La pira di Kaur ci chiede di reagire
di Monica Lanfranco publicato su Liberazione (http://www.liberazione.it)
Quando ho saputo del suicidio della donna indiana abitante a Modena che ha visto nella sua morte l’unica possibilità di assicurare un futuro ai figli mi è venuto in mente il film Il giro del mondo in 80 giorni, dove il giramondo inglese Phileas Fogg (David Niven) riesce a salvare la bella indiana (una bellissima Shirley Maclaine) condannata ad essere arsa viva sulla pira dove giace il cadavere del marito, un uso tradizionale purtroppo ancora attuale in India oggi, nelle zone povere dell’interno del paese, nonostante ci sia una legge dello stato che lo vieta.
Ma la vicenda di Kaur, madre di due adolescenti, da dieci anni a Modena, non è una storia cinematografica a lieto fine. Nonostante fosse lontana dal paese d'origine Kaur è stata raggiunta lo stesso dalla condanna della pira: la morte non è arrivata con il fuoco, ma con lo stridio inutile dei freni di un treno italiano, sotto il quale si è gettata ieri: Kaur era stata richiamata in patria dai famigliari per sposare l’anziano cognato e tornare in India a vivere con la bimba di tredici anni e il bimbo di dodici avuti da un precedente matrimonio. La donna però voleva restare in Italia coi figli, che si erano ambientati e frequentavano la scuola a Soliera. La premeditazione del gesto sarebbe testimoniata da una lettera-testamento che avrebbe lasciato per raccontare le ragioni del suo tragico gesto. Come per il caso di Hina, e delle altre vicende di morte e violenza che coinvolgono le donne sempre più spesso all’interno delle famiglie, ancora una volta ci troviamo di fronte al peso mortale che il legame tra religione, patriarcato e visione tradizionale della relazione tra i generi getta sulle donne, non dando loro scampo. E ancora una volta registriamo la solitudine delle vittime. Una solitudine sociale, nella quale le donne in generale e quelle straniere in particolare vivono grazie anche alle posizioni “progressiste” che usano l'alibi del multiculturalismo per non affrontare uno dei nodi centrali del disagio creato nel nostro tempo dalle differenze culturali e politiche: quello del conflitto tra i generi.
Da una parte c’è la soluzione razzista e leghista che vede tutti gli stranieri come un indistinto malefico, e li vuole fuori dalla fortezza di un occidente che mostra il peggio di sé; dall’altra c’è chi, per non apparire razzista e leghista, minimizza il problema della mancanza di libertà delle donne nella visione di alcune comunità straniere. Come scrive Pragna Patel, femminista del Southall Black Sister, che opera a Londra tra le comunità indiane e africane «il multiculturalismo fa spazio ai rappresentanti non eletti delle comunità, in genere maschi e appartenenti a gruppi religiosi, ma anche appartenenti alla classe degli uomini di affari, i quali determinano i bisogni della comunità e mediano fra la comunità e lo stato. Neanche a dirlo, questi leaders hanno scarso o nullo interesse nel promuovere la giustizia sociale o l’eguaglianza delle donne. Anche se gli interessi della comunità sono spesso declinati nel nome dell’anti-razzismo o dei diritti umani, ciò include molto raramente il riconoscimento dei diritti individuali delle donne o di altri sotto-gruppi all’interno della comunità. La maggior parte della vita religiosa istituzionale nelle comunità delle minoranze deve ancora passare attraverso il processo di liberalizzazione e democratizzazione che le istituzioni religiose della società mondiale sono state costrette a subire. Nelle comunità appartenenti a minoranze, le istituzioni religiose sono dominate da un’agenda religiosa conservatrice, misogina ed omofobica, e nonostante ci siano isole liberali all’interno delle comunità delle minoranze, le loro voci sono marginali».
Tacere su questa rimozione non solo fa fare a noi occidentali di sinistra e al femminismo un gigantesco passo indietro nella storia del percorso dell’emancipazione e dell’autodeterminazione, ma infligge un colpo mortale a quanti, donne e uomini in paesi e culture dove ancora la religione e il patriarcato sono leggi, anche dello stato, vorrebbero modificare questo stato di cose. Irshad Manji, nel suo Quando abbiamo smesso di pensare, ci chiede anche di assumerci questa responsabilità.