Muore Garibaldi, nasce la repubblica

2 giugno: doppia ricorrenza

"adesso sapeva chi era stato ucciso a Donnafugata, in cento altri luoghi, nel corso di quella nottata di vento lercio: una neonata: la buonafede"
1 giugno 2007 - Carlo Loiodice

Giuseppe Garibaldi Il 2 giugno 1946 nacque la repubblica italiana. Sessantaquattro anni prima, il 2 giugno 1882, era morto a Caprera Giuseppe Garibaldi, che degli ideali repubblicani era stato propugnatore, pur nei limiti dei compromessi che ritenne di dover sottoscrivere con casa Savoia in nome dell'Italia. Era nato a Nizza nel 1807; ed è tutto sommato strano come questo bicentenario venga celebrato in tono minore. Sulle contraddizioni del garibaldinismo citerò la novella "Libertà" di Giovanni Verga, il film "Bronte, cronaca di un massacro" che dalla stessa ricavò il regista Florestano Vancini (1972), e anche la canzone "Garibaldi", dal disco degli Stormy six. "L'unità" (1972). Ma mi è parso giusto riportare un passo dal "Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, poiché qualche riflessione più pacata e profonda può suscitarcela, anche a proposito del modo con cui ancora in Italia intendiamo la democrazia e il momento elettorale.
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Il giorno del Plebiscito era stato ventoso e coperto, e per le strade del paese si erano visti aggirarsi stanchi gruppetti di giovanotti con un cartellino recante tanto di “sì” infilato nel nastro del cappello. Fra le cartacce e i rifiuti sollevati dai turbini di vento, cantavano alcune strofe della Bella Gigugin trasformate in nenie arabe, sorte cui deve assuefarsi qualsiasi melodietta vivace che voglia esser cantata in Sicilia. Si erano anche viste due o tre “facce forestiere” (cioè di Girgenti), insediate nella taverna di zzu Menico, dove decantavano le “magnifiche sorti e progressive” di una rinnovata Sicilia unita alla risorta Italia. Alcuni contadini stavano muti ad ascoltarli, abbrutiti com’erano, in parti eguali, da un immoderato uso dello “zappone” e dai molti giorni di ozio coatto ed affamato. Scaracchiavano e sputavano spesso, ma tacevano; tanto tacevano che dovette essere allora (come disse poi don Fabrizio) che le “facce forestiere” decisero di anteporre, fra le arti del Quadrivio, la Matematica alla Rettorica. Verso le quattro del pomeriggio il Principe si era recato a votare, fiancheggiato a destra da padre Pirrone, a sinistra da don Onofrio Rotolo; accigliato e pelli-chiaro procedeva lento verso il Municipio e spesso con la mano si proteggeva gli occhi per impedire che quel ventaccio, carico di tutte le schifezze raccolte per via, gli cagionasse quella congiuntivite cui era soggetto; e andava dicendo a padre Pirrone che senza vento l’aria sarebbe stata uno stagno putrido ma che, anche, le ventate risanatrici trascinavano con sé molte porcherie. Portava la stessa redingote nera con la quale due anni fa si era recato a ossequiare a Caserta quel povero Re Ferdinando che, per fortuna sua, era morto a tempo per non esser presente in questa giornata flagellata da un vento impuro, durante la quale si poneva il suggello alla sua insipienza. Ma era poi stata insipienza davvero? Allora tanto valeva dire che chi soccombe al tifo muore per insipienza. Ricordò quel re affaccendato ad apporre argini al dilagare delle cartacce inutili: e ad un tratto si avvide quanto inconscio appello alla misericordia si fosse manifestato in quel volto antipatico. Questi pensieri erano sgradevoli come tutti quelli che ci fanno comprendere le cose troppo tardi, e l’aspetto del Principe, la sua figura, divennero tanto solenni e neri che sembrava seguisse un carro funebre invisibile. Soltanto la violenza con la