Alzare il velo sui matrimoni forzati

Parte la prima ricerca del dipartimento Pari Opportunità su un fenomeno sommerso, che però esiste anche in Italia: 33 casi censiti in un anno nella sola Emilia Romagna

«Silvia era appena maggiorenne e da poco diplomata. I genitori le hanno detto: andiamo a casa che la nonna non sta bene, però siccome all’interno della scuola avevano parlato del rischio di un matrimonio forzato, non si è fidata. A fronte dell’insistenza da parte della famiglia, che ha anche giurato sul Corano, è partita e poi si è trovata in un incubo: sotto la minaccia della propria vita, in Pakistan, ha dovuto accettare di sposare un cugino nell’ambito di schemi famigliari e riti ancestrali». 

Silvia è stata salvata dal sindaco di Novellara Raul Daoli , che racconta oggi la sua storia. Novellara conta fino a 50 nazionalità le più numerose sono quelle cinesi, dell’area del Maghreb, Pakistan, India, Ucraina ed Est Europa, più o meno interessate al fenomeno dei matrimoni forzati. Silvia vive ancora in una casa rifugio, sotto copertura e sta cercando di costruirsi una vita e di trovare un lavoro. Daoli, una serie di progetti di integrazione avviati nelle scuole e nei luoghi di lavoro, non se l’è sentita di non intervenire, quando il caso ha squillato al suo cellulare.  

I matrimoni forzati, in cui manca il consenso dei coniugi, di uno o entrambi, sono sanzionati dalla dichiarazione dei diritti umani (articolo 16) del 1948, da una raccomandazione del Consiglio d’Europa del 2005, dalla Cedaw e dalla Convenzione di Istanbul (che l’Italia ha ratificato a giugno). In Italia sono ancora un fenomeno sommerso, e le cronache fanno affiorare ogni tanto un caso: l’ultimo una ragazza afgana residente a Bologna in fuga dal marito violento, viene soccorsa alla stazione da un carabiniere di passaggio. 

  

Dove sono i dati?  

Non ci sono statistiche ufficiali, né riconoscimento del problema, quindi protocolli di intervento, e servizi a cui le donne (la maggioranza a soffrire questa pratica) si possono rivolgere. La piattaforma Cedaw, che raccoglie le Ong che hanno redatto il rapporto ombra sull’applicazione della carta, riferisce che il governo italiano all’ Onu ha risposto che i matrimoni forzati non sono un fenomeno che ci riguarda e che i casi sono rarissimi. Anche se la situazione potrebbe cambiare. Il dipartimento Pari opportunità sta per lanciare, entro ottobre, uno studio del fenomeno in Italia. 

Daoli riferisce che nei 9 anni del suo mandato a Novellara, 14 mila abitanti in provincia di Reggio Emilia, gli è capitato sette volte che ragazze si siano rivolte direttamente a lui per chiedere aiuto. Come nel caso di Silvia: «Non me la sono sentita di lasciarla da sola. Vedo queste domande come frutto di un seme che abbiamo piantato. Ho allertato l’ambasciata italiana in Pakistan, anche se in via ufficiale non ci sono strumenti e bisogna appoggiarsi su forme simulate. Ho chiesto di agevolare un visto di rientro per la ragazza. Ho trovato l’alleanza col nuovo marito giovane, e siamo riusciti a farli rientrare entrambi in Italia». Ma una volta a casa le cose cambiano: «Il marito ha incominciato a non voler che la ragazza uscisse di casa, a riprenderla, a dirle come doveva vestirsi, ad obbligarla ad andare in giro solo accompagnata. A un certo punto la ragazza ha chiesto di fuggire».  

 

Dal Pra (Trama di terre): «Gli interventi sono discrezionali»  

Restiamo in Emilia, che con il suo alto tasso di immigrazione è terra di frontiera per lo studio del problema. L’associazione Trama di terra è stata l’unica a raccogliere in modo pilota dei dati. Nel 2008 con la ricerca “Per forza non per amore” hanno registrato 33 casi (3 erano uomini) nella sola Emilia. Racconta la presidente Tiziana Dal Pra: «Cosa sarebbe successo se la ragazza afgana di Bologna non avesse incontrato un carabiniere che fa bene il suo lavoro? Non ho notizie, posso solo sperare che sia in una casa protetta. C’è ancora l’idea che si tratti di affari di famiglia, c’è sottovalutazione, devi trovare la sensibilità giusta, nel vigile, nell’insegnante e comunque il passo successivo non è più facile. Dicono che mancano le risorse o che il tema non rientra nelle loro competenze. Non ci sono linee guida che contemplino i matrimoni forzati, è tutto discrezionale». C’è anche un problema di età: «La ragazza se maggiorenne, non studia né lavora e non è già inserita in un percorso di tutela, allo scadere del permesso di soggiorno rischia l’espulsione».  

