Contro le donne

In famiglia, a scuola, in strada, in caserma. Ogni giorno nel mondo le donne sono vittime di violenza. Nessuno ne parla. Ma è un problema di diritti umani e civili che riguarda tutti.

Negli Stati Uniti, dove uno stupro è denunciato ogni 6,2 minuti e una donna su cinque è vittima di uno stupro o di un tentato stupro nel corso della vita, la terribile storia della ragazza violentata e uccisa su un autobus di New Delhi, il 16 dicembre 2012, è stata presentata come un fatto eccezionale. Eppure proprio in quei giorni si cominciava a parlare del presunto stupro di un’adolescente priva di sensi aggredita dai giocatori della squadra di football del liceo di Steubenville, in Ohio. Dalle nostre parti gli stupri di gruppo non sono rari. Qualche esempio: a novembre sono stati condannati alcuni dei venti uomini che hanno stuprato una bambina di 11 anni a Cleveland, in Texas, mentre l’istigatore dello stupro di gruppo di una sedicenne a Richmond, in California, è stato condannato a ottobre e quattro uomini che avevano stuprato una ragazza di 15 anni vicino a New Orleans sono stati condannati ad aprile. I sei che hanno stuprato una ragazza di 14 anni a Chicago nell’autunno del 2012, invece, sono ancora latitanti.

Non ho dovuto cercare queste notizie: sono su tutti i mezzi d’informazione, anche se nessuno pensa a collegarle e a spiegare che siamo di fronte a uno schema ricorrente. E invece la violenza contro le donne è uno schema ricorrente ampio, radicato, terribile e sistematicamente ignorato. A volte, se il caso coinvolge una celebrità o presenta qualche particolare scabroso, se ne parla di più, ma come fosse un’anomalia, mentre la valanga di notizie di secondo piano sulle donne vittime di violenza negli Stati Uniti, in altri paesi, in tutti i continenti compreso l’Antartide, formano una sorta di rumore di sottofondo. Se gli stupri sugli autobus vi interessano più degli stupri di gruppo, allora ci sono lo stupro di una disabile mentale su un autobus di Los Angeles a novembre e il rapimento di una ragazza di 16 anni autistica su un treno regionale a Oakland, in California (è successo quest’inverno, e il rapitore l’ha stuprata per due giorni di seguito) e uno stupro di gruppo con diverse vittime su un autobus a Città del Messico il 19 dicembre. Mentre scrivevo questo articolo ho letto che un’altra donna era stata rapita su un autobus in India e stuprata tutta la notte dal conducente e da cinque suoi amici, ai quali i fatti di Delhi dovevano essere sembrati una gran figata. In questo paese e su questa terra gli stupri e le violenze contro le donne non si contano, eppure quasi nessuno ne parla come di una questione di diritti civili o umani, o come di una crisi, o anche solo di uno schema ricorrente. La violenza non ha razza, classe, religione né nazionalità, ma ha un genere. Chiariamo subito una cosa: anche se gli autori di questi crimini sono quasi tutti uomini, non vuol dire che tutti gli uomini siano violenti. La maggior parte non lo è. E anche gli uomini, naturalmente, subiscono violenze, spesso per mano di altri uomini, e qualunque morte violenta, qualunque aggressione è orribile. Ma l’argomento che voglio trattare ora è l’epidemia di violenze maschili contro le donne commesse da persone molto vicine e da estranei.

Tutto tranne il genere

Potrei andare avanti all’infinito. Parlare dell’aggressione e dello stupro di una donna di 73 anni a Central park, a Manhattan, sei mesi fa, o del recente stupro di una bambina di quattro anni e di una signora di 83 anni in Louisiana, o del poliziotto di New York arrestato a ottobre del 2012 perché sospettato di voler rapire, stuprare, cuocere e mangiare una donna, qualunque donna (non nutriva un odio personale, a differenza probabilmente dell’uomo di San Diego che ha ucciso e cotto sua moglie a novembre e del tizio di New Orleans che ha ucciso, smembrato e cotto la sua ragazza nel 2005). Questi crimini sono fuori del comune, ma potremmo parlare delle aggressioni quotidiane, perché anche se negli Stati Uniti viene denunciato solo uno stupro ogni 6,2 minuti, il numero reale probabilmente è cinque volte superiore. Vuol dire che negli Stati Uniti potrebbe esserci quasi uno stupro al minuto. Stiamo parlando di decine di milioni di vittime. Potremmo parlare degli stupri nei licei, nei college e nelle università, nei confronti dei quali le autorità mostrano spesso un’agghiacciante apatia, com’è successo nel liceo di Steubenville, alla Notre Dame university, all’Amherst college e in tanti altri casi. Potremmo parlare dell’esplosione di stupri, aggressioni e molestie sessuali nell’esercito statunitense: secondo il segretario alla difesa Leon Panetta ci sarebbero state 19mila aggressioni sessuali contro soldate nel solo 2010, e la stragrande maggioranza degli aggressori l’ha fatta franca.

