La via dello spirito parte da Yasser

di Igiaba O.Scego. Pubblicato sul Manifesto del 11 Giugno 2006

«All'inizio ho incominciato a studiare la lingua per entusiasmo verso Arafat e la causa palestinese. Poi non ho più potuto smettere». In continua crescita il numero degli studenti di arabo La quasi totalità di quelli che studiano arabo è fatta di ragazze coraggiose, che spesso devono vincere l'ostilità e i timori delle famiglie. Ma è anche una ricerca di radici culturali

All'università la campanella non suona. La ricreazione caffé non è annunciata da trilli, è tutto un gioco di sguardi. Il professore guarda l'orologio, gli studenti guardano il cellulare e ci si alza all'unisono come un sol uomo per un caffé al vetro macchiato caldo. Gli studenti di arabo, o dovremmo dire le studentesse, vista la preponderanza della compagine femminile, invece aspettano una parola magica: istirrah, pausa. Ma poi una vera pausa non riescono a farla da questa lingua, la loro mente è ancorata ad essa come le stelle alla volta celeste. L'arabo non è solo una lingua, è un mondo che si svela. E ogni anno torme di ragazze e ragazzi (ma anche di vecchietti/e) si lanciano in questa avventura - una strada piena di ostacoli, frustrazioni, piccole vittorie, molteplici sconfitte.Si stima che negli ultimi quattro anni, solo nei principali atenei italiani, il numero degli studenti iscritti a corsi dove è previsto lo studio dell'arabo, dell'islamistica, del diritto mussulmano, sia triplicato. All'Orientale di Napoli in alcuni corsi di laurea si è arrivati ad un aumento di iscritti del 250%, un numero che quindi fa concorrenza a quello più nutrito degli studenti di lingua inglese. Si è parlato di boom, di effetto post-11 settembre. Ma cosa spinge veramente una persona ad imbarcarsi nello studio di una lingua così ostica in apparenza? Può davvero essere solo la curiosità di decifrare i messaggi di bin Laden o al-Zarqawi? O è la prospettiva di un lavoro sicuro e ben pagato? E i kamikaze allora? E la bellezza ultraterrena di Rania di Giordania? E come la mettiamo con i versi di Mahmoud Darwish, che attirano ancora le folle?
Per Alessia, palermitana doc del quartiere Resuttana S.Lorenzo (per i non palermitani: il quartiere dello stadio) è stato Arafat il motore di tutto; e prima ancora Federico II. «Ero innamorata di Yasser. Durante la prima Intifada ero piccola e non mi perdevo mai un tg per vederlo. Mi sembrava forte, uno che sapeva il fatto suo. Poi avevo questo sogno di fare la giornalista...». E Federico? «Lui in qualche modo è stato la Sicilia. Da piccola sono andata alla classica gita al suo palazzo e qui per la prima volta ho visto una scritta in arabo. Quando la maestra mi ha spiegato che era una lingua diversa dalla mia, ecco, da quel momento non sono più riuscita a pensare ad altro».
Di Alessie la professoressa Isabella Camera D'Afflitto, docente di letteratura araba alla Sapienza di Roma e traduttrice tra le prime in Italia, ne ha conosciute tante. Conosciute: al femminile. «Nei corsi le donne raggiungono un tetto del 95%», ci dice. «Sono ragazze dotate di grande sensibilità, ma soprattutto di coraggio. Vanno dappertutto: in Giordania, Siria, Egitto, Palestina. Non hanno mai paura, non si fanno influenzare da quello che dicono i media sui paesi arabi. Hanno imparato a vedere le sfumature di questa immensa galassia. Senza pregiudizi. Le famiglie sono sempre molto preoccupate all'inizio. Ma poi le figlie - grazie all'esperienza vissuta - riescono a mediare tra il pregiudizio dei familiari e l'amore per la lingua. Attraverso loro molte famiglie imparano a conoscere l'altro per quello che è realmente, e non per deformazioni mediatiche».La politica è certamente uno dei motivi principali che spinge le persone verso questi studi, «ma più che l'11 settembre», ci spiega la Camera D'Afflitto, «è la questione palestinese ad aver attirato nelle aule di Roma, Napoli o Venezia più studenti. I ragazzi, ma non solo loro sono curiosi, vogliono sapere cosa c'è dietro ad un evento. Io per esempio ho studiato arabo dopo la guerra del '67. Però un mero studio grammaticale non serve a nulla, non si deve perdere di vista il contesto, la storia. La lingua araba si può conoscere solo attraverso lo studio della cultura».

