Indagine sociologica sugli effetti del trattamento penitenziario

Detenzione e percezione della pena

Questo lavoro si colloca nella tradizione sociologica delineata dalla ricerca qualitativa di autori come Dal Lago e Quadrelli (2003) ed ha come obiettivo e cardine direzionale la descrizione della società e delle sue caratteristiche fondanti per come si manifestano nel settore specifico dell’esecuzione penale.
In particolare l’indagine sociale effettuata in questo lavoro riferisce ed interpreta, avvalendosi dello strumento dell’intervista, narrazioni ed esperienze di persone che per parte della propria vita sono state private della libertà personale, individui che avendo vissuto a vario titolo la detenzione hanno sviluppato un’esperienza significativamente rilevante per l’analisi sociologica, esperienza il cui resoconto fornisce un punto di vista interno alle logiche istituzionali che regolano la vita nel circuito penitenziario.

7 novembre 2007 - Fabrizio Dentini

carcere 1 L’analisi condotta in questo lavoro punta a intuire ed interpretare la reazione individuale ad un ambiente totale e totalizzante.
Le reazioni che l’individuo sviluppa di fronte ad una situazione sociale così particolare e le modalità discorsive adottate nel collocare tale esperienza all’interno di un quadro narrativo coerente di esperienze vissute, sono interessanti perché aiutano a chiarire da un lato le dinamiche proprie del comportamento individuale in situazioni percepite e descritte come di acuta difficoltà, dall’altro aspetti della pratica penitenziaria che difficilmente potrebbero essere focalizzati con un approccio meno interno alle dinamiche istituzionali.
La percezione di queste pratiche da parte del soggetto ex detenuto costituisce l’oggetto di analisi di questa indagine.
Il testo integrale dell’intervista e la totalità del materiale raccolto è inserito all’interno del sito internet della Casa di reclusione di Padova: www. ristretti.it.

1.1 Perdita della libertà, relazioni affettive e produzione sociale di stigma.

Uno degli aspetti principali che caratterizzano la vita di un detenuto rispetto ad un normale cittadino è la totale forzata scissione dall’ambiente di provenienza e dalla comunità affettiva nella quale era incluso, la perdita della libertà significa la rinuncia involontaria ad una serie di possibilità che vengono azzerate automaticamente dal momento dell’ingresso in un istituto di detenzione.
Il detenuto è isolato dal mondo all’interno dell’istituzione, in questo luogo deve attenersi ad un regolamento che prescrive formalmente e informalmente ciò che è concesso e ciò che è vietato.
Per fornire un’idea di quanto questa perdita sia sentita come drammatica dalla popolazione detenuta, vorrei sottolineare che su venti persone alle quali è stato domandato dopo la detenzione quale fosse la cosa che a loro avviso ritenessero più importante in senso assoluto, quattordici in base alla loro esperienza hanno risposto la libertà e la famiglia, intesa come nucleo affettivo di base: la libertà si declina come valore supremo, base di ogni diritto e la famiglia e le relazioni affettive primarie alle quali da luogo, diventano il punto salvo per il quale vale la pena rischiare una condanna o tenere duro in carcere in prospettiva della futura liberazione.
Porto a confronto la testimonianza di Angela, 44 anni, detenuta nella Casa circondariale di Genova Pontedecimo per 2 anni e 5 mesi e nella Casa circondariale di Pavia per 6 mesi, Angela ha scontato un totale di 1060 giorni di detenzione: “ La famiglia, tutto quello che ho fatto se sbagliato o non sbagliato l’ ho fatto per aiutare la mia famiglia”, la situazione che ha portato Angela a commettere il reato per il quale è stata reclusa è scaturita all’interno delle dinamiche familiari, A. non mette che superficialmente in discussione l’erroneità o legittimità del reato commesso, questione che assume un peso del tutto secondario in relazione all’importanza della propria famiglia come unico indice di riferimento e propulsore fondamentale delle sue azioni. A. aggiunge di seguito che durante la detenzione era importante per lei:
“ poter aver contatto con i miei familiari e poter avere un lavoro remunerato per poter contribuire alle spese di casa”, dunque la famiglia rimane il nucleo principale di appoggio e preoccupazione, con i soldi guadagnati lavorando in carcere A. supplisce alla sua mancanza e alla situazione di indigenza nella quale ha lasciato la propria famiglia.
L’individuo sottratto involontariamente alla normalità dei rapporti sociali, viene inserito in un contesto onnicomprensivo e produttivo di significati morali totalizzanti, la perdita della libertà si somma alla sensazione più o meno esplicita che il proprio comportamento sia considerato moralmente inaccettabile.
Questo stigma il cui simbolo indiretto è la presenza degli agenti di custodia come gruppo superiore di riferimento costituisce un surplus punitivo significativo con il quale il detenuto deve confrontarsi lungo il percorso di detenzione e successivamente; l’immagine che di lui forniscono gli agenti di custodia, indiretti rappresentanti della società morale all’interno del sistema penitenziario, è un esempio di questo stigma come processo di condanna morale della società e dei suoi rappresentanti. Vorrei proporre in merito l’esperienza di Laura, 52 anni detenuta per 4 mesi e 15 giorni nella Casa circondariale di Vercelli e per un anno nella Casa circondariale di Genova Pontedecimo, per un totale di 500 giorni di reclusione, di Victor, 29 anni detenuto presso la Casa circondariale di Busto Arsizio per 4 mesi e nella Casa circondariale di Genova Marassi per 3 mesi e 15 giorni e di Luis, 31 anni detenuto presso la Casa circondariale di Genova Marassi per 6 anni ed un mese, un totale di 2220 giorni di detenzione; Laura: “ […] fra fuori e dentro c’è un cambiamento di trattamento profondo, sei allo zoo, ti guardano e ti trattano come un animale, il carcere è un mondo a parte […].Il mio problema era di non identificarmi a fondo in quella realtà, ci sono persone che sono succubi del carcere, che fanno parte dell’arredo. Non ti identifichi a vari livelli prima riguardo gli agenti, perché non sei un animale e poi nella figura della detenuta”, Victor aggiunge: “ per gli agenti i detenuti sono come extra terrestri, come spazzatura.”e Luis conclude: “Molta gente si sente discriminata dagli agenti che ti trattano male, ti fanno sentire una merda, in aggiunta alla libertà che ti tolgono ti trattano come se fossi senza dignità.”
All’interno del carcere avviene dunque una trasformazione: i prigionieri hanno perduto quel di più che li caratterizzava come cittadini degni di rispetto perché riconosciuti a loro volta come portatori di rispetto: questa quota di dignità perduta, nell’enfatizzare la mancanza di “rispetto” (ad es. di una norma) in cui essi sono incappati, si cristallizza per l’immagine della persona nel suo esatto contrario, nello stigma: è sotto l’ottica dello stigma che è permessa o comunque considerata irrilevante la frequente mancanza di tatto nel rapporto degli agenti con i prigionieri, ai detenuti viene proposta un’immagine, un’autorappresentazione che rasenta quella del non umano, o del sub umano; diventa davvero difficile confrontarsi costantemente con questo stereotipo senza ledere la propria concezione di sé, ed è proprio di questo stigma che parla Diana, 34 anni detenuta per 5 mesi e 18 giorni presso la Casa circondariale di Genova Pontedecimo, per un totale di 168 giorni di detenzione:
“ perdi la dignità nei confronti delle altre persone, e sapere questo ti fa soffrire, ti distrugge, è una morte interiore.”.
Questo stigma agisce indirettamente anche nel regolare i rapporti tra gli stessi detenuti; la rappresentazione degradante fornita dal corpo di custodia influenza l’immagine dei detenuti, ognuno rispetto agli altri e spesso in un circuito di abbrutimento reciproco; se Laura afferma di non identificarsi nella realtà e nel trattamento proposti è perché non si riconosce né nell’immagine che di lei hanno le guardie né nell’immagine che di lei hanno le altre detenute.
Le autorappresentazioni di se stessi, nelle quali il crimine commesso non lede la propria immagine del sé, spesso perché percepito come unica scelta possibile, non coincidono con le rappresentazioni stigmatizzanti proposte dall’ambiente circostante, e questo sfasamento ed il suo grado di incidenza nella totalità della vita del recluso acuiscono notevolmente la sofferenza vissuta dalla comunità dei detenuti.

