Oltre tren'anni di attività al servizio della verità

Professione reporter

Il reportage per Ryszard Kapuscinski è un tentativo di comprensione delle culture altre, il reporter la voce dei senzavoce.I servizi e i libri del corrispondente polacco, scomparso un anno fa Varsavia, rappresentano importanti chiavi di lettura per interpretare il mondo odierno. Ricordando, sempre, che "il cinico non è adatto a questo mestiere"
19 febbraio 2008 - Piero Loi

"Il reporter è un'attitudine, un personaggio". Con queste poche parole, tratte dal documentario biografico "La seconda arca di Noè", Ryszard Kapuscinski arriva dritto al nocciolo della sua esperienza. La stessa lezione è stata ribadita a Scienze della Comunicazione, in occasione di un incontro in memoria del giornalista e scrittore polacco. Kapuscinski è prima di qualsiasi altra cosa l'uomo messo in moto perpetuo dalla curiosità. Quel tipo di reporter che disdegna gli ambienti chiusi ed esclusivi dei quartieri europei di Algeri e Dar es Salaam perché sa che non vi troverà niente di interessante. "L'appartamento che ho affittato a Lagos viene continuamente svaligiato", così recita l'incipit del capitolo "Il mio vicolo del '67", in "Ebano", poi prosegue: "Io voglio abitare in una città africana, in una casa africana, altrimenti come posso conoscere questa città, questo continente?". Un furto subito suscita solo il suo sorriso, Kapuscinski sa come tutto sia relativo. Ma comunque pericoloso, la prossima volta potrà ricevere una pallottola o ad abitare in uno slum puzzolente e malsano dove la gente vive ammassata si potrà ammalare, anche se non importa. Tanto ci saranno le barricate su cui andare e stare.

Il reporter è un personaggio kapuscinski
coraggioso e la noncuranza del rischio il prezzo da pagare per svolgere bene il proprio lavoro. Un bianco animato dalla curiosità in un quartiere di neri e poveri quindi, affidato per buona parte all'imponderabilità degli eventi. Ciò che gli serve , adesso, è mimetizzarsi, passare inosservato, come uno tra tanti, per essere considerato uno di loro. Si, perché solo a questa condizione il corrispondente potrà avere accesso alle informazioni di cui ha bisogno. Allora osserva attentamente la cultura del posto rigenerarsi giorno per giorno nei saluti, nelle espressioni facciali e nelle pose dei corpi, studia la storia di quella gente a cui si mischia. Quelle tradizioni, quelle norme rispettate o infrante sono fili invisibili ai quali deve aggrapparsi un polacco che voglia stare in terra d'Africa. Kapuscinski sperimenta insomma un rapporto di convivenza cosciente con l'alterità passando attraverso un tentativo di comprensione, facendolo sempre con modestia. Il suo occhio si trasforma in un dispositivo ottico di decodifica della luce accecante dell'equatore e di tutto quello che accade sotto quell’impietoso sole. Ne rimarranno impressionate le pagine dei suoi libri, veri saggi di antropologia e storia sociale.

Kapuscinki tace, osserva, chiede e scrive; la sua esperienza di uomo tra gli uomini viene travasata nei suoi scritti attraverso un costante movimento di lenti, ad un allargamento di campo segue sempre un suo restringimento. Quel tragitto che dal dettaglio porta al tutto e viceversa richiede un attento lavoro sul materiale umano e non può essere ridotto da una cornice, una chiave di lettura che dia un senso univoco ai fatti. Questa è la cifra dello stile di un onesto giornalista europeo in Africa. Questa è la lectio che Kapuscinski rivolge al suo pubblico europeo: in un mondo sempre più interculturale, dove la Nigeria o la Colombia si sono trasferite a due isolati dalle nostre case, urge un cambio di prospettiva, la capacità del soggetto di adottare più punti di vista una necessità impellente.
Dal momento che "la fonte principale della nostra conoscenza giornalistica sono gli altri", l'incontro per il reporter è tutto. E Il corrispondente di Pinsk si è allenato in decenni di attività per conto dell'agenzia di stampa polacca. Ne "Il cinico non è adatto a questo mestiere" suggerisce quindi le buone prassi del giornalismo di reportage: "Se si è una buona persona si può tentare di capire gli altri, le loro intenzioni...le loro tragedie. E diventare immediatamente, fin dal primo momento, parte del loro destino. E' una qualità che in psicologia viene chiama empatia".

Per fare bene questo lavoro, ricorda Kapuscinski, occorre sapersi "eclissare", dimenticandosi di sé stessi. Laggiù, in Sudan o in Angola o ad Est in Iran, il reporter può esistere solo come individuo "che esiste per gli altri, che ne condivide i problemi e prova a risolverli, o almeno a descriverli". A questo punto emergono in tutta la loro interezza le intenzioni dell'autore: le buone prassi del giornalismo evolvono naturalmente nell'impegno attivo per il cambiamento. La sua lunga vita professionale, ciò che ha toccato e odorato ancora prima di vedere e sentire l'ha portato dalla parte degli indigenti. Per lui la povertà del terzo mondo è innanzitutto una condizione esistenziale segnata dal silenzio e dall'assenza di speranza. Ma non per questo irreversibile. Fintanto che il povero soffre, in silenzio, e non spezza le sue catene, perché impaurito, Kapuscinski provvederà a dargli voce. Misteriosamente e tutt'ad un tratto accade poi che la speranza baleni: l'oppresso allora si alza, urla per le vie di Teheran o tace in complice silenzio nella casbah di Algeri. L'uomo ha messo in moto la storia perché si è messo a correre dietro un'idea comune. A volte capita che si corra nella direzione sbagliata e che nuovi tiranni prendano il posto dei precedenti. In ogni caso questo piccolo polacco è lì, a toccare con mano, a mettere in gioco il suo corpo, unico reporter attivo di una generazione di reporter che ha visto l'Africa ottenere l'indipendenza, scrittore dei moti iraniani del '79 in "Shah-in-shah" e della guerra durata 100 ore tra Nicaragua ed El Salvador in "La prima guerra del football".

Kapuscinski ha quindi attraversato la seconda metà del Novecento affianco ai poveri, agli oppressi, per dare un contributo alla storia vera e sottrarre terreno e argomenti alla storia viziata del mainstream, troppo propenso a ridurre la complessità dei fatti in frames semplificatori, troppo incline a non svolgere un serio lavoro di verifica sulle fonti e troppo sensibile alle esigenze dei potentati e del mercato. Lui, invece, che non ha mai scritto senza vedere e toccare e che per scrivere è andato in capo al mondo. Per tutti questi motivi Kapuscinski è considerato il padre del giornalismo sociale.