BOLOGNA VERGOGNATI!
di Valerio Monteventi
(direttore di Zero in condotta)
Bologna, 3 aprile 2000, via Fiorini 2.
“Adesso che ci sono morti i bambini venite con le tv e con il sindaco. Perché non ci avete aiutato prima? Qua i bambini vivono come cani, come i topi che girano di notte”. Sono le donne del Campo di Santa Caterina di Quarto a gridare con rabbia la loro disperazione per la morte dei piccoli Amanda e Alex. Gli uomini se ne stanno zitti, sconvolti e annichiliti per questa “tragedia annunciata”.
Anche i giornalisti sono attoniti, questa mattina non c’è nessuno che sgomita per avere la “notizia” o “l’immagine forte”, è molto esplicito quello che ci si prospetta davanti, sia per i resti del tragico rogo, sia per le baracche di questa favelas che da anni ha affondato le sue instabili radici a poche centinaia di metri dal nuovo Centro Agroalimentare e da quello che, forse, diventerà il “Polo delle produzioni immateriali”. Medioevo sociale e futuro tecnologico, questa sembra essere la schizofrenia a cui dovremo assoggettarci nell’era delle tanto citata globalizzazione.
Ma di facili sociologismi oggi non se ne sente il bisogno, è la vergogna il sentimento più appropriato per questo rogo infame che ha cancellato l’esistenza di due vite appena cominciate e ha rovinato per sempre quella di una ragazza di 19 anni e di un ragazzo di 23.
Mario Rebeschini, un fotografo che da sempre ha ripreso la vita dei rom, dei profughi, dei deboli, se ne sta per molti momenti in silenzio, questa mattina la macchina la tiene soprattutto in spalla. A un certo punto, con un filo di voce, si lascia andare a un’evocazione piena di rabbia, ma anche di impotenza: “Ti ricordi Valerio il supplemento fotografico “Fin che il fiume non li inghiottirà” che facemmo nel ‘92 per Mongolfiera?…”.
Erano immagini molto crude sulla vita a cui venivano costretti i profughi di guerra della ex Jugoslavia nella baraccopoli sorta sulle rive del fiume Reno. Non c’era bisogno di commenti, quegli scatti erano molto più espliciti di qualsiasi articolo o servizio giornalistico.
“La cosa assurda - prosegue Mario - è che sono passati più di otto anni e da quella esperienza non abbiamo imparato niente, non si è fatto nulla di diverso…”.
Giusto questo riferimento al passato, anche perché pure il Campo di Santa Caterina di Quarto è lì da più di 8 anni (dopo l’attentato della Banda della Uno Bianca che avvenne, a poche centinaia di metri di distanza, nell’allora campo abusivo) e i problemi, mai seriamente affrontati, sono sempre stati di una certa gravità.
Ma, da quando si è insediata la Giunta Guazzaloca, la situazione è peggiorata. E’ stata considerata una “gravosa eredità” di cui avrebbero fatto volentieri a meno. Come per altre questioni legate alle politiche per l’immigrazione, questa amministrazione ha cercato di rimuovere il problema considerandolo materia da ordine pubblico, roba da poliziotti e carabinieri. Le parole del sindaco lo stanno a testimoniare: “Senza maggiori controlli, la situazione rischia di sfuggire di mano”. Se potessero farebbero come i loro amici di Parma che hanno chiuso l’acqua e i bagni dei campi, sperando, attraverso “atteggiamenti fermi”, di far cambiare aria agli “indesiderati”.
Del resto, questa è la logica con cui vengono affrontate le questioni sociali: fate un salto in via Drapperie 6, dove un tempo c’era l’ISI (oggi si chiama Servizi per l’immigrazione). In quegli uffici al primo piano, un tempo brulicanti di uomini, donne e bambini che ponevano, anche con disperazione, i loro problemi (quasi mai risolti), oggi c’è un vuoto ancora più terrificante. “Quando l’unica risposta che siamo autorizzati a dare - ci dice un operatore - è no, è chiaro che la gente smette di venire”.
Ma non è che non affrontando i problemi questi si risolvano, anzi possono solo esplodere in maniera più grave, il drammatico episodio di questa mattina ne è la crudele testimonianza.
Le nostre sono “squallide strumentalizzazioni” della solita sinistra?
Allora elenchiamo un serie di date, così Guazzaloca, Pannuti e compagnia si sbugiardano da soli per tutto quello che non hanno fatto da sei mesi a questa parte, quando, con dovizia di particolari, furono informati che la situazione al campo di Santa Caterina era a gravissimo rischio.