La Sicilia non è araba?

Per Alessia la cultura araba è anche la sua cultura. «La Sicilia è stata fatta anche dagli arabi. Poi ce lo dicono sempre, no? Terroni, africani, arabi, extracomunitari... vogliono insultarci a noi siciliani, ma per me è un complimento essere extracomunitaria. Mi spieghi che differenza c'è tra me e un tunisino?». Si tira su le maniche della camicia e mostra orgogliosa la pelle ambrata. «Hai visto?» dice. «Nessuna differenza. Poi Palermo è piena di scritte arabe, e che dire della cassata che tutto il mondo ci invidia? Agli arabi non piaceva la ricotta salata e ci hanno messo lo zucchero».
Anche Sonia Morganti, avvocato, studia arabo. Nove ore settimanali dopo il lavoro alla Camera di commercio di Roma. Un vero e proprio monachesimo laico. A volte si chiede perché tanta fatica. Ma poi si ricorda del suo immenso amore per l'Egitto e l'Oriente in genere. Le canzoni di Nancy Ahgram, le danze di Farida. Ma il vero amore di Sonia è il diritto islamico. «Vorrei trovare lavoro al Cairo o ad Alessandria. Continuare il mio lavoro di avvocato lì, specializzarmi sul diritto islamico. È affascinante vedere quante cose si possono imparare dal diritto, anche superare i falsi pregiudizi... Ad agosto vado giù a spargere i miei cv e spero nella buona sorte».
La prospettiva di un lavoro con la lingua araba è il sogno di molti. Ma la strada è tutta in salita. E non mancano gli abbandoni. «Ne ho vista di gente frustrata», ci dice Fereydoun Rangrazi, un simpatico libraio iraniano che ha aperto tredici anni fa Nima, una libreria orientale nel cuore del Tiburtino, a Roma. «Se si pensa solo al lavoro si è destinati al fallimento, si deve entrare in questa cultura, capirla, amarla, criticarla pure... ma viverla». Scorriamo i titoli. Qui dal signor Rangrazi va per la maggiore una certa Hoda Barakat. «Dovreste leggerla», dice. «Vengono anche tante coppie miste, comprano grammatiche, lei o lui vogliono capire il perché di un amore. Però a volte tanto entusiasmo nella gente viene smorzato. Per esempio nelle università non sempre c'è materiale, gli strumenti scarseggiano. Tempo addietro mi è capitato di conoscere una ragazza polacca, l'ho scambiata per una iraniana di origine armena. Un accento perfetto. Mi ha spiegato che nell'università di Varsavia si facevano 15 ore settimanali di farsi e lo stesso di arabo. Qui di arabo o di farsi, massimo 4 ore. Non va, gli studenti, meritano di più».
Molti studenti che affollano gli atenei italiani sono d'accordo con l'analisi del signor Rangrazi. Mancano i supporti didattici, le lavagne luminose, l'occasione di scambi reali con i paesi arabi o con persone provenienti da quel mondo. Le iniziative sono legate solo alla buona volontà dei singoli, alla loro tenacia, alla voglia di novità. I fondi per le università poi sono sempre più invisibili.
«Il metodo di studio dell'arabo in Italia», ci dice una signora che preferisce rimanere anonima, «è molto datato. Si usano grammatiche di prima della seconda guerra mondiale, belle, ma che poi non aiutano lo studente a comunicare. È difficile persino ordinare un panino al bar. Si comunica poco, si parla poco. Inoltre l'unica voce che si sente è quella del professore, pochi sono gli strumenti didattici interattivi. Però almeno oggi l'arabo è uscito dalle chiese». Chiese? «Sì, chiese. Fino a poco tempo fa l'insegnamento e lo studio della lingua araba erano monopolio degli istituti religiosi. Era lì che si decideva cosa studiare e a chi farlo studiare. Il mondo e la cultura araba passavano sempre attraverso questo filtro. Ora almeno è il cittadino italiano che decide per se stesso cosa studiare, come studiarlo e dove. Entra direttamente nella lingua, prende possesso su quello che dicono gli arabi e vive tutto ciò che questo comporta. Poi è anche libero di studiare in un istituto religioso, se vuole. Questo si è avuto grazie ad una critica dell'orientalismo tradizionale. Anche se devo ammettere che la strada in questo senso è ancora in salita».
