Le acrobate della terra di mezzo

di Igiaba Scego. Pubblicato sul Manifesto del 7 Aprile 2006

Un ponte ma anche un architetto, il mediatore è equilibrista e asse portante: è colui che sta in mezzo, parla più lingue, crea un bacino unico comprensibile a tutti. In lui entra una voce e ne esce un'altra, entra un problema e si risolve. Una figura professionale a cui si giunge, spesso, attraverso percorsi di sofferenza individuale

Lula si chiama come il presidente del Brasile, ma le sue mani ricordano Bilqis, la regina di Saba.
Con le mani in Somalia impastava «mufo» la pita che i somali adorano mangiare con il sugo di carne. Come molte connazionali, Lula ha subìto la mutilazione dei genitali femminili. Non molto tempo fa ha rischiato una infezione gravissima dopo un aborto spontaneo. «I dottori si sono spaventati. Hanno visto la cucitura e la mancanza della clitoride. Non han fatto tutto quello che dovevano fare. Si sono sbrigati a rimettere le cose a posto... troppo in fretta».
La memoria è ancora fresca, il ricordo le fa ancora male. «Fino a quel momento non avevano mai visto una donna infibulata credo. Certe "cose" si pensa che non capitino nelle piccole città, invece gli sono capitata io tra capo e collo. È stato uno choc per loro. Ma questo choc, questa non conoscenza poteva portare ad una tragedia. È stata già dura perdere il bambino, non mi immaginavo che il destino mi riservasse qualcosa di così banale e triste. Mi sono salvata grazie alla lungimiranza di mio marito che mi ha trasportata in un ospedale di Roma attrezzato a questa evenienza e fornito di mediatori socio-sanitari».