Il presidente del Quartiere San Donato ha, in più occasioni (11 agosto, 13 agosto, 6 settembre, 16 settembre, 21 settembre 1999), inviato lettere alla Giunta comunale per chiedere quali fossero le linee di accoglienza e le modalità per affrontare l’arrivo di famiglie in fuga dal Kosovo, autorizzate alla permanenza, che si erano in qualche modo sistemate in via Fiorini. Non ha mai ricevuto una risposta.
La Polizia Municipale, nello stesso periodo, in una relazione scriveva: “… la situazione igienico sanitaria è deleteria per l’incolumità delle persone”. La Giunta ha mai ritenuto di doversi allarmare per questo avviso?
Il 6 ottobre l’Opera Nomadi e la Consulta contro l’esclusione sociale inviano un documento al Comune sull’emergenza che si è verificata dopo lo sgombero dell’ex fabbrica Cerioli a Castelmaggiore. Dopo lo smantellamento del campo abusivo, decine di persone, tra cui donne incinte e bambini, dormono all’addiaccio, prive di qualsiasi riparo e di effetti personali: “Chiediamo sia garantito il minimo diritto vitale a persone da anni in fuga da guerre e povertà”. Altro appello dal Quartiere San Donato: “Vi preghiamo di valutare la grave situazione realizzatesi negli ultimi due mesi nell’area sosta di via Fiorini 2”.
L’inverno è alle porte, ma l’assessorato alle Politiche Sociali non risponde. L’11 ottobre la questione viene portata in Consiglio comunale consiglieri dell’opposizione, Pannuti, allargando le braccia, dichiara: “A quando una soluzione? Io non vi so dire, mancano i soldi. Il Comune da solo non può farcela. Ma vi comunico che su questo fronte siamo molto attivi e ci stiamo lavorando…”.
Chiedete ai rom di Santa Caterina quante volte hanno visto funzionari e assessori comunali da settembre ad oggi?
Una volta sola, la mattina del 3 aprile: oggi.
Allora, è veramente strumentale affermare che la responsabilità morale della disgrazia che ha tolto la vita a due bambini sia di Guazzaloca e della sua Giunta?
LA TRAGEDIA DI SANTA CATERINA
Esclusione, emergenza, espulsione, eternizzazione, securitizzazione, tante parole per coprire…
di Dimitris Argiropoulos
3 Aprile 2000. Muoiono nell’incendio della loro roulotte Alex e Amanda.
Santa Caterina è un luogo di morte, non solo della morte quotidiana vissuta nella separatezza e nell’esclusione, ma della morte vera e propria, la morte di due bambini.
Nel campo si perde ormai anche il futuro e non solo la vita di oggi, non solo il presente. Si perde il futuro di famiglie intere, della comunità che spera e proietta le proprie speranze sui figli.
Dieci anni dopo si realizza l’intento della banda della Uno Bianca: l’eliminazione fisica e la “correzione” con il terrore di quelli concepiti come diversi, non omologabili, nemmeno degni di essere ascoltati.
Il 10 dicembre 1990, quando Santa Caterina era ancora solo un accampamento, la Banda della Uno Bianca sparò all’impazzata colpi di mitraglietta contro le roulotte, provocando il ferimento di nove persone. Il 23 dicembre 1990 la banda della Uno Bianca torna a sparare contro gli zingari, al campo di Via Gobetti, uccidendo Rodolfo Bellinati e Patrizia della Santina e ferendo anche la nonna materna di Alex e Amanda. Gli sbirri della Uno bianca erano a volto scoperto, pochi giorni dopo una zingara - chiamata in Questura a testimoniare - riconobbe nel poliziotto Roberto Savi l’autore dell’agguato. Nessuno le da ascolto.
Il campo di Santa Caterina, diventa centro di prima accoglienza per immigrati rom Jugoslavi con l’applicazione della legge Martelli e come risposta istituzionale all’emergenza terroristica della Uno Bianca.
L’emergenza può portare all’emergenza, quella repressiva come quella dei percorsi di inserimento, dove si sceglie la possibilità del coinvolgimento istituzionale, dove si accetta di aprire le questioni dell’incontro/scontro, dando tutte le possibilità alle parti, dove l’ascolto da spazio alla mediazione che è l’unico metodo e scopo per nuovi legami sociali, per nuovi futuri.
Invece, in tutti questi anni la mancanza di dialogo e di mediazione, l’autoreferenzialità delle istituzioni, la settorializzazione e il mancato coordinamento degli interventi pubblici, hanno fatto di Santa Caterina un esempio emblematico dell’ “accoglienza” che questa città è capace di dare agli immigrati, ai profughi, ai “nuovi cittadini”.
Si raffinano così i meccanismi permanenti dell’esclusione e dell’emergenza istituzionale, funzionale solo a se stessa.
