi sui passi dove si afferma il valore assoluto della non-violenza. Anche qui il senso comune, oltreché la storia del pensiero politico, ci dice che c'è violenza e violenza: che l'uso della forza fisica per difendere una conquista sociale non è la stessa cosa di un agguato terroristico, che la pietra scagliata dal giovane palestinese ha quella aura vitale che certo non possiede la pallottola del gendarme che lo uccide, che la donna napoletana che mette a rischio il proprio corpo per impedire che i rifiuti vengano versati nella discarica sotto casa usa una violenza ben diversa da quella che subisce il suo parente in regime di 41-bis.
5 Aggiungiamo un ultimo esempio di ciò che nelle mozioni compare e meglio sarebbe stato se non fosse comparso. Nelle frasi sparse sul Meridione riaffiora questo fanatismo della legalità che finisce con l'imputare alla malavita organizzata la responsabilità principale del disagio meridionale, riconoscendo al tema dell'ordine pubblico e della repressione giudiziaria un posto centrale nella discussione e nell'azione politica.
Anche qui gli occhiali della legalità deformano il reale. Nel Sud infatti, ma sempre più anche in larga parte del centro Italia, vi sono due forme di malavita dotate di forti relazioni sociali. Quella propriamente criminale che usa legami e sentimenti premoderni per emergere come borghesia - e le leggi contro il riciclaggio la ricacciano ogni volta nello stadio dell'accumulazione originaria. E quella legale, formata trasversalmente da buona parte del ceto politico. Quest'ultima punta anch'essa a divenire borghesia; per far questo non uccide perché non ne ha bisogno, ha dalla sua la legge e quelli incaricati di imporla.
Coloro che vi appartengono hanno interiorizzato tutti i metodi delle società segrete, e come i mafiosi procedono per accordi di lobby . Per loro l'accumulazione originaria è assicurata dal controllo delle ingenti somme che Bruxelles stanzia per le regioni indigenti d'Europa, e verrebbe immediatamente meno se il Meridione uscisse da questa condizione.
Questo ceto politico ha acquisito nel tempo un crescente potere di condizionamento e di controllo dell'organizzazione economica e sociale, che gli permette oggi di disporre a suo piacimento dei fondi statali; controllare, con la nomina dei dirigenti e i piani sanitari, il settore della sanità; condizionare l'edilizia con piani regolatori e territoriali; gestire i servizi; provvedere alle opere pubbliche, e così via. La sua specificità è che si autofinanzia, nel senso che coloro stessi che sono preposti alla distribuzione delle risorse finanziarie le indirizzano verso imprese e consorzi posseduti, direttamente o indirettamente, da loro stessi e quindi non hanno bisogno di competere sul mercato. Si realizza così una gigantesca opera di corruzione della vita civile, che coinvolge centinaia di migliaia di cittadini ai quali è assicurato una sorta di salario sociale.
E' questa la malavita di gran lunga più distruttiva di autonomia e relazione sociale tra quelle del Sud, tanto più vile perché rischia poco o niente, tanto più ignobile perché si cela nella retorica della legalità. Di questa malavita si parla poco o male nelle mozioni di Rifondazione; ed il pensiero corre a quegli episodi, certo circoscritti ma pur sempre avvenuti, dove è sembrato che questa seconda malavita abbia sfiorato alcuni esponenti meridionali di Rifondazione.
Il problema della futura sinistra nelle istituzioni o fuori è tutto qui: la sua efficacia dipende dalla capacità di costruire, pazientemente, una democrazia contro lo Stato.
6 Vediamo ora quelle due o tre cose che occorrerebbe aggiungere, cercando di individuare quei concetti della politica come autogoverno che sono incresciosamente assenti mentre appaiono presenti tanto nelle insorgenze dei luoghi quanto nella filosofia dei centri sociali e più in generale delle comunità elettive.
6.1 Innanzi tutto, pensiamo al tema dell'abitare che emerge, nello svolgersi del conflitto sociale, come autonomo, non subordinato a quello della crescita economica e dell'offerta di lavoro salariato. Infatti, dispiegato nella sua totalità, comporta assumere collettivamente la rifondazione delle città, o meglio ricondurle a ciò che le ha generate, alla loro origine.
Su questo terreno, la lotta delle minoranze agenti, a Roma come in Campania, ha già indicato il cammino da seguire. L'occupazione degli immobili sfitti, pubblici o privati che siano, da una parte; e dall'altra, l'autorganizzazione della raccolta differenziata, vero e proprio gesto d'assunzione di responsabilità collettiva a fronte del degrado urbano.
Queste ci appaiono, nella loro accidentalità, le tendenze reali ubbidendo alle quali si può vincere, riavviando il processo di riappropriazione delle città.
Si badi: la qualità emancipatrice di queste tendenze risiede in ultima analisi nell'essere, nel caso di Roma, una redistribuzione immediata della enorme ricchezza abitativa che già c'è, senza attendere la produzione mercantile di nuove case e nuovi scempi edilizi; e nel caso della Campania, la critica alle abitudini comuni volte a rivendicare un consumo sempre maggiore per poter produrre sempre di più e accrescere la massa del capitale finanziario, della ricchezza astratta e disumana, la sola autentica minaccia alle forme di vita della nostra epoca.
Così, ad esempio, se nel Congresso prendesse corpo la parola d'ordine: «Abitiamo le case vuote, occupiamo in tutta Italia gli immobili sfitti», l'immagine di Rifondazione trarrebbe qualche beneficio agli occhi di centinaia di migliaia di cittadini, immigrati, pensionati, studenti fuori sede, sfrattati, single o giovani coppie. Una campagna nazionale di risarcimento sociale contro gli avvoltoi della speculazione edilizia, aiuterebbe molto a materializzare la propria alterità politica e utilità sociale.