quale i ciottolini della strada venivano schizzati via dall’urto rabbioso dei piedi rivelava i conflitti interni; è superfluo dire che il nastro della sua tuba era vergine di qualsiasi cartello, ma agli occhi di chi lo conoscesse un “sì” e un “no” alternati s’inseguivano sulla lucentezza del feltro. Giunto in una saletta del Municipio dove era il luogo di votazione, fu sorpreso vedendo come tutti i membri del seggio si alzassero quando la sua statura riempì intera l’altezza della porta; vennero messi da parte alcuni contadini arrivati prima, e così, senza dover aspettare, don Fabrizio consegnò il proprio “sì” alle patriottiche mani di don Calogero Sedara. Padre Pirrone invece non votò affatto, perché era stato attento a non farsi iscrivere come residente nel paese. Don Nofrio, lui, obbedendo agli espressi desideri del Principe, manifestò la propria monosillabica opinione circa la complicata questione italiana: capolavoro di concisione che venne compiuto con la medesima buona grazia con la quale un bambino beve l’olio di ricino. Dopo di che tutti furono invitati a “prendere un bicchierino” su, nello studio del Sindaco; ma padre Pirrone e don Nofrio misero avanti buone ragioni di astinenza l’uno, di mal di pancia l’altro, e rimasero abbasso. Don Fabrizio dovette affrontare il rinfresco da solo. Dietro la scrivania del Sindaco fiammeggiava un ritratto di Garibaldi e (di già) uno di Vittorio Emanuele, fortunatamente collocato a destra; bell’uomo il primo, bruttissimo il secondo: ambedue però affratellati dal prodigioso rigoglio del loro pelame che quasi li mascherava. Su un tavolinetto basso un piatto con biscotti anzianissimi che defecazioni di mosche listavano a lutto, e dodici bicchierini tozzi colmi di rosolio: quattro rossi, quattro verdi, quattro bianchi: questi in centro; ingenua simbolizzazione della nuova bandiera, che venò di un sorriso il rimorso del Principe. Scelse per sé il liquore bianco perché presumibilmente meno indigesto, e non, come si volle dire, come tardivo omaggio al vessillo borbonico. Le tre varietà di rosolio erano del resto egualmente zuccherose, attaccaticcie e disgustevoli. Si ebbe il buon gusto di non brindare. E comunque, come disse don Calogero, le grandi gioie sono mute. Venne mostrata a don Fabrizio una lettera delle autorità di Girgenti che annunziava ai laboriosi cittadini di Donnafugata la concessione di un contributo di duemila lire per la fognatura, opera che sarebbe stata compiuta entro il 1961, come assicurò il Sindaco, inciampando in uno di quei lapsus dei quali Freud doveva spiegare il meccanismo molti decenni dopo; e la riunione si sciolse. Prima del tramonto le tre o quattro bagascette di Donnafugata (ve ne erano anche lì, non raggruppate, ma operose nelle loro aziende private) comparvero in piazza col crine adorno di nastrini tricolori per protestare contro l’esclusione delle donne dal voto; le poverine vennero beffeggiate via anche dai più accesi liberali e furono costrette a rintanarsi. Questo non impedì che il Giornale di Trinacria quattro giorni dopo facesse sapere ai Palermitani che a Donnafugata “alcune gentili rappresentanti del bel sesso hanno voluto manifestare la propria fede inconcussa nei nuovi fulgidi destini della Patria amatissima, ed hanno sfilato nella piazza fra il generale consenso di quella patriottica popolazione.” Dopo, il seggio elettorale venne chiuso, gli scrutatori si misero all’opera, ed a notte fatta venne spalancato il balcone centrale del Municipio e don Calogero si rese visibile con panciera tricolore e tutto, fiancheggiato da due inservienti con candelabri accesi che peraltro il vento spense senza indugio. Alla folla invisibile nelle tenebre annunziò