L’espulsione è la strategia primaria dell’esclusione, per non includere nel sistema.
Sgomberi, fogli di via, provvedimenti amministrativi di allontanamento, provvedimenti di ordine pubblico, rimpatri forzati, mancata presa in carico, non applicazione delle leggi, impedimenti burocratici e non alla concessione dei permessi di soggiorno. Metodi questi largamente praticati per non avvicinare le distanze con l’altro, per giustificare le proprie ragioni, per non permettere considerazione, dignità e presa in carico. Metodi questi che consentono, con la forza e gli atti amministrativi di allontanare e/o di scoraggiare gli immigrati, i profughi e le minoranze a permanere sul territorio.
L’eternizzazione degli interventi è la strategia lenta, sistematica e giustificata dalla logica del “meno peggio” per continuare ad escludere.
Quando non si può fare altrimenti si interviene, quando emerge l’emergenza, quando non si può attuare l’espulsione, allora si interviene. Chi è stato accolto, chi ha superato le barriere del sistema, chi non è stato espulso, chi ha resistito, incontra l’intervento pubblico e con esso deve misurarsi.
Ma è un intervento pubblico esiguo, parziale, settorializzato, privo di prospettive e di progettualità che imposta e nutre le dinamiche dell’esclusione, prolungando all’infinito i tempi della sua azione, annullando ogni finalità di integrazione, annullando nel sistema campo le persone. E’ un intervento pubblico che assistenzializza, ricatta, penalizza, quasi a volersi vendicare dell’ ”accoglienza”.
I centri di prima accoglienza diventano i centri perversi e distorti dell’eterna accoglienza dai quali non si esce mai. I processi di “integrazione” e i loro tempi non hanno fine, gli esami per l’integrazione li superi solo se riesci a omologarti, a diventare “normale”, “uguale”. Gli interventi si eternizzano sempre a partire da logiche istituzionali “neutre” e “obiettive”.
Gli insuccessi di questi interventi avviano la descrizione negativa dell’altro, “ufficializzandola” a livello istituzionale e rafforzandola a livello sociale.
False informazioni, corrispondenti alla propria percezione e non basate sul sapere ascoltato, notizie di ogni genere attribuite alla natura non corretta e non correggibile del richiedente l’aiuto istituzionale, permettono di giustificare l’insuccesso degli interventi e la messa in opera di altri interventi per correggere questi insuccessi. Nasce e si rafforza il bisogno di sicurezza che ovviamente guarda qualsiasi cosa meno che la sicurezza dello zingaro, dell’immigrato, dell’altro.
La securitizzazione degli interventi è il meccanismo ultimo dell’esclusione.
Chiamando continuamente in causa la legalità/illegalità, dentro la quale possono trovarsi o meno gli zingari, legittima l’impostazione di interventi basati sul controllo, dove è il Vigile che fa l’operatore e l’operatività sociale si riduce al lavoro di portineria e vigilanza. Giustificano i controlli di massa che colpiscono le comunità e non i responsabili di possibili reati, la mancanza di proposte per il lavoro e la discriminazione dei redditi informali, giustificano tutto ciò che può impedire la mobilità sociale.
C’è una disattenzione intenzionale sui diritti, che non considera:
- tutte le questioni attinenti al ricongiungimento familiare e ai flussi delle parentele che non sono considerate con attenzione o addirittura sono disattese in fase di applicazione delle leggi che pure prevedono queste possibilità.
- l’espulsione “amministrativa” dal campo/CPA che si traduce in una espulsione di fatto dal territorio nazionale, per l’impossibilità di rinnovare il permesso di soggiorno.
- la condizione “kafkiana” dei richiedenti asilo che aspettano per anni una risposta e che non possono lavorare.
- le persone che non hanno potuto rinnovare il permesso di soggiorno ma che comunque non possono ritornare nel paese di provenienza.
- la “disattenzione” rispetto all’applicazione delle leggi, come per le persone che pur in possesso di permesso di soggiorno, non hanno usufruito di alcuna forma di accoglienza istituzionale.
Queste condizioni fanno sì che il numero degli irregolari e dei non autorizzati in attesa di sistemazione, accampati un po’ ovunque e sempre in condizioni di estrema precarietà, a volte anche nei centri di prima accoglienza o in “centri di fortuna”, sia sempre in aumento, ma tutto ciò è considerato solo per giustificare interventi repressivi.
Questa strategia dell’esclusione globale è stata messa a punto dalle nostre istituzioni in tutti questi anni dell’immigrazione “fenomeno nuovo” e si è inasprita nell’ultimo periodo, diventando solamente più esplicita.