6.2 Ancora: la questione della disoccupazione e della precarietà andrebbe affrontata scindendola dalla crescita economica, come una occasione per accrescere la solidarietà e la potenza sociale, piuttosto che come un male da minimizzare con misure burocratico-legali.
Disoccupazione e precarietà sono le precondizioni per il reddito garantito di cittadinanza: un vitalizio minimo, erogato a livello municipale, per tutto il tempo nel quale il cittadino, giovane o vecchio che sia, non dispone di risorse in grado d'assicurare il diritto a vivere.
Anche qui, se Rifondazione aprisse una campagna sul «reddito di cittadinanza per tutti», attivando le realtà territoriali ad aprire vertenze locali in grado di parlare al cuore e alla mente dei giovani delle periferie, dei lavoratori dei cantieri edili, di quelli della cooperazione sociale e della formazione, così come degli studenti, probabilmente farebbe un altro passo fuori dal guado.
6.3 Quanto poi alla legalità, il concetto andrebbe declinato dal punto di vista delle comunità elettive in lotta piuttosto che da quello giuridico-istituzionale, nel senso che la legalità va trasformata e non ribadita istericamente. Anziché inasprire le leggi, costruire nuove carceri, reclutare altri gendarmi, bisogna andare nella direzione opposta: riconoscere la cause strutturali delle devianze collettive ed intervenire alleggerendo il quadro normativo, soprattutto in quegli aspetti punitivi che fanno ostacolo ad ogni serio tentativo di recupero.
Per dirla altrimenti, sarebbe bene riprendere l'antica parola d'ordine del movimento operaio volta ad addolcire la violenza dello scontro sociale: disarmare la polizia quando opera in servizio d'ordine pubblico durante le manifestazioni. Considerazioni analoghe dovrebbero farsi a proposito dei Centri di detenzione amministrativa per gli extracomunitari e ancor più per il regime carcerario speciale, il famigerato 41 bis , per il quale la Corte di Giustizia dell'Aja ha condannato l'Italia per ben tredici volte, ritenendo quel regime una tortura incompatibile con il senso di giustizia della civiltà europea.
6.4 Infine il tema del deperimento dello stato-nazione. Qui il tavolo dell'impacciato federalismo regionalistico andrebbe rovesciato nella prospettiva consiliare che dice: tutto il potere alle città, tutta la potenza ai cittadini. Davanti ai successi del federalismo sub-nazionale della Lega che tende a sostituire la nazione con la regione, noi pensiamo invece che vadano sciolte regioni e provincie per far spazio alle libere associazione tra libere città.
Si apre qui un campo di riflessione e azione immenso che ha il pregio di riordinare le priorità, riportando la politica dentro le vicende sociali e umane. Il senso è quello di riconsegnare alle comunità locali la gestione della "res publica" sfidando la rappresentanza sul terreno del suo fallimento, misurandoci cioè col tema della ricostruzione del potere decisionale perso dai cittadini e dell'individuazione dei luoghi della sua formazione.
Non si tratta più di immaginare la città che vorremmo ma di farla, restituendo al conflitto il carattere costituente di nuove relazioni sociali e rifuggendo da un "opposizione senza critica allo stato di cose presenti". Per questo è necessario che i luoghi assumano la centralità che fu della fabbrica, del partito e del sindacato, riconoscendo all'autogoverno dei cittadini il potere di forza istituente d'una nuova idea di pubblico e quindi di contratto sociale.
Le pratiche di mutualismo comunitario, come le tante battaglie sui beni comuni ci dicono che esiste uno spazio enorme per un'attività politica in grado di coniugare radicalità e autogoverno, identità dei luoghi e funzione pubblica dei movimenti.
Il terreno del diritto all'abitare in questo è paradigmatico: ci sono aspetti dell'abitare che sono direttamente connessi alla gestione della vita urbana ben oltre la questione della casa. In prima luogo la definizione degli affitti e delle utenze, seguita da quella delle tariffe dei servizi urbani (raccolta rifiuti, mobilità, ecc.) e dal livello crescente dei prezzi per vivere. Ognuna di queste cose è vissuta come ambito a se stante, campo per le pratiche più disparate ma tutte senza reale potere contrattuale. Diverso sarebbe se si cimentassero con un nuovo livello di contrattazione - in aggiunta o in sostituzione di quello nazionale in via di dismissione - in grado di condensarne le potenzialità in forza sociale, misurando il processo di crescita della democrazia locale sulla capacità delle insorgenze e delle rivolte urbane di conquistare spazi per un uso sociale di affitti, prezzi e tariffe.
Sembra a noi insomma che la prospettiva della sinistra si stia dileguando in Europa proprio perché si è trasformata in senso comune.
Un nuovo scenario potrà delinearsi solo ritornando all'origine, laddove la sinistra è nata, nella mentalità giacobina della grande rivoluzione francese. Ritornare all'origine per prenderne subito le distanze perché noi condividiamo la critica pratica al giacobinismo avanzata da Babeuf e Buonarroti. Questa critica è continuata nella Comune di Parigi, per poi riapparire nei movimenti consiliari del primo dopoguerra; è di nuovo riaffiorata nel lungo '68 italiano, per mostrarsi da ultimo nei movimenti contro la globalizzazione e nelle insorgenze urbane delle città meridionali.
E questo filo rosso testimonia di per sé che riandare all'origine non vuol dire tornare indietro.
Andrea Alzetta
Mario Alcaro
Francesco Caruso
Nunzio D'Erme
Elisabetta Della Corte
Fabrizio Nizi
Franco Piperno
Pietro Sebastianelli