1.2 Perdita della libertà, perdita di beni e servizi e solidarietà.

L’Amministrazione penitenziaria si prende carico della totalità della vita dei detenuti, da un lato ne soddisfa le esigenze primarie, il nutrimento e l’assistenza sanitaria e dall’altro ne organizza le attività formative e le attività ricreative; a seconda dell’efficienza di detta amministrazione e a seconda delle specifiche situazioni presenti in ogni istituto si può affermare che queste esigenze non sono perseguite uniformemente in tutti gli stabilimenti, bensì in ogni istituto si declinano metodi e si attuano disposizioni differenti per ottenere un adeguamento individuale alle norme istituzionali.
Durante la detenzione gli individui reclusi perdono la possibilità di usufruire liberamente di una serie di beni e servizi dati per scontati nella comunità libera, a seconda degli istituti non possono ad esempio decidere quando farsi una doccia e devono attenersi agli orari interni, oppure non possono tenere in cella che l’abbigliamento minimo, non possono cucinare, anche se ciò è tacitamente tollerato, spesso non possono comprare beni dall’esterno, ma solamente dallo spaccio interno.
( vedi Sykes, 1958, p. 68).
Durante la detenzione il detenuto esperisce un impoverimento materiale della propria esistenza, l’amministrazione provvede a soddisfarne le esigenze considerate basilari e tutte le necessità personali che non rientrano in questa ottica sono considerate nella prassi superflue e non implementabili. Un’esistenza condotta in questi termini può essere descritta come dolorosa e frustrante, una linea di separazione demarca profondamente la contrapposizione dicotomica tra il cittadino libero ed il detenuto che privato del diritto al possesso e del diritto a soddisfare autonomamente le proprie esigenze, ha esperienza di una condizione amputata dell’esistenza umana nei suoi termini contemporanei ( vedi Sykes, 1958, p.69).
Per collocare chiaramente questa privazione nella dovuta dimensione bisogna sottolineare l’importanza fondamentale che la nostra società attribuisce al diritto al possesso e alla gratificazione delle tendenze consumistiche:
“nel mondo occidentale moderno, i possedimenti materiali sono così largamente parte della concezione individuale del sé che separarli dagli individui porta un attacco agli strati più profondi della personalità” (Sykes, 1958, p. 69, traduzione mia).

Come esempi di questa condizione porto delle narrazioni estratte dalle interviste effettuate; nei casi analizzati può essere riscontrato solo un accenno indiretto alla situazione sopraindicata, infatti è probabile che un’elaborazione esplicita di questa tendenza sia problematica da ottenere a fronte di numerosi frammenti che palesano il senso di privazione sopportato a causa della mancanza di alcuni beni primari di più largo consumo. Il caso più consapevole e critico nei confronti delle privazioni materiali del sistema penitenziario è il caso di Laura non a caso un’ italiana, detenuta nella Casa circondariale di Vercelli per 4 mesi e 15 giorni e nella Casa circondariale di Genova Pontedecimo per 365 giorni: Laura assume nelle sue parole un atteggiamento rivendicativo, chiede per la generalità dei detenuti un trattamento di maggiore efficienza, un livello minimo di beni garantiti al momento dell’ingresso nell’istituto, L. pensa al gran numero di detenuti privi di reti solidali, per la maggioranza stranieri, che si trovano al momento dell’ingresso in carcere senza un punto di riferimento all’esterno, senza la possibilità di avere gli oggetti più semplici della vita quotidiana, lei come italiana può godere invece di un minimo di assistenza garantita dalle relazioni familiari, ascoltiamo dunque le sue parole: “non c’è un sistema di prima accoglienza, le cose essenziali, un pigiama, un sapone, lo spazzolino, quando entri non hai niente, sei buttata lì”. I detenuti che in seguito all’arresto sono tradotti in carcere non hanno a disposizione alcunché, si trovano in un ambiente nuovo senza i requisiti materiali minimi per condurre un’esistenza verosimilmente dignitosa, solo la solidarietà interna fra detenuti può in una certa misura ovviare a queste primarie necessità. Come afferma Gianfranco “E’ importante, vitale la solidarietà fra detenuti”, i legami solidali che si sviluppano nella comunità detenuta sono l’unico mezzo attraverso il quale i detenuti privi di relazioni solidali esterne, di una famiglia che se ne occupa, possono far fronte ad una detenzione che soddisfa solo parzialmente le esigenze materiali del recluso.
( vedi Sykes, 1958, p. 68).
Il problema della mancanza dei beni materiali ritenuti scontati dalla comunità libera sottolinea come spesso il detenuto sia italiano che straniero accetti la privazione di libertà come pena che la società impone a chi ne trasgredisce le regole, ma tolleri diversamente le privazione materiali che questa pena comporta: se Cinzia, 30 anni, camerunese detenuta per 9 mesi, 270 giorni, presso la Casa circondariale di Genova Pontedecimo, racconta, “Non avevo soldi per mangiare e nessuno me li mandava visto che anche mia sorella era con me per i primi 3 mesi, avevo solo un vestito e niente altro” e Victor ecuadoriano afferma “se non hai soldi non puoi avere niente, tabacco, soldi per spedire le lettere”, specificando che la dimensione solidale è fondamentale per rendere la vita più tollerabile, “ la condivisione del poco che c’è ” è importante nella vita nel carcere. Anche Cris, 47 anni e Carmen, 42 anni detenuti italiani, il primo detenuto per un totale di 2045 giorni, nella C.C. di Genova Marassi, nella C.C. di Sanremo, nella C.C. di Cosenza e nella C.C. di Paola, e la seconda detenuta nella C.C. di Marassi e nella C.C. di Pontedecimo, per un periodo totale di 835 giorni, raccontano “non avevo soldi, né per le sigarette o un caffè” ( Cris), “(avevo) problemi economici per le cose primarie, cibo, francobolli” ( Carmen).
Come sintesi del rapporto tra mancanza di beni primari e necessità di relazioni solidali può essere presa la risposta di Rosa, 32 anni, detenuta per un mese e 30 giorni presso la Casa circondariale di Firenze Sollicciano e per un anno e due mesi, presso la Casa circondariale di Genova Pontedecimo, per un totale di 485 giorni di detenzione, “se non hai soldi le cose sono care (i problemi) sono stati tanti, se non hai nessuno che ti aiuta”.
Per concludere dalla ricerca è emerso come il senso di privazione materiale vissuto in carcere rechi sofferenza al detenuto su due livelli: da un punto di vista immediato e strettamente materiale i detenuti vivono infatti con sofferenza l’esigua quantità di beni che l’amministrazione permette loro di possedere. Spesso, a oggetti di normale utilizzo nel mondo esterno è rifiutato l’ingresso sulla base di constatazioni inerenti alla sicurezza dell’istituto. Da un punto di vista simbolico e più profondo questa mancanza comporta invece una sorta di spaesamento emotivo dell’individuo, che privato di oggetti materiali ai quali conferire importanza personale, trova difficilmente degli appigli simbolici tramite i quali sorreggere la propria concezione del sé in un ambiente fortemente ostico, solo la vicinanza solidale delle persone nelle medesime condizioni può alleviare in una certa misura tali sofferenze.