I rom immigrati di Santa Caterina hanno subito e subiscono ognuno dei suoi meccanismi e ogni giorno vivono in prima persona le sue conseguenze.
Anche il 3 aprile 2000.
IL DOLORE DI UN POPOLO
ControPiani - Rete NO OCSE Bologna
Questo è il comunicato distribuito dalla Rete Contropiani - No Ocse Bologna alla manifestazione di sabato 8 aprile. Si tratta del testo di un bellissimo editoriale letto dai microfoni di Radio Città 103.
«Nel suo libro la "LENTE FOCALE" lo zingaro Otto Rosemberg racconta la sua biografia di deportato scampato ai campi di sterminio nazista. Un calvario che portò l'autore nei più famigerati luoghi della shoa come Aushwitz e Treblinka. Ma l'escalation che portò alla soluzione finale del popolo Rom e Sinti ebbe precedentemente anche alcuni passaggi "intermedi", come la costruzione di campi di contenimento dove concentrare in un solo luogo tutti questi indesiderabili.
Dalla lettura di quelle pagine toccanti troviamo uno specchio dei giorni nostri, dei lager che troppo assomigliano ai nostri campi sosta per zingari o centri di permanenza temporanea per immigrati clandestini: stessa separazione, stesso controllo poliziesco, stesse condizioni igienico sanitarie, stessa invisibilità al mondo, stessa impossibilità di essere percepiti come persone.
Il rogo del campo nomadi di Santa Caterina di Quarto sembra uscire da quelle pagine di dolore di un popolo che non ha mai visto il suo 25 aprile.
Una strage annunciata ripetuta e ripetibile, roulotte che bruciano e bruceranno, tragedie normali che moltiplicano il volto disumano delle nostre metropoli dominate dalla filosofia della Tolleranza Zero.
Non è peculiare della destra politica questo pugno di ferro contro i poveri dell'oltre periferia, in quanto centro-destra e centro-sinistra fanno a gara nel "ripulire" i centri storici delle nostre città. Lo s tesso campo di Santa Caterina di Quarto è frutto prima della Giunta Vitali e poi di quella Guazzaloca, così come il centro di detenzione per immigrati prevista in via Mattei trova la collaborazione della "sinistra" Regione Emilia-Romagna e del "destro" Comune di Bologna.
In realtà, in questa nostra vecchia Europa, non c'è più posto per le comunità Rom e Sinti: non in Kossovo, perseguitate dai nuovi padroni albanesi dell'UCK, non in Romania o nella repubblica Ceka, dove costruiscono muri per tenerli "di là", non in Austria, dove Haider considera le SS dei bravi ragazzi, non a Bologna dove non è bastata l'incursione dell'UNO bianca della banda dei Savi per liberare i nomadi da questo lager.
Piaccia o non piaccia, la comunità nomade diventa involontaria cartina al tornasole della libertà di tutti, proprio perché più indifesa davanti al risorgere dell'intolleranza xenofoba e del sonno della ragione.
Se due bimbi muoiono nel rogo della povertà e un Sindaco dice che non ci sono responsabilità, vuol dire che nemmeno ci saranno responsabilità quando un operaio edile muore in un cantiere del subappalto, un anziano nella solitudine di un nosocomio, un carcerato nella cella di un penitenziario. E se non esistono responsabilità per tutti costoro, chi vuoi mai che si ricordi del tuo posto di lavoro, della casa e della tua strada?
Quando allora va in fuoco una baracca al campo nomadi, non domandarti per chi brucia la roulotte: questa brucia anche per te!».
SOLIDARIETA’ L’E’ MORTA
di Pier Giorgio Nasi
(capogruppo di Rifondazione Comunista al Comune di Bologna)
Nel 1975, quando per la prima volta, i comunisti presero in mano il governo di alcune città del sud, sull’onda dell’entusiasmo di quella straordinaria novità, la gente diceva: «Adesso faremo come Bologna». Ma sono passati molti anni e la memoria potrebbe giocare brutti scherzi e privarci persino del piacere di ricordare.
Il governo del centrodestra ha contribuito a togliere definitivamente i veli alla Bologna di oggi, il sindaco Guazzaloca e i suoi soci non si concedono nemmeno l’ipocrisia di una presenza, più o meno contrita, ai funerali di Alex e Amanda, preferendo accodarsi al senso comune cittadino che parrebbe avere, oggi, in odio tutto ciò che è diverso da sé, tutto preso dalle angosce e dagli incubi della sua grassa insicurezza.
