Cala il sipario sulla Berlinale. Chiude il 58° festival del cinema; ricco, forse troppo, oltre 400 pellicole, spesso i film più interessanti non in concorso, nascosti, da trovare nel mare caotico di un festival che da un po di tempo sembra badare più ai record e agli incassi che al resto. Comunque sia, molti bei film; l’atmosfera della Berlinale è sempre spumeggiante, tra Potsdamer Platz e il resto della città. Non convince per niente il Golden Bär, «Tropa de elite». Vince questo film brasiliano ambientato nelle favelas; ma più che la denuncia sociale delle condizioni di vita della popolazione, trionfa la sacralizzazione di un poliziotto macho che dostribuisce ordine e legalitá ovunque. Decisamente meglio «Standard Operating Procedure» (Usa), il documentario su Abu Ghraib, interessante documentairo-inchiesta sulle vicende oscure del carcere iraqeno; il regista, Errol Morris, parte dalle foto scattate durante le torture, per condurre una indagine volta alla ricostruzione di una verità più plausibile. La giuria gli consegna l'Orso d'argento. Meritato. Meritava probabilmeten qualcosa di più. Come meritava di più un altro film in concorso, «Ballast», del regista americano Lance Hammer; storia di emerginazione e di disagio sociale di una famiglia nera che vive sulle sponde del Mississipi in baracche completamente isolate. Un bambino, James, che si mette nei guai con la droga e rapina il suo vicino, Lawrence, scampato ad un tentato suicidio dopo la morte del fratello. La madre di James, Marlee, che pulisce i cessi per sopravvivere; un fim asciutto, che evita melodrami e banalitá strappalacrime, denso, essenziale, scarno. Molte inquadrature a vuoto, dialoghi parchi, lunghi silenzi appesi in inquadrature che rendono il paesaggio nudo e triste del delta del Mississipi, i volti atrofizzati e senza speranza dei protagonisti, la loro vita che scorre senza la possibilità di un riscatto. Il tutto nella completa assenza della società o dello stato; «C'è molto da dire e da fare - dice il regista di "Ballast" - per coloro che nella nostra società e nell'America di oggi non possono difendersi e vengono stritolati dai meccanismi del potere»; il finale interessante, con i tre che tentano di darsi vicendevolmente aiuto; l’ultima scena li inquadra in macchina, in viaggio, a simboleggiare la possibilità di un percorso, di una fuga; ma è un finale a sorpresa, un non-finale dove il resto è lasciato all’immaginazione. In ogni caso, senza indugiare in facili ottimismi né in tragici pessimismi. Tra le restrospettive c’è Fancesco Rosi, con «Il bandito Giuliano»; le vicende oscure legate al coinvolgimento del bandito nella strage di Portella della Ginestra, dove i contadini in festa venivano trucidati dal fuoco (di Giuliano?) dopo la vittoria delle elezioni in Sicilia del blocco social-comunista; le prime elezioni libere in Italia dopo il fascismo: l’Italia «democratica» dei misteri, delle stragi e della strategia della tensione nasceva già allora.
E tra gli italiani c’è «Feuerherz», di Luigi Falorni, regista italiano di scuola tedesca, già nominato all’oscar per «La storia del cammello che piange»; Feurherz è ambientato in Eritrea, nell’Eritrea post-italiana che è già uscita dalla guerra vinta contro l’Etiopia, ma che è sprofondata in una guerra civile per il controllo delle zone già liberate dalla guerriglia, ormai spaccata in due fazioni, il filocinese Fronte di liberazione del popolo eritreo e l'altrettanto marxista Elf (Eritrean Liberation Front) che iniziò a reclutare anche i «soldati bambini»; la storia racconta proprio le vicende di Atwet, bambina arruolata nelle milizie del fronte di liberazione; le immagini sono bellissime, il film si conclude con Atwet che riesce a disertare con altre due bambine-soldato e a raggiungere il Sudan grazie ai cammellieri del deserto... Un po’ fantasioso, del resto per lunghi tratti il film non convince, nella misura in cui oppone troppo semplicisticamente lo spietato oltranzismo di una comandante black socialista, pronta a far combattere i bambini, al rassicurante volto di suore candide di lingua italiana che diffondono la dottrina del Cristo e dell’altra guancia; proprio l’immagine del sacro cuore di Gesù, che dà il titolo al film, è una immaginetta che Atwet porta sempre con sé e che è simbolo della sua ostinazione a fuggire la guerra e la miseria. Non un pacifismo da resa, passivo, insomma, ma vissuto come fuga attiva dalla guerra; le proteste della comunità eritrea per la deformazione della sua guerra di liberazione restano comunque non l’unico motivo per serbare dubbi su larghi tratti del film del regista italiano.
Anche se il regista-attore italiano più atteso era probabilmente il Nanni nazionale, alle prese con il «caos calmo» del suo personaggio, un uomo a cui improvvisamente muore la moglie, proprio mentre lui sta salvando un’altra donna; alle prese con la figlia, ma soprattutto con un dolore che tarda ad arrivare, anzi, con la completa assenza di dolore, naviga in questa caoticità priva di disperazione, in un caos calmo trascorso sulla panchina di un parco di fronte alla scuola della figlia, dove per mesi il nostro aspetta per tutto il giorno la figlia. Un Moretti piacevole, ironico, bravo attore come sempre, capace di calarsi nel ruolo; un Moretti che è il vero fulcro del film, concentrato praticamente tutto su di lui; il film non è un granchè, molto leggero e disimpegnato, rilassante; meno male che ci hanno pensato i prelati a fare un po’ di caos vero, intorno al film. Moretti in sala stampa ha dovuto arginare i giornalisti stranieri incuriositi – quando non attoniti- da questo intervento protomedievale sulla sessualità e la coscienza, l’amore non fatto in faccia e il
sadomaso; al di là dell’incredibile assenza di pudore dei nostri eroi vaticani, che oramai non hanno più limite, la scena finale arriva nel film, per così dire, non preparata, a ciel sereno; la Ferrari si destreggia bene tra le mani del Nanni nazionale; lui, diciamoci la verità, nudo non è che sia uno spettacolo; del resto il Nanni nazionale è evidentemente più a suo agio sulla panchina mentre aspetta la figlia o mentre dispensa consigli all’immancabile Silvio Orlando; certo sembrano lontani i tempi del Moretti che, tra una vasca e l’altra, schiaffeggia la giornalista che parla male, tuonando che le parole sono importanti.