Ma lasciamo perdere le violenze sul luogo di lavoro, spostiamoci nelle case. Ogni anno più di mille uomini uccidono le loro compagne ed ex compagne, il che significa che ogni tre anni il numero delle vittime supera quello delle vittime dell’11 settembre, eppure nessuno dichiara guerra a questo tipo di terrorismo. Per dirla altrimenti: le 11.766 donne vittime di omicidi domestici dall’11 settembre a oggi sono più delle vittime dell’11 settembre e di tutti i soldati statunitensi uccisi durante la “guerra al terrorismo” messi insieme. Se parlassimo di questi reati e del perché sono tanto frequenti, dovremmo parlare anche dei profondi cambiamenti necessari in questa società, in questo paese, in quasi tutti i paesi. Dovremmo parlare di mascolinità, di ruoli maschili, forse di patriarcato, e sono cose di cui non parliamo. Invece sentiamo dire che negli Stati Uniti gli uomini commettono omicidi-suicidi (circa dodici alla settimana) per colpa della crisi economica, ma poi li commettono anche quando l’economia è in crescita. O che in India quegli uomini hanno ucciso la ragazza sull’autobus perché i poveri ce l’hanno con i ricchi, ma sempre in India altri casi di stupro sono legati al fatto che i ricchi sfruttano i poveri. E poi ci sono le spiegazioni classiche: disturbi mentali, sostanze stupefacenti e, per gli atleti, i traumi cranici. L’ultima trovata è l’avvelenamento da piombo, che avrebbe causato gran parte di queste violenze, solo che entrambi i sessi sono avvelenati e uno dei due commette la maggior parte delle violenze. Per spiegare l’epidemia di violenza si tira in ballo tutto tranne il genere, tutto tranne quello che sembra il più ampio schema di spiegazione.

Quando un professore della Washington state university ha scritto che negli Stati Uniti le stragi le commettono soprattutto uomini bianchi, i commentatori, in gran parte ostili, si sono soffermati sulla parola “bianchi”. È raro sentir dire quello che una ricerca medica, per quanto aridamente, ha evidenziato: “Diversi studi indicano che il fatto di essere un uomo è un fattore di rischio di comportamenti criminali violenti proprio come l’essere esposti al fumo di sigaretta prima della nascita, avere dei genitori antisociali e appartenere a una famiglia povera”. Lo schema ricorrente salta agli occhi. Potremmo definirlo un problema globale, se consideriamo l’epidemia di aggressioni, molestie e stupri a piazza Tahrir, che ha tolto alle donne la libertà celebrata durante la primavera araba, o della persecuzione delle donne indiane nella sfera privata e pubblica (dal cosiddetto eve teasing – le aggressioni sessuali – all’immolazione delle vedove), o dei “delitti d’onore” nell’Asia meridionale e in Medio Oriente, o di come il Sudafrica sia diventato una capitale mondiale dello stupro, con una stima di 600mila stupri nel 2012, o di come lo stupro sia stato usato come tattica e “arma” di guerra in Mali, in Sudan e nella Repubblica Democratica del Congo, come era già successo nell’ex Jugoslavia, o della frequenza degli stupri e delle molestie in Messico e del femminicidio a Ciudad Juárez, o della negazione dei diritti fondamentali delle donne in Arabia Saudita e della miriade di aggressioni sessuali di cui sono vittime le lavoratrici domestiche immigrate in quel paese, o di come la reazione al caso Dominique Strauss-Kahn negli Stati Uniti abbia svelato l’impunità riservata a lui e ad altri in Francia, ed è solo per mancanza di spazio che non parlerò del Regno Unito, del Canada, dell’Italia (con quell’ex presidente del consiglio noto per le sue orge con delle minorenni), dell’Argentina, dell’Australia e di tanti altri paesi.