1.3 Perdita di libertà e sicurezza personale.

L’individuo inserito all’interno del circuito penitenziario deve affrontare quotidianamente situazioni che esulano dal normale svolgimento della vita sociale all’esterno del carcere. I rapporti di potere e la loro azione pressoché totale nello svolgersi della vita istituzionale giornaliera implicano un contesto di continue tensioni e conflitti che hanno luogo fra i detenuti e gli agenti di custodia e all’interno della stessa popolazione detenuta.
Questa normalità costituita da situazioni dichiaratamente ed implicitamente conflittuali porta l’individuo recluso ad un costante confronto con la propria coscienza, egli deve necessariamente trovare una propria dimensione individuale, un equilibrio all'interno di un contesto estremamente problematico,
“ la perdita di sicurezza del prigioniero risveglia un acuto senso d’ansia, in breve, non solo perché hanno luogo atti violenti di aggressione e sfruttamento, ma anche perché questo comportamento mette costantemente in questione l’abilità dell’individuo ad affrontarlo, nei termine delle proprie risorse disponibili, del suo coraggio e dei suoi “ nervi”. ( Sykes, 1958, p. 78, traduzione mia).

Il detenuto/a deve affrontare costantemente situazioni che usualmente nella comunità esterna costituiscono l’ampia marginalità, se da un lato la contrapposizione strutturale al corpo di custodia rappresenta una fonte quasi-naturale di tensioni, dall’altro lato il detenuto riscontra quotidianamente sia nelle possibili relazioni pratiche con il corpo di custodia, sia, in particolare, con il resto della popolazione detenuta una situazione ambivalente di lealtà e di senso di insicurezza, di solidarietà e di conflitti verbali e fisici ( vedi Sykes, 1958, p. 77).
Il senso di insicurezza provato dai detenuti si sviluppa quindi in riferimento al corpo di custodia ed alla popolazione detenuta; fra le persone intervistate questo senso di insicurezza è vissuto maggiormente in relazione agli agenti di custodia che, agendo in un contesto mortificante e dovendo svolgere un compito di costante sorveglianza e monitoraggio della popolazione, costituiscono la fonte principale di conflittualità nei confronti dei detenuti.
Per iniziare con l’analisi delle interviste si rilevano dunque le parole di Rosa utili ad inquadrare la situazione carceraria e il suo drammatico livello conflittuale, “lì ti fanno tutte le cattiverie che vogliono loro, ti mettono in isolamento, lì le piccole cose diventano grandi”; a prescindere dalla motivazione delle tensioni e dalla direzione che prenderanno, se reazioni delle guardie verso i detenuti, o rappresaglie dei detenuti verso gli agenti o fra loro stessi, la dimensione coercitiva del carcere e la sua natura totalizzante provocano un contesto paradossale dove piccoli eventi o le piccole incomprensioni, che in libertà sarebbero riparati con mezzi civili, spesso degenerano in aperti scontri fisici, sottolineo a riprova di questa constatazione anche le parole di Stacy “spesso ci sono risse e le discussioni nascono da piccole cose”.
Nel contesto istituzionale penitenziario si innescano meccanismi che esasperano la vita personale di ogni detenuto, queste dinamiche hanno luogo a causa della natura coercitiva del carcere e della situazione di cattività nella quale la persona è inserita, come si è rilevato precedentemente le persone intervistate si soffermano prevalentemente sulle tensioni con gli agenti di custodia, anche se esse non rappresentano la totalità di tensioni che hanno luogo all'interno del carcere.
Riporto di seguito le parole in merito di Laura e di Cris che raccontano la situazione di aspra contrapposizione fra i detenuti ed i loro controllori, Laura: “C’erano brave persone e non, la maggior parte sotto la divisa hanno molti problemi, forse di inferiorità, e con la divisa acquistano un senso del potere,[…] Il carceriere diventa aguzzino, è peggio di chi punisce, non siamo in una società civile”, e Cris: “A Marassi e a Sanremo i rapporti con gli agenti erano tesi, ed essi si dimostravano pronti a provocare i detenuti, nei carceri calabresi invece gli agenti erano più rispettosi […] non riesci mai ad ambientarti perché le guardie non ti lasciano stare tranquillo”. Secondo Laura i rapporti di potere esistenti all’interno dell’istituto rovesciano i ruoli fra detenuti ed agenti, gli agenti approfittano della loro posizione e si pongono allo stesso livello se non ad un livello inferiore rispetto agli individui che controllano; anche Cris sottoscrive quest’interpretazione differenziando nel ricordo il comportamento degli agenti liguri da quello degli agenti calabresi ed affermando come sia continua la conflittualità esistente tra i due gruppi. Resta comunque indubbia la supremazia degli agenti nei confronti dei detenuti, nello scopo istituzionale di custodia e sicurezza spesso si intromettono delle pratiche che lasciano agli agenti, il braccio umano dell’amministrazione burocratica, ampia discrezionalità nel regolare i rapporti fra istituzione e detenuti, se saranno riscontrate violazioni alle procedure normative esse saranno sanzionate nei metodi e termini propri dell’istituzione.
Oltre ai conflitti con gli agenti di custodia i detenuti oppressi in una situazione fortemente degradante, interagiscono fra loro (oltre che nella dimensione solidale) anche attraverso una logica conflittuale, spesso sono portati a provare il loro valore di fronte alla totalità della popolazione detenuta che cercherà tramite il conflitto di comprendere che tipo di persona sia il detenuto/a chiamato in causa ( vedi Sykes, 1958, p. 77). L’aspetto conflittuale della detenzione è ben sottolineato in merito ai problemi fra detenuti dalle lucide parole di Clod, 44 anni detenuto per 270 giorni presso la Casa Circondariale di La Spezia, nelle sue parole appare anche un’altra interpretazione della conflittualità, “contrasti con persone particolarmente deturpate dalla situazione in cui vivevano, l’oppressione istituzionale, doversi imporre anche fra i detenuti. Il rapporto agente detenuto influenza automaticamente il rapporto fra detenuti (è difficile restare uniti senza potere) se le guardie vedono che stai bene, gli rode perché si mette in dubbio la loro assoluta supremazia del terrore”; C. sottolinea non solo i problemi con gli altri detenuti e ne specifica le cause attribuendole alla situazione e alle logiche dell’istituto, ma ci racconta anche un altro aspetto dinamico dei rapporti di potere all’interno del carcere: da un lato le guardie facendo leva sull’autorità che la società conferisce loro e sulla supremazia basata su rapporti espliciti di potere non tollerano di buon grado il detenuto che ha acquisito un suo equilibrio, ad esempio negoziando per sé spazi di autonomia all’interno delle attività offerte dagli addetti all’area del trattamento, o che grazie agli aiuti materiali pervenuti dall’esterno (cibo e vestiario) riesce a meglio tollerare il regime deprivante della “galera”, vedendo nell'adattamento dell'individuo al carcere una sorta di minaccia al regime di potere attraverso il quale controllano la massa dei detenuti; dall’altro lato capita che queste conquiste si riflettano negativamente sulla percezione che altri detenuti possono formarsi, in un sistema che lascia poco o nulla con cui gratificarsi all’essere umano, l’invidia e la gelosia crescono rapidamente creando situazioni di tensione fra i prigionieri. Come dice Clod “è difficile restare uniti senza potere”, a volte i detenuti con un grado minimo di voce in capitolo sulle loro esistenze, prendendo spunto dalle piccole differenze che vengono a differenziare un detenuto dall’altro, canalizzano le loro frustrazioni e i desideri di rivalsa causati dal regime degradante istituzionale verso i loro compagni.
Vorrei terminare questo paragrafo che punta a comprendere e descrivere come e perché un detenuto viva immerso in un contesto altamente conflittuale ed insicuro citando brevemente le parole di risposta date da due delle persone intervistate, queste parole dimostrano efficacemente come sia difficile condurre un’esistenza il più possibile quieta in un ambiente come la “galera”. La prima è Diana che alla mia domanda su che cosa avesse ritenuto essere importante durante l’esperienza detentiva risponde, “la sopravvivenza, il carcere è tanto dolore, tanta cattiveria, badi a sopravvivere", ed il secondo è Fabian, 25 anni detenuto per 4 anni, 1460 giorni presso la Casa circondariale di Genova Marassi che alla mia domanda su quali fossero stati i problemi vissuti in prigione risponde lapidariamente, “sopravvivere”.

