Dall'1 al 4 febbraio al Teatro delle Moline

Kaddish per il bambino non nato

L'arena del Sole, in collaborazione con il Mittelfest 2006, presenta il monologo interiore di Imre Kertesz, premio Nobel per la letteratura nel 2002. Deportato ad Auschwitz a quattordici anni e sopravvissuto per miracolo, è potuto rientrare in Ungheria per lavorare come giornalista e traduttore. Fino alla censura all'uscita del suo primo libro, adattato per il teatro in un testo vibrante, nero, ironico.
3 febbraio 2008 - Simona De Nicola

Il Kaddish è la preghiera ebraica per i morti e Kertesz ha una triplice dedica per essa.
Al bambino che fu, quando a quattordici anni venne deportato ad Auschwitz.
Ai milioni di persone che come lui vissero l'esperienza dei campi di concentramento e vi perdettero la vita.
Al bambino che non ha mai voluto, o potuto chissà, far nascere dopo Auschwitz. All'impossibilità di divenire il padre, il destino, il dio di un altro essere in un mondo dove solo il male ha una razionalità, mentre il bene non trova spiegazione.
Irrazionale, il mondo in cui i nostri contro-istinti ci guidano fino a divenire i nostri istinti. In una baudrillardiana visione dei nostri gusti, finiamo per agire più per repulsione e disgusto, che per pulsione ed attrazione.
In tale situazione il bene trova spiegazione solo nella libertà, una libertà assoluta: dalle proprie pulsioni e repulsioni, dal proprio tempo e dalle necessità. Solo così Kertsesz può spiegare l'umanità che talvolta ha visto brillare nel volto degli aguzzini o dei disperati come lui.
Ed è sempre la libertà che consente al premio Nobel di fondere dramma, ironia e poesia in questo racconto-confessione .
“Non c'è spiegazione per Auschwitz”, si sente spesso pronunciare. Ma per Kertsesz questa è una spiegazione paradossale: c'è un senso in ciò che successo, innanzitutto nelle migliaia di parole dettate dalla necessità di far rivivere nel racconto le atrocità vissute. C'è un senso nelle vite individuali, nella unicità di ciò che ognuno dei sopravvissuti è divenuto.
Superstite deriva da super-testes, un super testimone, qualcuno che ha vissuto da troppo vicino il dramma per poterlo raccontare con oggettività. Si è scritto molto sulla possibilità di raccontare la tragedia, sulla discrepanza tra l'esperienza traumatica e le possibilità espressive del linguaggio.
L'ironia come mezzo per aggirarsi tra le dolorose stanze della memoria è la difesa di molti che hanno vissuto il trauma della deportazione, la condizione di essere ebrei e la difficoltà di assilimilare la propria identità ad una religione.
Per lui, per cui essere ebreo aveva sempre significato “essere una donna calva, vestita di rosso, davanti ad uno specchio”, la religione spiega ben poco della sua esistenza.
Nella sua vita sembrano contare molto di più i piccoli momenti, i passaggi e i cambiamenti: per questo la narrazione è così altalenante nel tempo e nello spazio.
Per questo Kertsesz ci fa viaggiare nei suoi ricordi, seduti su una sedia a contemplare un uomo a sua volta seduto su una nuda panchina.
La riflessione di Kertsesz scivola dalla narrazione sui campi di concentramento alla sua vita matrimoniale, passando per piccoli, emozionanti ricordi casuali. E ci pone davanti al quesito più importante, quello sulla nostra condizione. La verità sulla nostra esistenza non avrebbe parole, scheletrica nudità riluttante agli orpelli vestimentari delle parole.
Ma Imre conosce un segreto, l'ironia, che diviene in questo monologo la chiave per accedere alla nostra coscienza, e ci suggerisce le parole per dire l'indicibile.