Tragedie così ne accadevano, purtroppo, anche negli anni della precedente amministrazione, ma diverso era l’atteggiamento di Sindaco e Giunta che facevano gara di presenzialismo a funerali, celebrazioni e conferenze stampa che annunciavano l’imminenza della soluzione dei problemi, della nuova accoglienza, quella stabile, oltre l’emergenza. Gli uni e gli altri non hanno fatto nulla e oggi che governa il centrodestra non possiamo più permetterci nemmeno la finzione, non ci saranno lavori e neppure solidarietà: la sostanza non interessa e la facciata che paga elettoralmente pare essere un’altra.
Bologna solidale “l’è morta”, sepolta dai fasti degli anni ottanta e novanta, travolta dal nuovo avanzante e dal realismo becero dei parvenu del mercato globale, anche sull’elemosina e sulla carità cristiana, che già non sono un granché, siamo alla presenza di grandi ripensamenti se è vero (e lo è) che la Curia bolognese si è indignata per l’assoluzione degli immigrati che avevano occupato S. Petronio alla ricerca della solidarietà della chiesa stessa.
Non è la Bologna sazia e disperata di Biffi perché gli appetiti di speculatori affaristi e commercianti non si sono placati e, in quanto a disperazione, preferiscono lasciarla agli altri. E’ una città richiusa su se stessa, sui suoi egoismi, sulla sua incapacità di essere nuovamente grande, e per giunta anche un po’ stronza.
Cosa covi sotto la cenere non si sa, ma ammesso che qualcosa ci sia sarà bene che ci affrettiamo a scoprirlo prima che i sogni di cambiamento si mutino in illusioni e si perdano nel fango o tra il fuoco di S. Caterina di Quarto assieme alla dignità e all’identità perdute.
FINALMENTE… GLI INTELLETTUALI
Dopo tanti anni, finalmente, a Bologna, gli intellettuali riprendono la parola e lo fanno, insieme ad altri “nomi importanti” della cultura italiana, sul tragico rogo del campo di Santa Caterina di Quarto dello scorso 3 aprile. La lunga lettera, inviata a diversi organi istituzionali, ha colpito nel segno. La giunta di centro-destra si è arroccata in una inconsistente difesa del suo operato (parlando di “persone male informate” e di strumentalizzazioni), ma anche qualche stolto amministratore del centro-sinistra si è sentito “ingiustamente” colpito. Comunque, questo atto ha impedito che sulla tragedia che ha tolto la vita ai piccoli Amanda e Alex si stendesse troppo rapidamente una coltre di silenzio e di oblio… e questo, di per sè, è già qualcosa.
Il 3 aprile 2000, alle otto e trenta del mattino, è bruciata una baracca al campo nomadi di via Fiorini 1, probabilmente a causa di un corto circuito. Era costituita, come altre baracche di quello e di altri campi, da un assemblaggio di due roulotte, una tettoietta di assi e onduline, un container che fungeva da cucina. Vi si trovavano dentro due bambini, Amanda e Alex Besic, che sono morti. La madre, Hana Llukaci, era andata a chiedere al cognato, che abita in un’altra baracca dello stesso campo, se poteva accompagnare i bimbi all’asilo, poiché il campo è isolato e non è servito da autobus. Il padre, Suad Besic, espulso dall’Italia e rimandato in Bosnia perché non gli era stato rinnovato il permesso di soggiorno, era rientrato clandestinamente la sera prima per rivedere i familiari, e non si trovava al campo per evitare di essere individuato dalla polizia e riaccompagnato alla frontiera. Hana Llukaci non aveva potuto raggiungerlo in Bosnia perché la famiglia Besic non ha in quel paese più niente: la casa è stata distrutta durante la guerra e tutti i parenti si sono forzatamente trasferiti in Italia e in Francia. La famiglia Llukaci, al pari, non può rientrare nel proprio paese d’origine, il Kosovo, devastato dalla guerra. Alla sorella di Hana, l’ultima della famiglia arrivata in Italia, è stata bruciata la casa nel corso della campagna di persecuzioni razziali degli albanesi nei confronti dei rom.
Il campo nomadi di via Fiorini è gestito direttamente dal Comune di Bologna. La famiglia composta da Suad Besic, Hana Llukaci e i due figli non era autorizzata a risiedervi poiché il padre di Hana ha avuto assegnata una casa popolare dal Comune: la figlia nominalmente risiede presso di lui e non ha dunque diritto neanche della povera baracca in cui abitava. L’appartamento di tre stanze, cucinotto e soggiorno, in cui vivono il padre, la madre, due fratelli, la moglie di uno di essi e il loro figlioletto avrebbe dovuto accogliere anche Hana, Amanda e Alex. Quanto a Suad, con la scadenza del permesso di soggiorno, aveva perso, per le istituzioni italiane, ogni riconoscimento della propria esistenza. La baracca in cui abitavano Suad, Hana e i due bimbi, al momento in cui è bruciata, non era diversa da quando era, come la maggior parte delle altre baracche del campo, stata regolarmente autorizzata e riconosciuta dal Comune di Bologna: gli operatori del Comune sono sempre stati perfettamente al corrente della sua esistenza. La struttura di quella baracca e il suo impianto elettrico, peraltro, non differivano sostanzialmente da quelli delle altre abitazioni del campo.