Entusiasmo iniziale«Io ho avuto molte difficoltà all'inizio», confessa Alessia, la studentessa palermitana. «Ho abbandonato l'università per tre anni. Quando mi sono iscritta avevo tanto entusiasmo, ma poi è sopravenuta la disillusione. I tempi e i modi non mi piacevano, non riuscivo a seguire bene. Era il sistema università che diluiva il mio amore in niente. Poi per fortuna mi è capitato dopo tre anni di seguire le lezioni di filologia semitica del prof. Garbini. Mi si è aperto un mondo. Le lezioni erano un evento. Mischiavamo l'arabo, l'ebraico, l'amarico, l'italiano e anche il romanesco. Si parlava della torre di babele e di Gesù, si mischiava, si faceva cultura. Ho preso 30 e lode poi. Devo ringraziare il professore e tante persone come lui se un giorno andrò a lavorare in Medio Oriente con il mio arabo».Dunque quel di più esiste ed è dato da tanti docenti in gamba, tra cui molti madrelingua. Uno di questi è Ezzeddine Anaya, lettore alla Sapienza e professore a contratto all'Orientale di Napoli. Gli studenti amano la sua dizione pulita, i suoi modi calmi. Sembra uscito direttamente da un telegiornale di al Jazeera. Ripete parole semplici come bayt, casa, o Kataba, scrivere, con lo stesso sorriso accogliente della prima volta. Lo studente è incoraggiato, si lancia, riesce ad attaccare due parole insieme, a fare una frase. Finalmente parla arabo. Sorride. «Dobbiamo sfatare il mito della lingua araba difficile», dice. «Non ci sono lingue difficili, ma solo cattivi maestri, cattivi trasmettitori. Vi ricordate di Sciascia? Ne il consiglio d'Egitto quando...».Intanto che cerchiamo di ricordare la storia di Sciascia, Ezzeddine ci dice altre cose. Anche per lui le donne sono più coraggiose, aperte, «Ascoltano meglio». Poi ci parla delle Mille e una notte. «Faccio spesso lezioni su questo testo, ma si deve stare attenti a non cadere in un facile esotismo. Si devono dare agli studenti cooordinate storiche, inserire i testi in un preciso contesto. Se no si rischia di far credere gli studenti in un mondo arabo fatto di geni e lampade magiche. Io affianco sempre testi concreti, anche per mitigare questa visione ultramagica. Per esempio faccio spesso leggere Nizar Khabani».Oltre agli italiani le aule delle università sono anche affollate di figli di immigrati di lingua araba che cercano do recuperare la lingua delle radici. «E' un fenomeno in crescita», dice la Camera D'Afflitto «e ho notato che a Roma il fenomeno è più consistente rispetto a Napoli». Ezzeddine Anaya spiega che molto si deve al ritorno di fiducia dei giovani migranti, «sentono di appartenere ad una cultura millenaria e questo li aiuta a non sentirsi un nulla nell'universo occidentale».Ma dopo aver passato pomeriggi interi a studiare la lingua del Corano cosa rimane?«Io ho imparato a respirare», dice Alessia, «ora medito, mi prendo il mio tempo. L'arabo è come bere un buon vino. Lo si deve fare lentamente per assaporarlo. Ora capisco che l'Oriente osserva quello che fa l'Occidente. Ci conoscono meglio, in profondità. Noi corriamo sempre e spesso diamo solo un'occhiata veloce all'Oriente».Forse imparare l'arabo è tutta questione di bronchi.