Pra descrive anche il contesto: «Le denunce incominciano ad arrivare nei primi anni delle superiori. Con le mestruazioni, lo sviluppo, si rompe lo schema sociale, cambia il rapporto famigliare e tra pari e viene deciso un matrimonio combinato. Se non lo accetti diventa forzato». Quale soluzione allora? «Bisogna fare come per i casi di violenza domestica: formazione degli operatori, prevenzione e accoglienza ma scollegando il caso dalla denuncia perché non è facile denunciare la propria famiglia».  

C’è il costante problema del finanziamento delle case rifugio, così come per i casi di violenza domestica e stalking. È quello che chiedono le ragazze, di essere messe al sicuro, mentre la famiglia continua a cercarle e minacciarle, anche di morte. «Veniamo chiamate anche da 3-4 regioni distanti dalla nostra – conclude Dal Pra - ma ci mettono in difficoltà, non abbiamo le risorse per accogliere tutte le ragazze».  

 

Il caso danese e quello inglese  

Altri paesi, come Gran Bretagna e Svizzera, hanno deciso di introdurre leggi di contrasto e hanno programmi di intervento. In Gran Bretagna l’unità speciale creata dal governo (Forced marriage unit) ha ricevuto da giugno ad agosto 2012, nel periodo di chiusura delle scuole, il più rischioso, in cui le ragazze vengono portate all’estero per essere sposate, 400 segnalazioni. All’anno i casi sono 1500. 

Ma anche fosse un solo caso si dovrebbe poter intervenire, sottolinea Daniela Danna ricercatrice dell’Università di Milano. Per lei il punto di partenza deve essere la volontà delle donne: «Si chieda a loro cosa vogliono fare, si cerchi di offrirgli delle alternative. Ci sono casi diversi, famiglie dove è possibile negoziare una scelta, altre dove non è possibile e dove i figli vengono rapiti e non tornano più. Il consenso al matrimonio è un diritto umano». Danna racconta il caso danese in cui il ministero per l’integrazione supporta ragazzi delle comunità di immigrati a parlare di amore, sessualità, onore nelle scuole: «Sono punto di riferimento per far emergere il problema, sono giovani che si sono trovati ad avere contrasti con le famiglie d’origine». Poi c’è il caso inglese, «dove si è arrivati alla terza generazione di immigrati e si sono sviluppate metodologie specifiche. Ma lì c’è lo ius soli, questi ragazzi sono cittadini inglesi, e lo Stato se ne sente responsabile: mobilita ambasciate e unità di crisi quando viene segnalata una sparizione». Per Danna è importante evitare di seguire il caso francese, in cui tutte le ragazze figli di immigrati sono state considerate a rischio, affinché non aumenti la xenofobia. 

 

Scaricabarozzi (Action aid): «Un gioco al ribasso»  

«Finché non si riconosce il problema dei matrimoni forzati è giocare al ribasso: non si stima la vera violenza. È come con la violenza domestica: le donne non la riconoscono, le istituzioni non rispondono, molte richieste di aiuto cadono nel vuoto. L’emersione parte dalle istituzioni» spiega Rossana Scaricabarozzi di Action Aid. L’Ong è stata in prima linea nel chiedere al governo una raccolta dati e, come avviene già per le donne vittime di tratta, che si possa chiedere un permesso di giorno se si è in fuga da un matrimonio forzato. Cosa che attualmente non è possibile. 

Da Roma torniamo a Novellara. Daoli è sempre alle prese con l’emergenza: «Si lavora attingendo a fondi straordinari. Ma per me è importante mostrare che le istituzioni non si fanno prendere in giro: sappiamo distinguere tra il diritto individuale, soggettivo di una persona, e la favola della comunità, della diversità culturale. Siamo in attesa che ci sai uno scatto in avanti di questi gruppi, di presa di distanza da certi comportamenti. Ancora non lo vedo, ci sono solo belle parole. Investire sul caso singolo, dal punto di vista politico ha un valore testimoniale molto forte che mi auguro che nella seconda e terza generazione di immigrati provochi fiducia e cambiamento». E sul tanto popolare tema dell’assenza di risorse il sindaco emiliano traccia un paragone: «Se penso a quanto costa la tangenziale, 2 milioni a chilometro! Qui si tratta di spendere quanto 10 metri di pista ciclabile. Saremo attorno ai 10 mila euro». 

LAURA PREITE, 10/09/13, Lastampa.it