1.4 Perdita della libertà ed autonomia individuale.

Come affermato in precedenza la vita del detenuto è regolata dalle imposizioni dell’amministrazione penitenziaria, essa ne organizza la vita quotidiana e ne stabilisce i ritmi, ogni attività corrisponde ad un dato orario e all’interno di uno schema prefissato, i detenuti vivono un’esistenza dove le sorprese sono rare ed ogni evento è largamente pianificato in anticipo; ad aggiungersi a questa condizione totalizzante, subentra un altro aspetto del regime carcerario difficilmente descrivibile a chi non ne ha provato gli effetti. Ai detenuti viene negata la possibilità di amministrare personalmente le proprie esigenze, essi non hanno appunto autonomia né nell’influire sulle decisioni in merito alle disposizioni circa la vita istituzionale a livello generale, né per quanto riguarda le scelte relative alla dimensione personale, per soddisfare la totalità delle loro esigenze devono fare affidamento al corpo di custodia o agli agenti dell’amministrazione per conoscere e far valere i loro diritti
( vedi Goffman, 1961, p. 69).
La perdita di autonomia dell'individuo detenuto è pressoché totale, la realtà detentiva implica che il detenuto perda la facoltà di gestire secondo criteri personali le proprie necessità, egli è assoggettato ai meccanismi imposti dall'amministrazione, e si può affermare che normalmente i punti di vista e le priorità dei detenuti non coincidano affatto con gli scopi e obbiettivi ritenuti prioritari dalla Direzione ( vedi Sykes, 1958, p. 74). Questo sistema è dunque fonte ulteriore di sofferenza in quanto il detenuto si accorge che la propria vita è regolata in base a disposizioni che spesso sono percepite come illogiche se rapportate alle sue strette esigenze quotidiane: le decisioni prese dalla Direzione secondo una logica finalizzata a mantenere efficiente il livello di sicurezza all'interno dello stabilimento (sicurezza necessaria al fine di raggiungere gli obbiettivi istituzionali secondari, come il trattamento che può aver luogo solo in un istituto dove l'ordine interno è efficacemente implementato), tendono a sottolineare la forte contrapposizione esistente tra controllori e controllati: i primi detengono il potere gestionale nella sua totalità ed i secondi ne subiscono gli effetti. Il controllo degli individui secondo canoni e procedure burocratiche comporta al detenuto un ulteriore senso di precarietà, infatti le regole e le effettive pratiche che gestiscono l'individuo durante la giornata all'interno di un istituto di pena fondano le proprie logiche sul controllo razionale delle persone, di conseguenza i prigionieri non solo delegano forzatamente la loro amministrazione a terzi, in aggiunta le logiche che governeranno le loro esistenze avranno come priorità non l'individuo, ma l'efficienza del suo controllo. Dopo aver delegato la propria gestione, in seguito all’intercessione della pena detentiva, il detenuto è relegato in una posizione numerica che lo caratterizza come parte di un sistema la cui solidità si costituisce e si rafforza su procedure burocratiche e quindi di natura depersonalizzante; secondo il principio dell'indifferenza burocratica infatti, eventi che sembrano importanti o vitali per le persone che sono alla base del gruppo sono visti con una maggiore mancanza di interesse man mano che si sale di un gradino verso l'alto. Le regole, i comandi, le decisioni che scendono verso le persone controllate non sono accompagnati da spiegazioni sulle basi del fatto che sono considerate “non pratiche” o portatrici di “ troppi problemi” (Sykes, 1958, p. 74); il detenuto dipende da un sistema che non gli attribuisce che secondariamente la considerazione che egli necessita in quanto essere umano, a parte l'assistenza che egli può trovare nel personale addetto a seguirne le problematiche psicologiche relative all'ambientamento, tutto il funzionamento del sistema contribuisce a rafforzare il suo senso di spaesamento e di insicurezza in relazione alle proprie sorti, le decisioni prese spesso non vengono spiegate ed al detenuto non rimane che accettare la situazione istituzionale, cercando di mantenere un territorio personale il più possibilmente intatto da queste procedure mortificanti.
Le parole di Shola, 28 anni detenuta presso la Casa circondariale di Genova Pontedecimo per un periodo di 7 anni, con un totale di 2485 giorni di detenzione, sono sintomatiche di questa frustrazione causata dal dipanarsi di pratiche che circuiscono la propria realizzazione individuale, negando la possibilità di disporre a piacere delle proprie risorse: “Non riesci a fare niente per te stessa, solo sofferenze senza dignità e lavaggio del cervello”. Il non poter far niente per se stessa implica appunto questo grado di separazione tra le attività che supportano la persona come autonoma e portatrice delle necessarie possibilità di auto controllo ascritte all'individuo portatore di diritti e le effettive possibilità operazionali lasciate al detenuto dall'amministrazione; la sofferenza per la perdita di dignità in questo caso si declina come perdita della potestà e controllo delle proprie azioni.
Come rilevato precedentemente, il detenuto/a vive nell’immediato contesto pratico questa perdita di autonomia in relazione alla dipendenza totale nei confronti degli agenti di custodia: per potere soddisfare le proprie necessità egli/ella deve chiedere il permesso e spesso – dicono gli ex detenuti intervistati - ciò che dovrebbe essere garantito per diritto è negato sulla base della priorità conferita alle logiche di sicurezza e del mantenimento del potere. Di questo parere sono le parole di Cris che racconta la generalità della sua esperienza in riguardo a questo senso di impotenza in questo modo: “non riesci mai ad ambientarti perché le guardie non ti lasciano stare tranquillo. Quando domandi qualcosa che è nei tuoi diritti domandare minacciano di farti un rapporto, quindi non c’è serenità, tutto diventa un odissea. Ho fatto 10 giorni di isolamento per un rapporto disciplinare, la guardia mi aveva rubato due pacchi di sigarette con un pretesto ed io le avevo detto se stava facendo il furbo, neanche dopo 2 ore dopo sono venuti 4 o 5 agenti e mi hanno portato in isolamento, lasciato in mutande per 10 giorni in inverno, se non c’era il lavorante che mi ha dato un giornale sul quale dormire avrei dovuto dormire sulla branda senza materasso, né coperte.”; secondo Cris nel regime totalizzante che vige all'interno del sistema carcerario il detenuto che domanda di far rispettare i propri diritti viene bollato disciplinarmente come insubordinato, come recalcitrante alla condivisione delle regole imposte: questo comporta a vari livelli la sua punizione, tramite rapporti disciplinari che inscrivendosi nel curriculum detentivo causano difficoltà nell'ottenere i benefici, o tramite punizioni di natura psicologica come l'isolamento o di natura fisica come le percosse. Entrambi hanno comunque lo scopo di smussare questa propensione del detenuto/a a non accettare passivamente ed in totum le pratiche di controllo alle quali è sottoposto: l'analogia con l'odissea descrive efficacemente quest'aspetto della detenzione, infatti per quanto riguarda le esigenze non considerate primarie dall'amministrazione il detenuto non può raggiungere quello di cui ha bisogno se non attraverso un periglioso percorso nel quale egli si affida alla volontà dei suoi controllori, come Ulisse affidò al mare la propria imbarcazione e la propria vita.
Inoltre, a seconda del periodo che una persona trascorre sotto questo regime privativo, l'influenza di questi meccanismi che delegittimano l'individuo come portatore di una propria volontà autonoma e performante perdono in certa misura la loro valenza artificiale e acquistano la parvenza di realtà naturale; questo ha delle conseguenze anche dopo la liberazione della persona: spesso infatti, e in maggior grado per i detenuti che hanno affrontato una lunga esperienza detentiva, si verifica una situazione di disagio al momento del reinserimento nella vita di tutti i giorni. Gli ex detenuti/e incontrano difficoltà a riadattarsi alla libertà della vita quotidiana, hanno difficoltà a ricomporre la propria immagine come persona autonoma che non deve chiedere il permesso per ogni singola necessità; questa sensazione è sottolineata nelle parole di Cinzia che afferma: “Per un po’ di tempo la libertà mi sembrava strana, poter far le cose di nuovo di mia volontà, poi tutto è ritornato normale”; la libertà percepita come strana indica l'adeguamento di Cinzia ad altri canoni di esistenza, quelli della detenzione, quando i canoni della libertà sono nuovamente ristabiliti è necessario del tempo affinché essi vengano nuovamente percepiti come naturali e costituiscano nuovamente la dimensione propria dell'agire individuale.

