Giudicare con la nostra cultura o la loro?

Maltrattamento e violenza sulle donne non sono solo una questione culturale ma anche di diritto penale. Abbiamo chiesto a un professore di diritto penale, Fabio Basile, e a un magistrato, Fabio Roia, dal ’91 in prima linea nella tutela dei soggetti deboli come pm, oggi come giudice del Tribunale penale di Milano, che cosa frena le donne straniere nel denunciare le violenze subite. Spiega Roia che «faticano a capire quando l’offesa che ricevono e che può, teoricamente, essere accettata e non condannata nella cultura di appartenenza, superi il limite di tollerabilità. Spesso, nella testimonianza, ci troviamo di fronte a donne che non si rendono conto che quanto raccontano costituisce una forma di maltrattamento. Il doversi concedere al marito anche contro voglia, non poter uscire di casa sole, non poter gestire relazioni autonome con amiche o parenti vengono ritenute cose normali, ma secondo i parametri europei del diritto naturale costituiscono forme di violenza». Aggiunge Basile che «in alcune culture il marito dispone dello ius corigendi, il diritto-dovere di educare la moglie anche ricorrendo ad atti lesivi. Oggi è in atto un cambiamento in molti Paesi. Ma non è detto che la legge dello Stato abbia la forza di imporsi sui precetti tribali». E ricorda che lo ius corigendi  era riconosciuto nel nostro Paese fino agli anni Sessanta e i codici non scritti sono stati legge a lungo, in Barbagia ma non solo. E allora attraverso la lente di quale cultura deve essere valutato un caso di violenza sulla donna straniera? La nostra o la sua? «La soluzione non è nel guardare alla cultura, ma ai principi fondamentali che la regolamentano, quelli scritti nella Costituzione europea dei diritti dell’uomo e nella Carta costituzionale — dice il magistrato —. Dal punto di vista della calibrazione della pena, ogni situazione va valutata a sé. Ma l’inserimento in una società comporta il rivedere i propri convincimenti, altrimenti non si potrà mai parlare di effettiva integrazione». La legge penale è quella che per eccellenza esprime il Dna di un popolo, conclude Basile: «Nell’applicarla non devono esserci cedimenti né sacche di immunità. Il rischio altrimenti è una ghettizzazione di segno positivo: a causa del delitto di un singolo, si getta discredito su tutta una cultura. Ricordate quando un sardo che violentò la moglie in Germania fu punito con pena lieve? Come a dire che in Italia è cosa normale. Diverso è sfruttare gli spazi presenti nelle norme e cercare la pena più adatta ad ogni imputato, tenendo conto anche dell’elemento culturale». 

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(28 giugno 2012) - Corriere della Sera