L’impianto elettrico di cui è dotato il campo consiste di sei quadri con prese tripolari, cinque dei quali affissi a pali di cemento piantati per terra e uno attaccato direttamente ad un container, con grave rischio d’incendio, nel caso di un corto circuito, per la famiglia che vi risiede. Ai quadri sono allacciati dei cavi attaccati alle prese, che, malamente e disordinatamente avvolti ai rami degli alberi o attorno alle strutture delle baracche vanno a servire le diverse abitazioni, ciascuna delle quali ha a propria disposizione una presa, attaccata all’estremità di un cavo volante, esposto alle intemperie e al logoramento della frizione contro rami, assi, chiodi, tubi metallici. E’ quindi, in qualche modo, previsto e necessitato dalla natura dell’impianto elettrico di cui il Comune ha dotato il campo che ciascuna famiglia alimenti lampadine, cucine, stufe, televisori con spine attaccate al cavo volante datole in dotazione. La realizzazione di impianti domestici di fortuna al campo nomadi di via Fiorini è insomma prevista e voluta da chi ha progettato e gestito il campo, a meno che non si intendesse che ciascuna famiglia chiamasse un elettricista ad allestire un impianto elettrico certificato a norma all’interno di una baracca, e non offre i requisiti minimi di vivibilità per allacciarlo ad un cavo, spesso posto in opera direttamente dal Comune, e non offre nessun requisito di sicurezza e, certamente, non può dirsi a norma con alcun regolamento. Negli ultimi anni ci sono stati, al campo di via Fiorini, sette incendi, nessuno dei quali aveva avuto finora conseguenze tragiche. Ciononostante, il campo, come d’altronde gli altri campi del Comune di Bologna, non è dotato di estintori, di idranti nè di altri dispositivi di sicurezza contro il rischio di incendi.
E’ evidente che la responsabilità dell’incendio e, conseguemente, della morte di Amanda e Alex Basic grava, oltre che su una tragica fatalità che ha voluto che l’incendio divampasse mentre non vi erano adulti presenti, pure e soprattutto su chi non ha presentato la necessaria attenzione alla difficile situazione in cui versava la famiglia di fatto composta da Suad Besic, Hana Llukaci e i figli Amanda e Alex, su chi non ha dotato il campo delle indispensabili misure di sicurezza contro gli incendi.
Chiediamo, con questa lettera, che il Comune di Bologna si faccia carico delle proprie responsabilità legali o anche solo morali, prima di tutto nei confronti di Suad Besic, Hana Llukaci e i loro figli scomparsi, e quindi nei confronti degli abitanti di questo e degli altri campi nomadi della città. Appare un atto dovuto, da parte del Comune di Bologna, fornire alla famiglia di fatto composta da Suad Besic e Hana Llukaci un alloggio popolare (e non, come è stato proposto dall’assessore alle politiche sociali, trovar ricovero per Hana in un centro di accoglienza per ragazze sole) e adoperarsi per trovar loro un lavoro, perché da questo possono ripartire per ricostruire un’esistenza così gravemente e irrimediabilmente segnata.
E’ necessario e improcastinabile inoltre che il Comune di Bologna metta in opera interventi d’urgenza per garantire una sicurezza accettabile a chi vive nei campi nomadi che ricadono sotto la sua responsabilità e che si adoperi per una riconsiderazione complessiva del problema con una ristrutturazione integrale degli insediamenti. A tal fine si propone la costituzione di una commissione, composta di esperti, che possa formulare, in collaborazione con i tecnici del Comune, un progetto complessivo e sovrintendere alla sua realizzazione. A garanzia della competenza tecnica e scientifica della commissione si suggerisce che ne entrino a far parte Mario Salomoni (presidente nazionale dell’Opera Nomadi), Nico Staiti (docente universitario che dal 1992 fa ricerca nei campi dell’area bolognese), Massimo Colombo (architetto della Fondazione Michelucci di Firenze che ha approntato la parte tecnica della legge regionale toscana sui campi nomadi), Antonella Gandolfi (operatrice sociale). Si propone che entrino a far parte della commissione, con un contratto di lavoro, pure il sinto Florian Debar, domiciliato all’area sosta del Bargellino, e lo stesso Suad Besic, per il quale questa attività lavorativa potrebbe essere un eccellente mezzo di reinserimento. Si chiede anche che le autorità comunali si adoperino presso la Prefettura di Bologna per far ottenere a Suad Besic un permesso di soggiorno per motivi umanitari, in attesa che la sua condizione abitativa e lavorativa gli consenta di ottenerne uno per vie normali.