1.5 Perdita della libertà e trattamento penitenziario come meccanismo di potere.

Principalmente gli istituti di pena devono assolvere due obbiettivi istituzionali: la reclusione dei detenuti implementata attraverso l’utilizzo del corpo di custodia e la rieducazione degli individui reclusi, implementata attraverso il servizio degli addetti all’area così detta “trattamentale”, intesa comunemente come l’insieme delle attività formative e ricreative fornite da una determinata Amministrazione in un determinato istituto di pena; la quantità e qualità di queste attività differisce da istituto a istituto, in ogni prigione l'area trattamentale è declinata in base alle strutture disponibili, alla popolazione detenuta e alle risorse previste per lo svolgimento di questi servizi suppletivi rispetto ai servizi di sicurezza e custodia.
Il trattamento è pertanto finalizzato a formare/consolidare nell'individuo le attitudini sociali e civili che in un certo grado si suppone egli non possegga o abbia perduto; esso, agendo sotto un profilo finalizzato alla risocializzazione, punta ad integrare la formazione personale del detenuto: attraverso i corsi professionali, l’insegnamento di mestieri e competenze che egli potrà sfruttare a suo favore al momento della riammissione a pieno titolo nella società, e cercando di stimolare attraverso l'attività scolastica e lavorativa le attitudini a rispettare le norme civili di convivenza, ( vedi Sykes, 1958, p. 34).
Queste attività si inseriscono necessariamente nel contesto istituzionale della prigione, gli addetti all'area del trattamento sono sottoposti alle priorità e vincolati dalle esigenze stabilite dalla Direzione, ed è proprio sotto l'ottica di questa relazione che l’indagine sottolinea alcuni aspetti in merito a ciò che è comunemente designato come trattamento penitenziario. Il trattamento penitenziario risulta essere l'azione che l'istituzione ha sul detenuto sia dal punto di vista custodialistico che dal punto di vista trattamentale, gli effetti che questo trattamento ha sull'individuo devono essere esaminati nella loro totalità, come una somma di fattori e non come due fattori separati; questa somma, nella quale la sudditanza strutturale dell'area del trattamento alle necessità di custodia rappresenta un fenomeno che caratterizza l'economia interna dei poteri istituzionali, è necessaria ai fini di comprendere complessivamente gli effetti reali che questo trattamento può raggiungere sugli individui ai quali si applica.
Un individuo detenuto all’interno di un’istituzione totale come il carcere si confronta quotidianamente con i meccanismi e le strutture amministrative e di controllo che regolano lo svolgimento delle attività trattamentali; tale azione ha effetto su due livelli distinti, il grado nel quale i primi permettono le seconde determina gli effetti che l’istituzione penitenziaria ottiene sull’individuo ( vedi Sykes, 1958, p. 36).
In base dunque alla reazione che l’individuo sviluppa nei confronti dell’ambiente oppressivo che lo circonda si possono definire gli effetti che la detenzione produce sulla sua concezione del sé, le attività trattamentali influenzano l’evoluzione del percorso detentivo inserendosi nella cornice offerta dall’istituzione e ciò che ogni detenuto trae dal rapporto con questa duplice relazione costituisce in sostanza l’effetto che l’azione istituzionale raggiunge su ogni individuo recluso al suo interno.
Durante lo svolgimento delle interviste si è delineata con chiarezza la posizione che i detenuti hanno sviluppato rispetto ai meccanismi entro i quali si realizza l’azione trattamentale: più della metà degli intervistati, dodici persone su venti, ha tenuto a precisare come all’interno dell’istituto sia attribuita fondamentale centralità alle logiche di sorveglianza e di custodia, gli effetti dunque che le disposizioni in merito hanno sul benessere e l’integrità di ogni individuo vengono identificati come il tratto costitutivo dell’azione istituzionale, la rieducazione e le attività ad essa connesse svolgono una funzione integrativa inserita nel contesto privativo che regola la vita all’interno di un istituto di pena; per quanto riguarda dunque l’azione risocializzante perseguita dagli addetti al trattamento nei confronti della popolazione detenuta si può affermare che essa non ottenga la totalità dei risultati che auspica in quanto il forte contesto restrittivo presente inficia strutturalmente la possibilità che i detenuti percepiscano le attività formative/ ricreative come vettori di un reale cambiamento e non come alternative da sfruttare per alleviare il peso della detenzione.
Dal copioso materiale acquisito in merito a questo aspetto della detenzione emergono con efficacia le parole di Gianfranco “la galera non ti porta a dire che hai sbagliato, questo lo sai già da solo. La legge non è uguale per tutti. La punizione dovrebbe insegnarti a vivere nella maniera giusta dandoti un buon esempio, non dovrebbe essere solo sofferenza”; attraverso queste parole G. comunica di condividere in linea generale la funzione rieducativa attribuita alla punizione, egli aggiunge però una nota di critica al modo in cui l’istituzione persegue nel detenuto lo sviluppo di attitudini finalizzate alla riammissione nella società, la prigione dovrebbe produrre infatti dei meccanismi relazionali il più possibile adeguati ai valori che intende inculcare, tramite l’esempio fornito potrebbe richiedere un adeguamento dei detenuti ai canoni relazionali proposti e dimostrare che nonostante l’intercessione della sanzione detentiva l’individuo punito è ancora ritenuto degno di attenzione e rispetto. In contrasto con questa constatazione, l’esempio quotidiano fornito dall’istituzione ai detenuti è descritto in termini di sofferenza, dal momento dunque che l’elemento principale della realtà penitenziaria risulta essere una condizione estremamente distante dalla normalità della vita sociale, egli ritiene quantomeno improbabile che possa avvenire un cambiamento positivo nei comportamenti dell’individuo detenuto.
Sia Shola che Fabian esprimono lo stesso parere in merito al senso di frustrazione vissuto: se Shola racconta “Lì dentro non c’è nessuna rieducazione, la loro rieducazione è vedere la paura di rispondere, non sapere se dire A o B non sapendo quale risposta loro si aspettano da te. L’educazione si basa su chi ha potere e chi no, su chi è una persona e chi no”, Fabian conferma “La parola riabilitazione non ha senso riferita al carcere dove qualsiasi rapporto è basato sulla paura, se sbagli con una guardia sei punito, l’unica educazione è la paura, nemmeno con i cani ci si comporta così”. Le gerarchie di potere all’interno del carcere concorrono a definire il metodo attraverso il quale l’istituzione si rapporta al detenuto, secondo le posizioni espresse da queste parole la netta prevalenza dei meccanismi degradanti rispetto agli effetti dei meccanismi socializzanti costituisce la totalità della dimensione penitenziaria.
Le relazioni sono esplicitamente basate sulla demarcazione fra i detentori del potere e la popolazione detenuta; l’istituto si mostra al detenuto principalmente attraverso le pratiche autoritarie che ne circoscrivono le attività ed il corpo di sorveglianza durante l’interazione con i detenuti basa la sua autorità e giustifica le sue azioni tramite il riferimento alla differenza di status che separa gli amministratori dagli amministrati. Questa normalità definita in termini di continua relazione allo stigma sociale che sottende alla punizione porta l’individuo detenuto ad esacerbare la propria prospettiva di analisi; recluso e continuamente in contatto con il disavanzo di potere che ne specifica la condizione il detenuto legge nella sua condizione solo gli aspetti mortificanti del regime carcerario, all’interno della sua ottica non trova spazio significativo nessun altra dimensione.
La detenzione spinge l’individuo verso i momenti più bassi della sua esistenza, il trattamento penitenziario declinato in questi termini spinge il/la detenuto/a ad assumere un atteggiamento di difesa e distacco nei confronti dell’istituzione, le prevaricazioni imposte e prodotte dal regime detentivo bloccano gli sforzi tentati in direzione rieducativa e conducono l’individuo ad accentuare il risentimento nei confronti dell’autorità punitiva ed in senso lato della società intera che ne avvalla le pratiche e le tattiche repressive a scapito delle mire risocializzanti; sono di questo avviso sia Clod che afferma: “Sotto l’aspetto educativo mi ha fatto diventare carogna verso certe persone e più buono verso altre; ha accentuato le mie caratteristiche nel bene e nel male” sia Luis che sancisce laconicamente: “ esci dal carcere con meno sentimenti, perché sei abbandonato a te stesso e diventi più cattivo”.
In base ai risultati ottenuti nelle interviste è possibile affermare che l’individuo uscito dal carcere e reinserito nella vita sociale porta con se le esperienze collezionate durante il regime di detenzione: queste esperienze lungi dall’aver prodotto un riadattamento ai modelli relativi alla vita in libertà hanno spesso ottenuto - a giudicare dalle parole degli intervistati - gli effetti diametralmente opposti ed hanno condotto l’ex detenuto/a ad un atteggiamento nei confronti della società più ostile di quanto fosse al momento dell’ingresso; questa situazione si è detta discendere dall’atteggiamento istituzionale nei confronti della popolazione detenuta: nonostante quindi all’interno del sistema penitenziario siano implementate attività finalizzate al recupero, il loro valore effettivo viene ad essere neutralizzato dalla concomitanza delle azioni tese esplicitamente alla mortificazione del detenuto, ed implicitamente dai meccanismi atti a colpevolizzare e definire l’individuo punito esclusivamente in termini stigmatizzanti:
“se il regime carcerario fosse [...] equamente amministrato, capace di prendersi cura degli altri e umano, ci sarebbe la possibilità per i detenuti di essere, almeno in parte, educati alla legalità [...] Più spesso, però, il regime istituzionale [...] in nome di un’efficiente gestione amministrativa, lascia un certo spazio a forme di ingiustizia, arbitrarietà, indifferenza o brutalità che portano inevitabilmente a sentimenti di risentimento e opposizione da parte dei reclusi” ( Garland, 1990, p. 304).

