«Botte e Ricatti, Poi Mi sono Svegliata»

Amal, mediatrice marocchina: ci sono passata anch' io, ora sono brava ad ascoltarle Ho cominciato a dirmi: se vado avanti così mi suicido. Ma io non voglio morire

Il nome è di fantasia, ma è lei a sceglierlo: «Amal. Vuol dire speranza». Perché la strada è lunga, buia e tortuosa, ma già si vede in fondo la discesa: «Più ci penso e più mi sento fiera di me stessa. Io non ero quella che subiva, io sono questa qui. E da quando l' ho capito, da quando ho deciso di cominciare il percorso, sto bene». Al punto da riuscire ad aiutare: è stata una vittima, adesso Amal è una mediatrice. Il sentiero di «Speranza», come in tante di queste storie, comincia in un altro Paese. Per la precisione nell' estate del 1991 a Casablanca. È il primo matrimonio. «Avevo 18 anni e lui era un amico di mio fratello». L' amavi? «Nessuno mi ha costretto, ma non sapevo a cosa andavo incontro». Undici mesi dopo il marito la porta in Italia, in una città del Nord, con un ricongiungimento familiare. «È qui che comincio a conoscerlo, e a scoprire qualcosa che non mi piaceva». L' alcol. «È una persona che beveva. Un comportamento che non tolleravo, che non avevo mai visto nella mia famiglia. Gli ho chiesto di smettere e sono cominciati i problemi». Era aggressivo? «Non mi picchiava, no, ma era spesso ubriaco. Più io gli chiedevo di smettere, più esagerava...». Amal si convince - dopo tre anni - ad andare via di casa e a chiedere il divorzio. La storia peggiore comincia adesso. «Ho sempre lavorato, ho fatto subito un corso di italiano, avevo studiato già in Marocco». Amal dal principio capisce che l' indipendenza economica è vitale. «Soprattutto, cercavo di far passare il tempo, di stare in casa il meno possibile... Non avere accanto la tua famiglia è dura...». Arrivano i documenti del divorzio, intanto, la ragazza trova impiego come badante e si trasferisce a casa dell' uomo anziano che assiste. È il bivio in cui la strada si fa in salita. «Conosco il figlio di quest' uomo, stiamo insieme, abbiamo una figlia, ci siamo lasciati». La sintesi non racconta la fatica del percorso. Amal prende fiato. È stato lui l' uomo violento? «Era più che altro una violenza psicologica, un continuo ricatto. Il suo obiettivo era farmi perdere fiducia in me stessa, rendermi dipendente, farmi sentire inutile...». Che cosa ti diceva? «Buona a nulla, non sei nessuno senza di me, non sai fare nulla...». La famiglia è lontana, l' abuso è sottile e penetrante, la bimba è appena nata: «C' è voluto tempo per elaborare, per capire quello che stava accadendo». Indispensabile, racconta, è stata una psicologa di un centro antiviolenza: «Ho cominciato a vedermi come una che si sta svegliando da un incubo e si rende conto della disgrazia in cui si trova. Ho cominciato a dirmi: se vado avanti così mi suicido, ma io non voglio morire, non voglio lasciare mia figlia orfana...». Qualcosa è scattato, Amal ha preso la bimba e si è trasferita in una casa segreta per donne maltrattate. Da qui il tracciato cambia. «Ho continuato a lavorare, come cuoca, e al tempo stesso ho seguito un corso per mediatrice. Finalmente mi sentivo utile. Ho scoperto che, con tutto quello che avevo passato nella vita, ero brava ad ascoltare. Dopo un anno di formazione, ho cominciato ad accogliere famiglie straniere a uno sportello di servizi sociosanitari». È stato più difficile del previsto. «Con gli uomini maghrebini avevo molti problemi, erano diffidenti, sapevano che sono sperata e mi guardavano male». I primi tre anni sono stati complicati. «Un episodio in particolare, una storiaccia: ho sostenuto i genitori di una ragazza abusata dallo zio. La famiglia, marocchina, se l' è presa con me, mi hanno aggredita, minacciata... Sono stata veramente male». Ma non ha mollato. Dal lavoro con le donne straniere che cosa ha imparato? «Che la violenza dipende dall' ambiente in cui hai vissuto, per esempio. Nella mia famiglia non c' erano aggressioni o insulti. Ma ho ascoltato ragazze che non riconoscono il maltrattamento, che considerano calci e schiaffi come comportamenti normali. Perché ci sono abituate da bambine, hanno visto il padre sputare o tirare i piatti addosso alla madre e nessuno gli ha mai detto che è sbagliato». Molte subiscono anche una violenza economica. «Ricordo il caso di una donna araba alla quale il marito dava 20 centesimi al giorno e pretendeva di trovare la sera la cena in tavola e la casa pulita». E ha sopportato a lungo. Da mediatrice Amal ha capito che «è difficile che le donne straniere si ribellino, perché sono sole, non c' è sostegno. Per le famiglie di origine sono un fallimento, la comunità le tratta male, si inizia a sparlare di loro. Quando una donna decide di andare via di casa si trova di fronte un altro muro: i servizi sociali non hanno i fondi per sostenerla economicamente, e anche in una struttura protetta senza un euro in tasca come si vive? Meglio stare in casa, prenderle ma mangiare, dicono alcune». Per Amal è in discesa, «ma ho visto tante donne fare un passo indietro», in salita ancora. RIPRODUZIONE RISERVATA **** 64% 80 7% { dei casi di violenza sulle donne hanno per protagonista il partner nei panni del molestatore mila le donne, italiane e straniere, assistite in sei anni dal numero telefonico «1522» le denunce ogni 100 donne molestate secondo i dati dell' Istat Le straniere non sono comprese Il blog e Twitter Sulla 27esima ora, il blog multifirma di Corriere.it, 27esimaora.corriere.it, oltre agli articoli comparsi sul giornale, testimonianze, interventi di esperti, analisi. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 17 e 25 maggio, il 7, 14 e 21 giugno. Su Twitter #nonsuccedeame Le autrici dell' inchiesta: Laura Ballio, Alessandra Coppola, Paola D' Amico, Corinna De Cesare, Carlotta De Leo, Giusi Fasano, Angela Frenda, Sara Gandolfi, Daniela Monti, Giovanna Pezzuoli, Paola Pica, Rita Querzé, Marta Serafini, Elena Tebano, Stefania Ulivi

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(28 giugno 2012) - Corriere della Sera