che a Donnafugata il Plebiscito aveva dato questi risultati: Iscritti 515; votanti 512; sì 512; no zero. Dal fondo scuro della piazza salirono applausi ed evviva dal balconcino di casa sua, Angelica, insieme alla cameriera funerea, batteva le belle mani rapaci; vennero pronunziati discorsi: aggettivi carichi di superlativi e di consonanti doppie rimbalzavano e si urtavano nel buio da una parte all’altra delle case; nel tuonare dei mortaretti si spedirono messaggi al Re (a quello nuovo) ed al Generale; qualche razzo tricolore si inerpicò dal paese al buio verso il cielo senza stelle. Alle otto tutto era finito, e non rimase che l’oscurità come ogni altra sera, da sempre. Sulla cima di Monte Morco tutto era nitido adesso, la luce era grande; la cupezza di quella notte però ristagnava ancora in fondo all’anima di don Fabrizio. Il suo disagio assumeva forme tanto più penose in quanto più incerte: non era in alcun modo originato dalle grosse questioni delle quali il Plebiscito aveva iniziato la soluzione: i grandi interessi del Regno (delle Due Sicilie), gl’interessi della propria classe, i suoi vantaggi privati uscivano da tutti quegli avvenimenti ammaccati ma ancora vitali. Date le circostanze non era lecito chiedere di più: il disagio non era di natura politica e doveva avere radici più profonde, radicate in una di quelle cagioni che chiamiamo irrazionali perché seppellite sotto cumuli di ignoranza di noi stessi. L’Italia era nata in quell’accigliata sera a Donnafugata; nata proprio lì, in quel paese dimenticato, altrettanto quanto nella ignavia di Palermo e nelle agitazioni di Napoli; una fata cattiva però, della quale non si conosceva il nome, doveva esser stata presente; ad ogni modo era nata e bisognava sperare che avrebbe potuto vivere in questa forma: ogni altra sarebbe stata peggiore. D’accordo. Eppure questa persistente inquietudine qualcosa significava; egli sentiva che durante quella troppo asciutta enunciazione di cifre, come durante quei troppo enfatici discorsi, qualche cosa, qualcheduno era morto, Dio solo sapeva in quale andito del paese, in quale piega della coscienza popolare. Il fresco aveva disperso la sonnolenza di don Ciccio, la massiccia imponenza del Principe aveva allontanato i suoi timori; ora, a galla della propria coscienza, emergeva soltanto il dispetto, inutile certo ma non ignobile. In piedi, parlava in dialetto e gesticolava, pietoso burattino che aveva ridicolmente ragione. “Io, Eccellenza, avevo votato no. No, cento volte no. So quello che mi avevate detto: la necessità, l’unità, l’opportunità. Avrete ragione voi: ma io di politica non me ne sento. Lascio queste cose agli altri. Ma Ciccio Tumeo è un galantuomo, povero e miserabile, coi calzoni sfondati (e percuoteva sulle sue chiappe gli accurati rattoppi dei pantaloni da caccia), e il beneficio ricevuto non lo aveva dimenticato; e quei porci in Municipio s’inghiottono la mia opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. Io ho detto nero e loro mi fanno dire bianco ! Per una volta che potevo dire quello che pensavo, quel succhiasangue di Sedara mi annulla, fa come se non fossi mai esistito, come se fossi niente immischiato con nessuno, io che sono Francesco Tumeo La Manna fu Leonardo, organista della Madre Chiesa di Donnafugata, padrone suo mille volte e che gli ho anche dedicato una mazurka composta da me quando è nata quella... (e si morse un dito per frenarsi) quella smorfiosa di sua figlia!” A questo punto la calma discese su don Fabrizio, che finalmente aveva sciolto l’enigma: adesso sapeva chi era stato ucciso a Donnafugata, in cento altri luoghi, nel corso di quella nottata di vento lercio: una neonata: la buonafede [...].