1.6 Perdita della liberta e ipotesi di reinserimento.

In questo paragrafo si affronta la questione della detenzione da una prospettiva più ampia, considerati acquisiti gli effetti di ciò che è stato definito come trattamento penitenziario e riassumendone in parte gli aspetti più significativi si cercherà di mettere in luce gli effetti complessivi che la detenzione comporta: partendo da questo accostamento complessivo alla realtà della reclusione si propone una riflessione sulle conseguenze che, dal punto di vista degli/le ex detenuti/e, tale sanzione comporta al momento del suo termine, al momento dunque nel quale il detenuto espiata la condanna si appresta ad essere reinserito nel mondo sociale dal quale era stato escluso.
Durante il periodo trascorso all’interno del carcere l’individuo recluso entra a contatto con un modello sociale che, appoggiandosi sul meccanismo burocratico, sugli intenti custodiali e la continua sorveglianza, sul confronto stigmatizzante instaurato tra il corpo di custodia e la popolazione detenuta, contribuisce a sostenere un’immagine degradante della persona condannata; questa nuova immagine con la quale il/la detenuto/a è costretto a rapportarsi provoca un conflitto con l’autorappresentazione del detenuto/a in termini di persona degna di rispetto nonostante l’ingiunzione della sanzione detentiva.
A questa constatazione generale sugli effetti del percorso detentivo vengono ad aggiungersi gli effetti di mortificazione innescati dal sistema penitenziario, in particolare le conseguenze legate alla perdita della libertà come momento nel quale il detenuto esperisce una relativa deprivazione delle sue potenzialità come essere umano, dalla mancanza di autonomia decisionale, al sentimento di precarietà e insicurezza causato dai rapporti conflittuali che vigono nell’istituto, alla deprivazione nel senso più materiale del termine, come esclusione della possibilità di usufruire di certi servizi e di possedere un numero limitato di beni.
L’azione congiunta di questi meccanismi non si riduce al solo periodo di detenzione, infatti si è rilevato che in una certa misura (declinata in base alla durata del periodo trascorso in istituto) gli effetti descritti continuino la loro azione destabilizzante anche dopo il rilascio, seguendo gli/le ex detenuti/e nei loro percorsi individuali di reinserimento. Questi effetti vengono incrementati dal fatto che il periodo post detentivo è spesso caratterizzato da un ritorno dell’ex detenuto presso l’ambiente dal quale proveniva, spesso cioè la situazione che il/la ex detenuto/a deve affrontare al momento del reinserimento è la medesima condizione di marginalità che si era lasciato alle spalle.
Per ovvi motivi ciò che la detenzione lascia dentro le persone che ne hanno avuto esperienza non può essere facilmente descritto, in base comunque al materiale raccolto nelle interviste è possibile avanzare un’ipotesi riguardo alle conseguenze individuali della reclusione.
L’esperienza detentiva influenza la vita futura del detenuto principalmente in due modi: da un punto di vista personale, la persona la cui concezione di sé è stata messa ripetutamente alla prova attraverso i meccanismi di potere che regolano l’esistenza del detenuto, manifesta un alto grado di diffidenza nei confronti delle relazioni interpersonali. Questa diffidenza è prodotto del modello relazionale che la cornice istituzionale sostiene implicitamente ed esplicitamente; da un punto di vista più materiale invece, le difficoltà che un/una ex detenuto/a incontra al momento della liberazione sono da ricondurre al principio di stigma sociale implicato nel avere scontato la sanzione detentiva.
Per corroborare quest’analisi del periodo post detentivo, confronto alcuni spunti emersi dalle interviste prese in esame: parole che lasciano pochi dubbi in merito alla realtà vissuta ed alla realtà che si prospetta al momento del rilascio; sebbene questi resoconti dunque, rappresentino un punto di vista parziale rispetto alla totalità del discorso penale, la loro importanza si basa nell’essere resoconti dei primi attori delle circostanze descritte. Porto in esempio le parole di Angela ed affido alla loro eloquenza il compito di inquadrare con efficacia le problematiche che la detenzione instaura nel proseguire la vita dopo la liberazione: “Il carcere è la rovina di una persona, fa trascorre e perdere parte di una vita rinchiusa. Ti rimane un senso di morte, di paura, come se fossi stata morta per un periodo. Come una paranoia che ti rimane addosso, la paura di essere giudicata dalle persone che non sanno in realtà quello che hai passato”. Come si è detto precedentemente ciò che un individuo ha tratto da un’esperienza estrema come la detenzione non può essere compreso facilmente né tanto meno descritto, questa incomunicabilità dell’esperienza diventa una discriminante profonda fra chi l’ ha vissuta e non la può descrivere e chi non avendola vissuta non la può comprendere; la sensazione che Angela descrive è una sensazione comune alla maggior parte delle persone intervistate, il senso di paranoia, la paura del giudizio sono prodotti inevitabili della detenzione intercorsa, la paranoia può essere ricondotta alla sensazione di precarietà vissuta, mentre la paura del giudizio può essere ricondotta ai meccanismi di stigma sociale che come un’impronta indelebile segnano il futuro degli/le ex carcerati/e. Il concetto di stigma sociale, percepito come un marchio dagli/le ex detenuti/e è stato elaborato anche da Clod e da Laura; entrambi infatti hanno riscontrato al momento del rilascio un atteggiamento ambiguo nei loro confronti e soprattutto per quel che riguarda la ricerca di un impiego questo stigma sembra agire come una forza disincentivante all’assunzione. Nelle parole di Clod: “Ti rimane come un marchio addosso e se non vuoi più sentirtelo devi emigrare, se vuoi rimanere devi avere molta serenità e accettare l’ignoranza delle persone e delle istituzioni” e nelle parole di Laura: “nessuno ti da mai più lavoro, ti senti un marchio sulla pelle e se ti danno lavoro sei pienamente ricattabile”, “ti rimane un marchio addosso, ti senti un marchio sulla pelle,”, sono frasi che aiutano a comprendere parte dell’ambiguità con le quali le persone sono solite accogliere gli/ le ex detenuti/ e lo stigma sembra risiedere effettivamente nella concezione che entrambi hanno di se stessi. Se questo meccanismo era vissuto in maniera conflittuale durante l’esperienza nel carcere ed era fonte