Su un piano più generale, e considerata la frequenza di simili incidenti e l’inadeguatezza complessiva delle strutture su tutto il territorio italiano, si vuole sottoporre al governo italiano la necessità impellente di agire attraverso i lavori di un’analoga commissione, per affrontare il problema complessivo della strutturazione dei campi nomadi in Italia e della loro regolamentazione in modo da garantire a chi vi abita delle condizioni di vita accettabili e di trovare delle strade per articolare un rapporto più disteso e organico con il resto della società civile. Per questa ragione, questo documento, indirizzato al Comune di Bologna e ai mezzi di informazione, verrà inviato pure al Presidente della Camera dei Deputati, al Presidente del Senato della Repubblica, al Presidente della Commissione Affari Sociali della Camera, al Presidente della Commissione Sanità del Senato.
Questo appello è stato firmato da:
Giovanni Azzaroni (docente universitario, antropologo orientalista), Mario Baroni (docente universitario, musicologo), Roberto Benigni (attore e regista cinematografico), Gianni Berengo Gardin (fotografo), Luciano Berio (compositore), Lorenzo Bianconi (docente universitario, musicologo), Giovanni Bollea (neuropsichiatra infantile), Antonio Bonomi (architetto), Pier Cesare Bori (docente universitario), Gianmario Berio (docente universitario, musicologo), Nicoletta Braschi (attrice cinematografica), Matilde Callari Galli (docente universitaria, antropologa), Giampiero Cane (docente universitario, musicologo), Michele Canosa (docente universitario, docente universitario), Luisa Ciammitti (storica dell’arte), Francesco Degrada (docente universitario, musicologo), Fabrizio della Seta (docente universitario, musicologo), Umberto Eco (docente universitario, semiologo), Franco Fabbri (musicista, saggista), Franco Farinelli (docente universitario, geografo), Roberto Favaro (docente Accademia Belle Arti, musicologo), Dario Fo (attore), Francesco Galante (compositore), Cesare Garbol (scrittore), Andrea Ginzburg (docente universitario, economista), Carlo Ginzburg (docente universitario, storico), Maurizia Giusti “Syusy Bledy” (attrice, giornalista), Paolo Gozza (docente universitario, musicologo), Giovanna Grignaffini (docente universitaria, storica del cinema), Giovanna Guerzoni (docente universitaria, antropologa), Fabio Guizzi (docente universitario, etnomusicologo), Federico Guglielmo Lento (infettivologo), Roberto Leydi (docente universitario, etnomusicologo), Dario Maggi (compositore), Giacomo Manzoni (compositore), Nicola Martino (docente universitario, etnologo), Ettore Masi (architetto), Claudio Meldolesi (docente universitario, storico del teatro, accademico dei Lincei), Alfredo Mirabile (produttore cinematografico, scrittore), Stefan Nesper (avvocato, direttore Rivista Giuridica dell’Ambiente), Francesco Orlando Pisa (docente universitario, studioso di letteratura), Moni Ovadia (attore e musicista), Mauro Pagani (musicista), Valentino Parlato (giornalista), Ivo Pazzagli (docente universitario, antropologo), Luigi Pestalozza (storico della musica), Leonardo Piasere (docente universitario, etnologo), Arnaldo Picchi (docente universitario, storico del teatro, regista), Franca Rame (attrice), Pio Enrico Ricci Bitti (docente universitario, psicologo), Patrizio Roversi (attore, giornalista), Gabriele Salvatores (regista cinematografico), Edoardo Salzano (docente universitario, architetto), Nicola Sani (compositore), Pietro Sassu (docente universitario, etnomusicologo), Giuliano Scabia (docente universitario, storico del teatro), Ferdinando Scianna (fotografo), Michele Serra (giornalista, scrittore), Giovanni Soldini (velista), Silvio Soldini (regista cinematografico), Nicola Staiti (docente universitario, etnomusicologo), Antonio Tabucchi (docente universitario, scrittore), Lamberto Trezzini (docente universitario, storico del teatro
PER IMPEDIRE ALTRE TRAGEDIE
Associazione Thém Romanò
Sabato 8 aprile 2000, giornata internazionale del popolo Rom e Sinto, si è trasformata a Bologna in giornata di lutto per ricordare Amanda e Alex. In Piazza Maggiore si sono ritrovate alcune centinaia di persone cher hanno partecipato con striscioni e cartelli di protesta alla manifestazione organizzata dalla Associazione Thém Romanò (aderente all’Union Romani International).
