A Pieve S. Stefano si arriva da nord prendendo a Cesena la E45 e facendo molta attenzione a buche e avvallamenti che mettono gli ammortizzatori a dura prova. Non appena si esce dalla Romagna e un attimo prima di entrare in Umbria, siamo in provincia di Arezzo e usciamo a Pieve. Piuttosto vivace in generale, come si vede dal sito del comune http://www.pievesantostefano.net/, la cittadina nell’ultimo ventennio è assurta a notorietà per essere diventata la sede di un’importante operazione dedicata alla memoria. Cito le parole con cui l’Archivio dei diari si presenta:
Dal 1984 Pieve Santo Stefano, quasi al confine tra Toscana, Umbria e Romagna, ha innalzato ai quattro punti cardinali del suo perimetro, sulle strade che vi accedono, un cartello giallo sotto quello della toponomastica ufficiale: "Città del diario". La cittadina ospita infatti nella sede del municipio, un Archivio pubblico, che raccoglie scritti di gente comune in cui si riflette, in varie forme, la vita di tutti e la storia d’Italia: sono diari, epistolari, memorie autobiografiche. Il piccolo borgo di questa Pieve dell’Appennino tosco emiliano aveva avuto distrutto dalla guerra quasi tutto l’abitato: tra i pochi edifici rimasti in piedi, il palazzo comunale, a forma di L come un libro aperto sul leggio, con gli stemmi delle casate alle pareti. Quarant’anni dopo la fine della guerra, in un’ala di questo edificio, è sorta una casa della memoria: una sede pubblica per conservare scritti di memorie private. L’iniziativa ha attirato l’attenzione di studiosi e giornalisti anche fuori d’Italia. L’Archivio, ideato e fondato da Saverio Tutino, serve non solo a conservare, come un museo, brani di scrittura popolare: vuole far fruttare in vario modo la ricchezza che in esso viene depositata. Dopo averlo chiamato retoricamente "banca della memoria", l’abbiamo definito "vivaio", considerando che in esso gli scritti del passato rivivono, germogliando di nuovo ad ogni stagione, e creando nuove forme d’attenzione alla diaristica (http://www.archiviodiari.it/).
All’edizione 2006 del premio annesso all’Archivio, parteciparono, risultando finalisti, Pino Mainieri e la sua compagna Ginetta Fino, con un epistolario degli anni ’70 quando Pino, in servizio militare in Sicilia, prese parte alle lotte democratiche dei soldati che rifiutavano un militarismo, persistenza d’altri tempi. Pino e Ginetta misero in seguito la loro passione politica nel teatro fino a quando Pino, vittima di un incidente stradale, nel 1996 entrò in un coma da cui lentamente uscì per avviarsi, sempre molto lentamente, lungo un processo di graduale recupero e riacquisizione di facoltà fisiche, psichiche e cognitive, processo che ancor oggi dura non senza problemi ma anche non senza successi. Racconta Ginetta che, dopo essere salita assieme a Pino sul palco della manifestazione per la presentazione dei finalisti, la notte stessa si mise al tavolino e buttò giù il primo abbozzo di quello che immediatamente comprese avrebbe dovuto essere una messa in scena: il ritorno di Pino su un palcoscenico a rievocare/recuperare elementi autobiografici smarriti nel trauma. Al termine di un impegnativo percorso, il lavoro è andato in scena al Jolly di Castel S. Pietro nell’aprile di quest’anno, con la regia di Corrado Nuzzo e Maria Di Biase. E successivamente, visionato il promo, i responsabili di Pieve S. Stefano hanno deciso di mettere a disposizione della coppia il palcoscenico del loro teatro in occasione dell’edizione del premio di quest’anno. Ed eccoci a sabato scorso, 15 settembre. Scenografia essenziale ma non semplice. Oltre alla coppia, uno schermo su cui al momento opportuno passano scene di materiali video conservati da Ginetta, mentre in altre occasioni passano materiali audio, sempre dagli archivi della coppia. Eccezionalmente l’attore Lello Lombardi ha prestato la sua voce per registrare tre lettere di Pino che si ascoltano durante lo spettacolo. Lo schema è elementare ma ricco di ricadute. “Ti ricordi Pino…?”
E quindi il rovello per ricostituire la memoria dell’incontro, dell’innamoramento, della forzata lontananza, del matrimonio, della nascita del figlio, tutto sullo sfondo di avvenimenti degli anni ’70 e ’80 che un certo tipo di spettatore riconosce e ai quali non rimane indifferente. L’ultima parte è dedicata all’incidente, al buco nero e alla risalita. Spiazzante una battuta verso la fine. Pino ha sempre risposto “Non mi ricordo” – da cui il titolo del lavoro – a tutte le sollecitazioni di Ginetta, talvolta stupendosi che le cose siano andate proprio così e talvolta cavandosela con una battuta. Ma nel momento in cui suona l’Internazionale, alza il pugno. E Ginetta: «L’unica cosa che ti ricordi è quella che tutti gli altri hanno dimenticato?» Non c’è dubbio che il paradosso è di quelli che colpiscono; e citato in una recensione, dovrebbe suggerire a chi è invitato a vedere questo lavoro l’idea che si tratta, certo, di una forma di teatro di narrazione, nel quale tuttavia il peso della vicenda personale dei protagonisti va a bilanciarsi con la capacità dello spettatore di ripercorrere simmetricamente un pezzo della sua stessa storia, facendo vibrare per risonanza le proprie corde. A Pieve questa risonanza c’è stata. In particolare mi ha colpito il commento di uno spettatore, a cui ho rubato l’idea per il titolo di questa mia recensione. «E’ la prima volta che un comunista mi ha fatto piangere!» Lo spettacolo andrà in scena qui da noi il 23 e 24 ottobre al teatro ITC di S Lazzaro.