Mi piacciono i film in grado di produrre puro godimento estetico, e qui, di godimento per gli occhi, ce n'è davvero tanto: le immagini della città proibita, spiazzi e interni, scalinate e vetrate, sono impareggiabili.
La maestria visiva di Zhang Yimou l'abbiamo scoperta vent'anni fa, con "Sorgo rosso", e poi "Ju Dou" e "Lanterne rosse", e di recente mi sono molto divertito con "Hero e La foresta dei pugnali volanti". Stavolta, invece, sono rimasto freddo. L'abbacinante alluvione di colori e suoni, la coreografica gestione di varie scene di massa, mi sembrano celare una povertà di ispirazione, gli ormai soliti combattimenti "wuxia" si susseguono come un balletto di carne e sangue, in un silenzio rotto solo dal cozzare delle lame. Ma, infine, dei personaggi e della loro sorte non mi importava nulla.
Segreti e tradimenti, incesti e avvelenamenti, gli intrighi all'interno della famiglia imperiale si susseguono senza sedimentare psicologie. I tre fratelli, possibili eredi al trono, sono fotocopie sbiadite, le motivazioni dell'imperatrice (Gong Li, sempre meravigliosa) sembrano parodie di qualche dramma shakespiriano, e la somma crudeltà dell'imperatore - che sorseggia tranquillamente davanti ai cadaveri dei figli - risulta quasi ridicola.
Ciò che rende il film un'esperienza interessante sono il rigido rituale che si snoda all'interno dei corridoi del palazzo, le vestizioni sgargianti, armi e armature iperrealisti, gli eserciti di arredatori che spazzano via il sangue e ricostruiscono il tappeto di fiori, gli impassibili primi piani che preannunciano duelli mortali.
Ci viene detto che la trama è ambientata poco prima dell'anno Mille, durante la dinastia Tang, ma queste vicende - ecco il destino della città proibita - avvengono in un tempo immobile, anzi fuori dal tempo. E in questa sontuosa rappresentazione del Potere, si finisce per annegare nelle metafore, chiedendosi inutilmente cosa ci sia della Cina di ieri nella Cina di oggi.