Il diritto di ucciderti

Ma forse siete stanchi delle statistiche, quindi parliamo di un fatto preciso, avvenuto nella mia città il 7 gennaio 2013, uno dei tanti fatti di questo tipo segnalati dai mezzi d’informazione locali a gennaio: “Una donna è stata pugnalata dopo aver respinto le avance di un uomo mentre camminava nel quartiere Tenderloin di San Francisco nella tarda serata di lunedì, ha dichiarato oggi un portavoce della polizia. La vittima, 33 anni, stava camminando per strada quando un estraneo l’ha avvicinata, ha spiegato l’ufficiale di polizia Albie Esparza. Quando la donna l’ha respinto, l’uomo si è alterato, ha colpito la donna al viso e l’ha pugnalata al braccio”. Per quell’uomo, la vittima prescelta non aveva diritti né libertà, mentre lui aveva il diritto di controllarla e di punirla. E questo ci ricorda che la violenza è innanzitutto autoritaria.

Comincia dalla premessa: io ho il diritto di controllare la tua vita. L’omicidio è la forma estrema dell’autoritarismo, quella in cui qualcuno si arroga il diritto di decidere se vivrai o morirai, il massimo controllo che una persona possa esercitare sull’altra. Ed è così anche quando l’altra “obbedisce”, perché il desiderio di controllo nasce da una rabbia che l’obbedienza non può placare. Dietro questo comportamento possono esserci paure e senso di fragilità, ma rimane un arrogarsi il diritto di infliggere sofferenza e perfino morte all’altra persona. È una disgrazia per gli autori e per le vittime. Tornando al caso di cronaca nella mia città, fatti simili succedono spessissimo. A me è capitato varie volte quando ero più giovane, a volte nella variante “minacce di morte”, spesso nella variante “fiumi di oscenità”: un uomo abborda una donna mosso dal desiderio e al tempo stesso rabbiosamente pronto a essere respinto. La rabbia e il desiderio sono inseparabili, formano un intreccio che minaccia sempre di trasformare l’eros in thanatos, l’amore in morte, a volte in senso letterale. È un sistema di controllo.

Per questo tante vittime di omicidi domestici sono donne che hanno osato lasciare il loro partner. Per questo tante donne sono in trappola, e anche se l’aggressore del 7 gennaio, o l’autore di un violento tentativo di stupro nel mio quartiere il 5 gennaio, o l’autore di un altro stupro da queste parti il 12 gennaio, o l’uomo di San Francisco che il 6 gennaio ha dato fuoco alla sua ragazza perché aveva rifiutato di fare la lavatrice, o l’uomo che è appena stato condannato a 370 anni di carcere per alcuni stupri particolarmente brutali commessi nel 2011, anche se tutti questi uomini potrebbero essere definiti dei marginali, le stesse cose le fanno gli uomini ricchi, famosi e privilegiati. A settembre il viceconsole giapponese a San Francisco è stato incriminato con dodici capi di accusa per violenze coniugali e aggressione con un’arma letale, e lo stesso mese, nella stessa città, l’ex compagna di Mason Mayer (fratello dell’amministratrice delegata di Yahoo, Marissa Mayer) testimoniava in tribunale: “Mi ha strappato gli orecchini e le ciglia e mi ha sputato in faccia, dicendomi quanto ero spregevole. Ero a terra, in posizione fetale, e quando provavo a muovermi mi stringeva più forte i fianchi con le ginocchia e mi schiaffeggiava”. Secondo il San Francisco Gate, “Mayer le ha sbattuto ripetutamente la testa sul pavimento, strappandole ciocche di capelli e dicendole che non sarebbe uscita viva dall’appartamento a meno che lui non l’avesse portata sul Golden gate bridge ‘dove ti potrai buttare o ti butterò giù io’”. Mason Mayer ha ottenuto la condizionale.

