"Lunchtime" al Tinello del Vag venerdì 14 marzo ‘08

Veniamo dalla gavetta torniamo alla gavetta

Serata ispirata alla famosa immagine del fotografo americano Lewis Hine sulla pausa pranzo di un gruppo di operai seduti sulla trave di un grattacielo. Si parlerà di cibo e alimentazione collettiva, partendo dai tempi della schiscetta, passando per la gavetta, il baracchin, la gamella e i moderni contenitori come come l’americano “lunchbox” o il giapponese “bentobako”.

11 marzo 2008

lunchtime, operai appesi-seduti

Venerdì 14 marzo 2008, dalle ore 20 a Vag61, in via Paolo Fabbri 110 a Bologna.

“Veniamo dalla gavetta torniamo alla gavetta”

> alle ore 20

CENA FRUGALE
Menu della “schiscetta”
Maccheroni al sugo
Panino con la frittata

> alle ore 21,30
torna il Tinello del Vag con

LUNCHTIME

La piccola compagnia del Tinello ruota attorno alle due indiscusse protagoniste:
- la padrona di casa, Sonia Serotti single per scelta (degl’altri), interpretata da Cristina Bignardi;
- la “Patata con le ali”, direttamente dalle riffe e dalle tombole delle case del popolo della Romagna, l’anchorwoman de noantri, al secolo Erika Cavina;
- affiancate come sempre dalla nonnina del mixer, dalla zietta factotum, dalla nipote in trasferta e dallo zio Fester.
Per questa serata riceveranno la visita di Rosa Marinaro, per 33 anni cassiera al Buffet della Stazione di Bologna, accompagnata da Serafino D’Onofrio (quando i socialisti magnavano lui digiunava e si costruiva una robusta cultura in storia dell’alimentazione).

operaie antiche lunchtime

La pausa pranzo, se si ha poco tempo e se si lavora nelle città moderne, il mangiare diventa un problema.
Fra gli oltre 22 milioni di lavoratori italiani, il 50,4 per cento riesce a recarsi a casa per mangiare. Ma questo dato è in forte in diminuzione a causa della distanza del luogo di lavoro dall’abitazione e dei ritmi della società attuale.
Del rimanente 49,6 per cento di occupati, il 18,7 per cento mangia nella ristorazione collettiva, cioè nelle mense aziendali, mentre il 68,1 per cento si rivolge a bar, pizzerie, trattorie, fast-food, cioè alla ristorazione commerciale, molto favorita negli ultimi anni dalla diffusione dei buoni pasto.
Ci sono due aspetti coi quali, però, i lavoratori devono fare i conti. Il primo è la qualità: quante volte infatti ci si trova davanti a paste scotte, pesanti, panini farciti chissà quanto tempo prima con improbabili prosciutti plasticosi o, ancora, a insalate dai colori poco rassicuranti? Tante… troppe.
Poi c’è il fattore economico: i salari sono sempre più bassi e non reggono l’inflazione reale, le spese aumentano in ogni comparto e la crisi morde anche nel settore alimentare.

E così fra chi lavora e mangia fuori torna l’uso della vecchia “schiscetta”, cioè, come si dice in milanese, il cibo nel contenitore portato direttamente dal proprio frigorifero al posto di lavoro per risparmiare. O, se si preferisce, il “take-away da casa” come lo chiamano gli studiosi dei consumi. Solo che la schiscetta oggi non la portano solo i manovali, i muratori o gli operai, come nel periodo che va dalla ricostruzione del secondo dopoguerra agli anni Settanta, ma anche tantissimi altri. La schiscetta, quindi, oggi non è più riservata solo a quella classe di moderni servi della gleba, privati dalla tirchieria del loro datore di lavoro dei tanto agognati buoni pasto, ma può anche essere una sorta di “scelta di vita”, vista la pessima qualità del cibo preparato da bar e mense aziendali delle città.
In passato, i lavoratori riempivano la gavetta con il cibo cucinato la sera precedente. Nelle aziende, soprattutto piccole e medie (ma anche in quelle grandi), veniva spesso allestita una sorta di cucina: in un angolo con una specie di bacinella metallica o un pentolone riempito d’acqua fino a metà e con a fianco una bombola di gas e un fornello. Prima della pausa per il pranzo, gli operai infilavano le schiscette dentro il contenitore e accendevano il fuoco per scaldare le vivande a bagno-maria.
Le donne oggi portano in ufficio prodotti più dietetici, come le insalate miste e la frutta, oltre all’acqua minerale, ma non difficile trovare negli uffici di un ente pubblico un forno a micro onde dove vengono scaldate minestre e pietanze. Gli uomini, invece, preferiscono panini, salumi, pizze e focacce, spesso con birra o bevande gassate.
Cambiano le abitudini degli impiegati. Alle 13 si assiste, dal lunedì al venerdì, a una vera e propria rivoluzione dei costumi. Gli impiegati oggi si comportano come gli operai d’un tempo.
A causa del carovita viene sconvolto anche il rito della pausa pranzo.
Dopo i rincari degli ultimi anni spesso i buoni pasto non bastano più. Così molti impiegati li spendono per fare la spesa e poi si portano il pranzo al lavoro. È un comportamento ancora più diffuso tra chi non ha neppure il ticket: in diversi vanno nei mini market o dai pakistani, comperano il necessario e vanno a mangiare in ufficio, in un giardino o sulla panchina di una piazzetta; altri si portano il cibo da casa.
E dopo il 15 del mese, quando anche i più hanno finito i buoni pasto, il calo degli affari di bar, tavole calde, self-service, trattorie e fast food supera il 20 per cento.