di tensione nel senso che i detenuti non si equiparavano all’immagine che di loro l’istituto forniva, al momento della liberazione questa stessa immagine sembra essere diventata una parte inscindibile di queste persone, il marchio è sentito addosso, sulla pelle, il rilascio sembra dunque in un certo senso aver portato a termine i processi cominciati durante la detenzione. Al momento della liberazione ha dunque conclusione il processo simbolico significativo iniziato al momento dell’ingresso in carcere: le difficoltà che gli/ le ex detenuti/le incontrano al momento del reinserimento lavorativo palesano il livello più grave di questo handicap: la comunità non accetta gli ex detenuti, ed essi trovano l’impossibilità di proseguire una vita secondo i canoni della società che li ha condannati e della quale hanno scontato la condanna; a conferma di questa difficoltà cito le parole di Claudio M., 62 anni detenuto presso la Casa circondariale di Genova Marassi, presso la Casa circondariale di la Spezia, presso la Casa di reclusione di Saluzzo e presso la sezione penale della Casa circondariale di Torino, le Vallette, per la durata di 8 anni e 7 mesi, con un totale di 3125 giorni di detenzione, e di Carmen: “I problemi ci sono se quando esci non riesci a trovarti un lavoro, è questa la vera condizione che ti porti dietro, il problema è di riagganciare e continuare con la vita, a parte aver perso la libertà la vera difficoltà è quando sei fuori, un’altra galera si ha inizio”; Claudio conferma che, come un meccanismo circolare, la prigione sussegue a se stessa e le difficoltà nel ricongiungersi con la società sono descritte da C. come costituire un’altra “ galera”. Carmen invece tiene a sottolineare un altro aspetto del reinserimento: “In tutti i campi, iniziando dal lavoro, se non ti aiutano gli assistenti sociali con le cooperative, dove paga la regione e ti fai un mazzo tanto per 300 euro al mese, hanno interesse ad assumerti perché lavori come uno normale, ma non ti pagano come gli altri”, i lavori offerti agli/le ex detenuti/e sono spesso offerti da cooperative sociali che forniscono un impiego per persone socialmente deboli che non potrebbero disporre di un’altra situazione. Essendo spesso in una condizione di emergenza economica ed essendo quindi vincolati a questi canali lavorativi, gli/le ex detenuti/e devono accettare condizioni retributive ampiamente non soddisfacenti.
La dimensione lavorativa, fondamentale per essere riammessi a pieno titolo nella nostra società, sembra un traguardo difficile da raggiungere, l’esperienza diventa ancora più difficile considerando la situazione dei detenuti stranieri ai quali, a causa del reato commesso, non viene rinnovata la documentazione per risiedere e lavorare nel paese: nelle parole di Cinzia infatti questa situazione è descritta consapevolmente: “ se sei straniero vai dentro e perdi i documenti, dovrebbe poter essere separato il reato dal potere avere i documenti, anche perché quando esci non puoi neanche trovarti un lavoro come tutti gli altri, non hai più la possibilità di vivere onestamente”. Per quanto riguarda l’effetto dello stigma al momento della liberazione del detenuto straniero è possibile individuare un meccanismo circolare che agisce sull’immagine del cittadino straniero prodotta dalla nostra società: a differenza di quel che succede agli ex detenuti italiani, egli non subisce solo ed esclusivamente l’effetto stigmatizzante dovuto alla sanzione detentiva, allo straniero viene tout court negata la possibilità di un reinserimento; un meccanismo circolare agisce dunque a livello normativo inscrivendo lo straniero, sin dal suo arrivo in Italia, in un perenne circuito dimostrativo, lo stigma sociale è conferito in primis dalla sua alterità, al suo essere differente rispetto al mondo che lo accoglie e solo in un secondo momento è integrata dallo stigma della detenzione.
La possibilità che egli ha di risiedere sul suolo italiano è legata al possesso di un lavoro e di un domicilio che rispetti dei canoni minimi di vivibilità, egli deve attestare di possedere dei “requisiti minimi” per poter soggiornare e nel documento di soggiorno che l’autorità italiana rilascia sono certificati i motivi e la durata di tale soggiorno; la sua permanenza in Italia può essere dunque definita precaria dal momento che egli deve rinnovare tale permesso ogni 9 mesi se lavora stagionalmente ed ogni anno se ha un lavoro subordinato a tempo determinato, proprio la temporaneità di questi permessi può suggerire come lo straniero sia considerato come un “ soggetto in prova” , la cui permanenza dipende dal modo in cui si protrae. La situazione dello straniero è strettamente connessa al suo comportamento, quando questo comportamento è sanzionato ed intercorre una pena detentiva, diventa per lui impossibile ricostruire un’esistenza all’interno dei canoni legali; privato della documentazione necessaria per tentare una reintegrazione nella società egli/ella è relegato/a forzatamente nel mondo degli esclusi, quando la sua permanenza diventa stabile e non modificabile all’interno di questo mondo sommerso il meccanismo circolare che ho descritto ha terminato il suo corso.
Per terminare questo paragrafo conclusivo si rileva la testimonianza di due persone che hanno vissuto a vario titolo l’esperienza detentiva. Queste sono le testimonianze raccolte in merito alla loro esperienza del periodo post detentivo: Shola: “ Cerco di vivere come ero prima di quest’esperienza. Sono confusa, perché non so più cosa la gente vuole da me, non so più come comunicare, non so nemmeno più come ci si diverte, mi sembra di essere sempre al centro dell’attenzione, sono particolare, diversa, non mi sento più libera di parlare, le persone sono diverse, non mi fido più”, Fabian: “ Rimani per tutta la vita traumatizzato, frastornato, non si può dimenticare, se riesci la metti da parte, perché la vita va avanti. Al danno psicologico si somma un danno materiale, perché nonostante si abbia espiato la propria condanna quando esci e sei senza documenti ti trovi sempre tra la parete e le sbarre”. La sofferenza della detenzione rimane inscritta nel futuro delle persone che ne hanno avuto esperienza, un senso pervasivo di diffidenza verso il prossimo ne accompagna le sorti: la punizione espiata continua a seguire i propri condannati, la “ galera” resasi eterea, senza più sbarre né controlli, diventa un potere discriminante all’interno dei meccanismo di inclusione ed esclusione sociale.