L’estate scorsa un uomo ha violato il divieto di avvicinamento alla moglie che lo aveva lasciato, sparando a lei e ad altre sei donne nel centro benessere in cui lavoravano, nella periferia di Milwaukee, ma dato che c’erano solo quattro cadaveri, in un anno pieno di stragi spettacolari, la cosa non ha colpito i mezzi d’informazione (e ancora non abbiamo parlato del fatto che, delle sessantadue sparatorie di massa registrate negli ultimi trent’anni negli Stati Uniti, solo una è stata opera di una donna, e visto che ci siamo quasi due terzi di tutte le donne vittime di armi da fuoco sono uccise dai loro partner o ex partner). “What’s love got to do with it”, si chiedeva Tina Turner, il cui ex marito Ike una volta disse: “Sì, la picchiavo, ma non più di quanto un uomo normalmente picchi la moglie”. Una donna è picchiata ogni nove secondi negli Stati Uniti. Avete letto bene: non ogni nove minuti, ogni nove secondi. È la prima causa di ferite tra le donne americane.

Secondo il Center for desease control, dei due milioni di donne ferite ogni anno, mezzo milione ha bisogno di cure mediche e circa 145mila passano una notte in ospedale, e vi risparmio i particolari sui successivi interventi odontoiatrici. Negli Stati Uniti i mariti sono anche la causa principale di morte tra le donne incinte. “In tutto il mondo le donne tra i quindici e i quarantaquattro anni hanno più probabilità di essere uccise o menomate dalla violenza maschile che dal cancro, la malaria, la guerra e gli incidenti automobilistici messi insieme”, scrive Nicholas D. Kristof, una delle poche firme note ad affrontare spesso l’argomento. Lo stupro e altri atti di violenza (fino all’omicidio), così come le minacce di violenza, sono il fuoco di sbarramento che alcuni uomini aprono nel loro tentativo di controllare alcune donne, e la paura di questa violenza limita molte donne in modi di cui non si rendono più conto, e di cui non parla quasi nessuno.

Esistono delle eccezioni: nell’estate del 2012 qualcuno mi ha raccontato di un corso in cui gli studenti di un college dovevano spiegare come si proteggevano dai rischi di stupro. Le ragazze avevano descritto i mille modi in cui cercavano di essere vigili, riducevano i loro contatti con il mondo, prendevano precauzioni e, di fatto, pensavano di continuo allo stupro. I ragazzi avevano ascoltato con la bocca spalancata. Per un attimo l’abisso tra i loro mondi era diventato visibile. Di solito, però, non se ne parla. A un certo punto in rete ha girato un elenco, “Dieci consigli per mettere fine agli stupri”, il classico messaggio che le ragazze ricevono spesso, ma con un approccio inedito. Uno dei consigli era: “Porta un fischietto! Se temi di aggredire qualcuno ‘per sbaglio’, potrai darlo alla persona con cui ti trovi e lei chiamerà aiuto”. Per quanto divertente, l’elenco mette in luce un dato terribile: questo tipo di raccomandazioni in genere carica tutto il peso della prevenzione sulle spalle delle potenziali vittime, dando per scontata la violenza. Qualcuno mi spiega perché i college passano più tempo a dire alle ragazze come sopravvivere alle aggressioni che a dire all’altra metà dei loro studenti di non aggredire le donne? Ormai le minacce di violenza sessuale sono frequenti anche online. Alla fine del 2011 l’opinionista britannica Laurie Penny scriveva: “A quanto pare, un’opinione è la minigonna di internet. Averne una e mostrarla è un po’ come chiedere a una massa amorfa e quasi interamente maschile che modo vorrebbe stuprarti, ucciderti e pisciarti addosso. Questa settimana, dopo una lunga serie di minacce particolarmente pesanti, ho deciso di rendere pubblici alcuni di quei messaggi su Twitter, e sono stata subissata di risposte. Molti non riuscivano a credere che ricevessi messaggi così pieni di odio, e molti altri hanno cominciato a raccontarmi le loro storie di molestie, intimidazioni e abusi” (Internazionale 927, 8 dicembre 2011).