L'Italia è l'unico paese, in Europa, che ancora concepisce e permette l'esistenza di campi sosta simili a quello di Santa Caterina, le cui pessime condizioni igieniche sono state più volte denunciate e il cui stato di totale insicurezza per chi ci abita è ben conosciuto dagli amministratori locali dei governi che finora hanno amministrato e amministrano la città.
Episodi come quello avvenuto il 3 aprile continuano a ripetersi, nella più totale impunità, in tutto il paese, da Milano a Roma, ovunque vi siano rom che ancora non hanno potuto godere di una casa in muratura come previsto dalle più recenti normative legislative e sono costretti a subire continui abusi dei più elementari diritti umani, come il riconoscimento anagrafico e lo status di profugo.
Anche l'ONU ha recentemente condannato l'Italia per il vergognoso trattamento che riserva alle persone di etnia rom, contravvenendo a numerosi trattati e accordi internazionali sui diritti umani e delle popolazioni di etnia minoritaria sottoscritti dal nostro governo.
PROPOSTE DI INTERVENTO PER LE COMUNITA’ ROM
CHE VIVONO NELLE AREE SOSTA E NEI CENTRI DI PRIMA ACCOGLIENZA
DEL COMUNE DI BOLOGNA
Centro Multietnico Navile
Si propone per la famiglia Besic l’immediata regolarizzazione del permesso di soggiorno per il capofamiglia Suad, anche ai sensi della L. 40/98 e l’immediata concessione di un alloggio ERP per i due coniugi. L’attuale situazione psicologica nonché le caratteristiche culturali di questi genitori rom non permette loro di rimanere nel campo dove sono morte i due figli.
Si propone per tutte le comunità rom che vivono a Bologna, la sistemazione in abitazioni all’interno del tessuto urbano.
La casa è un bisogno/diritto primario di queste comunità che non hanno praticato mai il nomadismo e che hanno vissuto nei campi solo all’epoca del totalitarismo nazifascista o dove non hanno avuto altra risposta nel loro percorso migratorio. In Jugoslavia vivevano in abitazioni di tipologia occidentale, avevano lavori e hanno usufruito di tutti i servizi e i diritti di cittadinanza, compresa l’attenzione e il riconoscimento della loro specificità etnico-culturale.
Si propone un intervento complessivo di risanamento delle aree sosta e dei CPA, a partire dal Campo di Santa Caterina, che permetta anche di evitare altri incidenti come quello del 3/4/2000.
Tale risanamento dovrà prevedere, da subito, la messa a norma di tutti gli impianti e l’installazione di unità abitative in prefabbricato e non dovrà impedire la possibilità di uscita dal sistema campo diventando il motivo per non intervenire rispetto alla questione abitativa.
Per questo si propone l’attivazione in tempi brevi di un progetto organico finalizzato all’integrazione abitativa e sociale delle persone, che dovrà essere confrontato sistematicamente con gli organismi di rappresentanza dei rom (Kris) e con l’Associazionismo.
Tale progetto deve prevedere:
- Regolarizzazione dei permessi di soggiorno per tutte le categorie di irregolarità riscontrate (minori inseriti nel permesso di soggiorno dei genitori che dal 15° anno di età non hanno potuto regolarizzarsi, anche per l’assenza di interventi integrativi mirati; persone che hanno raggiunto i propri familiari già a Bologna in seguito agli eventi bellici delle guerre Jugoslave e che non hanno potuto regolarizzare la propria posizione; persone che hanno perso, per vari motivi, l’autorizzazione a risiedere nelle strutture comunali e per questo non hanno potuto rinnovare il permesso di soggiorno, ecc.)
- individuazione di strategie per l’inserimento lavorativo sul modello del Progetto Integra promosso dalla Provincia di Bologna;
- attivazione di meccanismi facilitanti l’accesso ai Bandi ERP, in alloggi di dimensioni adeguate alla consistenza delle famiglie zingare;
- garanzia di almeno un alloggio da assegnare a famiglie zingare in ognuna delle graduatorie per i “casi sociali” stilate dai Servizi, prevedendo assolutamente l’aumento degli alloggi all’uopo destinati;
- reperimento di strutture in muratura da destinare a CPA per tutte le persone che vivono in campi su cui non è possibile il risanamento e per le nuove emergenze da affrontare con questa etnia;
- interventi formativi e di qualificazione/sensibilizzazione degli operatori che a qualunque titolo hanno contatti con le comunità zingare.