Conclusioni

Dall’analisi delle interviste emerge – nelle prospettive degli accounts provenienti dal “vissuto” - l’enfasi circa una profonda contraddizione che pervade il sistema penitenziario: la punizione avrebbe nel nostro ordinamento anche l’obiettivo “riabilitativo” di condurre il detenuto verso un percorso introspettivo di autocritica; egli, durante l’isolamento dal contesto nel quale ha sviluppato le proprie attitudini, dovrebbe raggiungere un ravvedimento morale, condannare le proprie azioni ed inserirsi nel contesto morale della società che lo punisce, proprio per mostrargli le opportunità di orientarsi verso un percorso di reintegrazione morale, a cui il condannato potrà partecipare nei termini propri e non più passando attraverso i comportamenti devianti che ne avevano caratterizzato la vita prima dell’ingiunzione della carcerazione. Il quadro che emerge dagli accounts raccolti mostra invece la tendenza ad esperire la situazione presentata come diametralmente opposta: i detenuti riscontrano che la pena risulta spesso sproporzionata rispetto agli errori compiuti, e quindi non tendono a ricongiungersi ad una istituzione statale che avvertono come repressiva, bensì rischiano un ulteriore e più radicale distacco: una distanza raccontata con lucidità, quasi a sottolineare la disillusione di chi, avendo ormai subito la realtà detentiva, non ha bisogno di sentire sprecare più parole a tal riguardo.
Sembrerebbe dunque nelle parole degli intervistati che, invece di fornire esempi di interazione civile e responsabile, utili per il futuro di cittadini che, pur avendo sbagliato, possono tornare ad inserirsi a pieno titolo nella società, la prassi della pena detentiva finisce per fallire nel suo intento di riabilitazione, lasciandosi percepire più come “carnefice” che non come organismo funzionale allo sviluppo e al cambiamento.
La detenzione comporta una notevole mole di sofferenza, delle quali la privazione della libertà rappresenta solo l’aspetto più conosciuto. Gli aspetti sottolineati, la perdita delle relazioni affettive, la mancanza di beni e servizi, la perdita di sicurezza personale e la perdita dell’autonomia individuale, devono essere interpretati nella loro concomitanza nella pena detentiva, perché la loro incidenza in termini complessivi contribuisce a rendere la detenzione un meccanismo strutturalmente degradante, che, a causa delle pratiche sulle quali si fondamenta, tende a compromettere l’istanza riabilitativa della quale dovrebbe essere portatrice.
La detenzione è per la società contemporanea la punizione principale attribuibile ad una molteplicità di reati di diversa natura e di diversa gravità; se questa modalità punitiva dovrà essere ancora assunta in futuro come la pratica principale del nostro ordinamento penale, diventa di necessaria importanza al fine di una sua migliore comprensione attivare dei processi comunicativi che dal sistema penitenziario si sviluppino verso la società civile e viceversa, al fine di rendere la totalità del corpo sociale consapevole delle pratiche punitive che sottoscrive. Colmare questa reciproca distanza, portare a condividere esperienze, altrimenti incomunicabili diventa fondamentale affinché da questa necessaria condivisione si costituisca la base minima per poter mettere in discussione le attuali pratiche penali nel nostro paese.

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