Nelle comunità di giochi online le donne vengono molestate, minacciate ed escluse. Anita Sarkeesian, una critica femminista canadese che ha documentato questo fenomeno, ha ricevuto molta solidarietà ma anche, come spiegava una giornalista, “una nuova ondata di minacce personali e davvero violente. C’è chi ha provato a piratare i suoi account e un tizio dell’Ontario ha addirittura creato un gioco online in cui l’utente può prendere a pugni l’immagine di Anita. E dopo qualche pugno si vedono apparire lividi e ferite”. Tra questi giocatori e i taliban che, nell’ottobre del 2012, hanno tentato di uccidere Malala Yousafzai, 14 anni, colpevole di aver difeso il diritto all’istruzione delle donne pachistane, esiste solo una diferenza di grado. In entrambi i casi degli uomini vogliono zittire e punire delle donne che chiedono libertà di espressione, potere e diritto di partecipazione. Benvenuti in Maschistan.

I diritti degli stupratori

Il fenomeno non è solo pubblico, privato o online. È radicato nel nostro sistema politico e nel nostro ordinamento giuridico che, prima delle battaglie femministe, praticamente non riconosceva il reato di violenza domestica, né tanto meno le molestie sessuali, lo stalking, lo stupro commesso da un uomo con cui si aveva appuntamento, da un conoscente o dal marito, e che in alcuni casi ancora mette sotto processo la vittima invece dell’aggressore, come se solo le educande potessero essere aggredite o credute. Come abbiamo scoperto durante la campagna elettorale del 2012, è anche radicato nella mente e nella bocca dei politici statunitensi. Ricorderete il fiume di assurdità sparate da alcuni repubblicani tra l’estate e l’autunno dell’anno scorso, cominciando dalla celebre affermazione di Todd Akin secondo cui una donna sa come non rimanere incinta durante uno stupro. All’inizio del 2013, i repubblicani del congresso hanno rifiutato di reintrodurre la legge sulla violenza contro le donne perché erano contrari alle tutele che offriva alle donne immigrate, transgender e native americane. A proposito di epidemie: una donna nativa americana su tre subisce uno stupro o un tentativo di stupro nel corso della vita, e nelle riserve l’88 per cento di questi stupri è commesso da uomini non nativi che sanno di poter sfuggire alle incriminazioni dei tribunali tribali. I repubblicani vogliono anche spazzare via i diritti riproduttivi, dal controllo della nascita all’aborto, come hanno già fatto in vari stati negli ultimi dieci anni. Ovviamente per “diritti riproduttivi” s’intende il diritto delle donne di disporre del proprio corpo. Come abbiamo già detto, la violenza contro le donne è una questione di controllo. E se da un lato le indagini sui casi di stupro brillano per la loro lentezza, dall’altro gli stupratori che mettono incinta una donna possono esercitare la potestà genitoriale in trentuno stati.

Naturalmente anche le donne sono capaci di cattiverie di ogni tipo e possono commettere crimini violenti, ma se parliamo di violenza nella cosiddetta guerra dei sessi lo squilibrio è plateale. A differenza del precedente direttore (uomo) del Fondo monetario internazionale, l’attuale direttore (donna) non aggredirà un’impiegata di un albergo di lusso; nell’esercito statunitense le ufficiali di alto grado, a differenza dei colleghi uomini, non sono accusate di aggressioni sessuali; ed è difficile immaginare delle giovani atlete che, come hanno fatto i giocatori di football di Steunbenville, urinano su dei ragazzi privi di conoscenza, e ancor meno che li violentano e se ne vantano su YouTube e Twitter.

Non mi risulta che in India delle donne si siano riunite per aggredire sessualmente un uomo su un autobus fino a farlo morire, o che in Egitto branchi di donne terrorizzino gli uomini a piazza Tahrir, o che esista un equivalente materno dell’11 per cento di stupri commessi da padri e patrigni. Il 93,5 per cento dei detenuti nelle carceri statunitensi non sono donne, e se molti di loro non dovrebbero stare dietro le sbarre, è giusto che i violenti ci stiano, almeno fino a quando non avremo trovato un modo migliore di gestire la violenza, e quindi loro stessi. Nessuna pop star donna ha sparato alla testa di un ragazzo dopo averlo portato a casa sua, come ha fatto il produttore discografico Phil Spector (oggi fa parte di quel 93,5 per cento per l’omicidio di Lana Clarkson, che a quanto pare aveva rifiutato le sue avance). Nessuna protagonista di film d’azione è stata accusata di violenze domestiche, perché Angelina Jolie non fa quello che hanno fatto Mel Gibson e Steve McQueen, e nessuna regista famosa ha drogato un tredicenne prima di aggredirlo sessualmente nonostante lui dicesse “no”, come ha fatto Roman Polanski. In memoria di Jhoti Singh Cos’è che non va nella specie maschile? C’è qualcosa, nel modo in cui la mascolinità è immaginata, esaltata e incoraggiata, nel modo in cui la violenza è trasmessa ai maschi, che dobbiamo deciderci ad affrontare.