Ma non c’è solo questo… c’è anche chi ritiene che portarsi il cibo da casa sia una strategia salva-linea e una soluzione per alimentarsi in modo più sano. Ormai s’è diffusa la consapevolezza che è importante adottare comportamenti salutisti. I cibi casalinghi stanno vivendo, quindi, una seconda giovinezza. È un ritorno al passato contrassegnato da una novità: un tempo chi si presentava al lavoro con il cestino del pranzo rischiava di essere emarginato. Nell’epoca del caroeuro, invece, la schiscetta scopre un’inedita legittimazione sociale.
Oggi in uffici e università si vedono sempre più persone con il mitico contenitore. È un comportamento ormai diffuso e pienamente sdoganato. Anche la pubblicità cavalca questo comportamento: infatti è diventato anche il leitmotiv della promozione di una nota marca d’insalate.
C’era una volta la “schiscetta”, come la chiamano a Milano, o il “barachin”, come lo chiamavano nelle boite piemontesi, in tutti casi si trattava di un triste “pranzo al sacco” con i maccheroni freddi o il panino alla frittata destinati al mangiare fuori casa del manovale o dell’operaio. Oppure c’era la “gamella”, sostantivo di origine etimologica francese, con cui si descriveva la scodella di legno o di latta dove i soldati e i marinai mangiavano il rancio. Ma c’è chi sostiene che la gamella deriva dal latino camella (tazza, coppa, vaso per bere) e che la sua radice la si può ritrovare anche nello spagnolo gamella. Col nome “gavetta” si ritorna invece ai tempi operai del lavoro in fabbrica o alle giornate dei manovali e dei muratori nei cantieri (la gavetta era pentola e piatto insieme, era chiusa da un coperchio e da un fermaglio che spesso è una barretta lunga quanto il diametro che aperta serviva da manico e che si richiudeva sopra il coperchio, fermata da un gancio.).
Tempi ormai passati…

Oggi ci sono contenitori per tutti i gusti, disponibili su siti specializzati (come www.lunchboxes.com). Ed ecco allora migliaia di impiegati, che magari non possono più disporre dei ticket restaurant (o li usano per fare la spesa), riempire al mattino il “lunchbox”, all’americana, o il “bentobako”, alla giapponese, per poi consumarlo durante la pausa pranzo in ufficio.
E in rete si trovano migliaia di ricette per pranzetti veloci…
Inoltre, per chi vuole approfondire il tema, è uscito in libreria “Lunch Box. 100 ricette per la pausa pranzo”.

Per quanto riguarda la tristezza… il sondaggio che faremo nella puntata di questa settimana del “Tinello del VAG” porrà due quesiti, per una sola risposta:
1) E’ più triste, per il pranzo di mezza giornata, una bella insalata con spinaci freschi, cavolo cappuccio, rucola, radicchio, alghe hijiki marinate con tamari e aceto di mele non pastorizzato, germogli di grano saraceno, semi di canapa ammollati o fatti germogliare e noci?…
2) oppure è più triste la pozione di maccheroni al ragù da scaldare a bagno-maria e il panino con la frittata di cipolla di una volta?…