In giro ci sono uomini splendidi e affettuosi, e uno dei dati più incoraggianti, in questa fase della guerra contro le donne, è che tantissimi uomini sono consapevoli, pensano che la cosa riguardi anche loro, si schierano per noi e con noi nella vita di tutti i giorni, online e nei cortei da New Delhi a San Francisco. Gli uomini sono sempre più nostri alleati, e anche in passato abbiamo potuto contare su alcuni di loro. Bontà e gentilezza non hanno mai avuto un genere, e nemmeno l’empatia. I dati sulle violenze domestiche sono in calo rispetto ai decenni passati (pur rimanendo spaventosamente alti), e molti uomini sono impegnati a creare nuove idee e nuovi ideali legati alla mascolinità e al potere. Gli omosessuali sono miei alleati da quasi quarant’anni (a quanto pare il matrimonio gay fa orrore ai conservatori perché è un matrimonio tra pari senza ruoli prestabiliti). Il movimento di liberazione delle donne è stato spesso presentato come un tentativo di ledere o di sottrarre potere e privilegi agli uomini, come se in un lugubre gioco a somma zero solo un genere alla volta potesse avere libertà e potere. Non è così: siamo liberi insieme o schiavi insieme.

Preferirei scrivere su altri argomenti, ma questo incide su tutto il resto. La vita di metà dell’umanità è ancora segnata, distrutta e a volte annientata da questa onnipresente forma di violenza. Pensate a quanto tempo e a quanta energia potremmo dedicare ad altre cose importanti se non fossimo così impegnate a sopravvivere. Vi faccio un esempio: una delle migliori giornaliste che io conosca vive nel mio quartiere e la sera ha paura di tornare a casa da sola. Deve smettere di lavorare fino a tardi? Quante donne hanno rinunciato al loro lavoro, o sono state costrette da altri a rinunciare, per motivi simili? Oggi uno dei movimenti politici più entusiasmanti del mondo è il movimento per i diritti dei nativi canadesi Idle no more, di orientamento femminista e ambientalista. Il 27 dicembre 2012, poco dopo il suo lancio, una donna nativa è stata rapita, stuprata e picchiata a Thunder bay, nell’Ontario. I suoi aggressori, che l’hanno abbandonata credendola morta, hanno lasciato intendere che la loro era una ritorsione contro Idle no more. La donna ha camminato per quattro ore, sopravvivendo al gelo, e ha potuto raccontare la sua storia. I suoi aggressori, che hanno minacciato di rifarlo, sono ancora latitanti. Lo stupro e l’omicidio a New Delhi di Jhoti Singh, la ragazza ventitreenne che studiava fisioterapia per poter andare avanti nella vita e aiutare gli altri, e l’aggressione del suo ragazzo (che è sopravvissuto), sembrano aver scatenato la reazione che aspettavamo da cento, forse mille, forse cinquemila anni. Che Jhoti possa essere per le donne – e gli uomini – quello che Emmett Till, assassinato dai suprematisti bianchi nel 1955, è stato per gli afroamericani e per l’allora giovane movimento per i diritti civili negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti vengono commessi oltre 87mila stupri all’anno, eppure ognuno è presentato come un caso isolato. I punti sono così ravvicinati da formare una macchia, ma nessuno li collega o indica la macchia. In India l’hanno fatto. Hanno detto che questo è un problema di diritti civili e di diritti umani, un problema che riguarda tutti, un problema che non è isolato e che non sarà mai più considerato accettabile.

Le cose devono cambiare. Sta a voi cambiarle, a me, a noi.

Rebecca Solnit, TomDispatch, Stati Uniti

Internazionale 990, 8 Marzo 2013, p. 40 - 47