Una connessione tra l'Italia e il mondo

Ecco perché oggi Lula, e migliaia di persone motivate come lei, studiano per diventare mediatori culturali. «Voglio trovare un lavoro per me e perché no, uno stipendio. Nello stesso tempo voglio che nessuna donna viva la mia stessa esperienza negativa. Il mediatore a me serviva come il pane. Avrebbe spiegato ai dottori ignari che cosa mi era successo in Somalia e loro non si sarebbero spaventati. Non avrei rischiato una infezione, non avrei avuto paura. È una figura troppo importante per non essere presente in un ospedale».
In realtà i mediatori non sono presenti solo negli ospedali. Operano nelle scuole, nelle questure, negli sportelli informativi, nei tribunali, nelle carceri. Queste figure connettono la penisola al mondo dei migranti. Risolvono problemi, assistono, consigliano, consolano. Però non sempre è chiaro, ai non addetti ai lavori, chi sia un mediatore. E soprattutto cosa faccia.
Il mediatore è stato definito in mille modi diversi. È ponte ma anche architetto, equilibrista ma anche asse portante. E' colui che sta in mezzo, che parla più lingue, crea un bacino unico comprensibile a tutti. In lui entra una voce e ne esce un'altra, in lui entra un problema e si risolve. Per Alexander Langer, uomo che viveva oltre le barriere e gli steccati del mondo moderno, i mediatori erano gli esploratori di frontiere. Abitanti della terra di mezzo come gli hobbit di mastro Frodo e i sognatori.
Un esploratore in questo senso è Miclescu Dumitru. Da 11 anni in Italia, nativo di Craiova (sudovest della Romania), lavora come mediatore occupandosi prevalentemente dei rapporti tra comunità rom e autoctoni (sia in senso di persone sia in senso di istituzioni). «Lavorare con i Rom ti insegna tantissimo», ci dice. «I rom sono tra i gruppi più discriminati in Italia, la gente è sempre sospettosa nei confronti di un rom. Quindi è sospettosa anche di chi parla e di chi trasmette il pensiero di un rom. Il lavoro di mediazione dà grandi soddisfazioni a livello umano, ma non ti nascondo la fatica... anzi la doppia fatica». Quando Miclescu parla di doppia fatica sottolinea uno dei problemi più sentiti dalla categoria: «A volte - sempre più raramente per fortuna - il nostro non è considerato un vero lavoro. Sembra quasi che siamo lì per scocciare le istituzioni, per dare noia, non per dare il nostro contributo. Inoltre, molto spesso siamo usati solo come interpreti. Invece io cerco di collegare due mondi che non hanno una lingua o un modo di vedere le cose comune. L'errore più grosso che si possa fare quando si parla di mediazione, è pensare che questa mediazione sia a senso unico. Ossia io mediatore spiego al migrante le ragioni, le richieste dell'istituzione di turno. Certo, faccio anche questo, ma la vera mediazione sta nello spiegare all'istituzione le ragioni, le perplessità, le domande, il punto di vista del migrante».
«A volte», ci dice Mirjana Brkic, mediatrice serba nativa di Vrsac, anche lei impegnata con la comunità rom, «può succedere di trovarsi davanti ad un muro. Ed è proprio in quei casi che il lavoro di mediazione risulta fondamentale. L'istituzione può non conoscere il bisogno dell'immigrato o può considerare poco importanti tali esigenze. Il nostro compito è far capire che tali bisogni sono l'inizio di uno scambio reciproco. Siamo una via da attraversare, una via aperta ad un dialogo che diventa importante per ambo le parti coinvolte. L'immigrato in un'ottica veramente interculturale non accetta passivamente le regole. Noi lo aiutiamo a capire la sua situazione e in un certo senso aiutiamo anche l'istituzione a capire l'immigrato». Mirjana parla lucidamente del suo lavoro, che ama sopra ogni cosa, e non si nasconde i problemi. «Abbiamo a che fare con insegnanti, impiegati, forze dell'ordine. A volte noto nei nostri confronti una specie di smarrimento, confusione. Non sempre si sa bene chi siamo, cosa facciamo. Può esserci anche scetticismo, quando non un'aperta ostilità. Ma poi chi ci conosce apprezza l'utilità del nostro operato. È un lavoro disseminato di ostacoli. Non ultimo l'aspetto economico. Lo fai solo se ti piace veramente. Io ho cominciato a farlo dopo i 40 anni. Prima ero traduttrice. Poi ho deciso di dedicarmi anche ad altre attività e mi sono orientata verso la mediazione. Ho studiato facendo un corso regionale e vari corsi di aggiornamento. È un lavoro complesso, richiede competenze professionali. Non si può improvvisare, non basta essere solo immigrati».
Infatti, nonostante questa figura professionale sia al centro della discussione di matrice interculturale ormai da tempo, si ha ancora una forte sensazione di inderminatezza nel definire la categoria. Chi è costui? Chi è questo mediatore culturale? Si mangia? Si frigge? Il mondo domanda, ma spesso le risposte sono deludenti. Hic sunt leones. La mediazione diventa così territorio inesplorato, o almeno poco conosciuto.
Ora, a far luce su questo mondo è arrivata un'ottima ricerca dal Creifos (Centro di Ricerca sull'Educazione Interculturale e sulla Formazione allo Sviluppo) del dipartimento di Scienze dell'educazione dell'università Roma Tre: un lavoro che spazia dal concetto filosofico di mediazione fino ad esplorare i vari ambiti della mediazione stessa - dalla scuola al carcere, all'ospedale. Ma come titola uno dei primi paragrafi della ricerca, la questione degli immigrati è anche la questione degli italiani: l'Italia del XXI secolo non può più far finta di nulla, l'Italia sta cambiando - anzi è già cambiata - gli immigrati non sono nebulose di passaggio, ma persone che vivono, lavorano, amano, studiano nella penisola... Qui, adesso. Nel suo saggio, Francesco Susi lo ribadisce con veemenza, avvertendo il lettore di non perdere di vista la vita quotidiana. Sono le persone (migranti, autoctone) ad incontrarsi, non i concetti astratti. E spesso per trarre giovamento da un incontro serve qualcuno che aiuti a mettere armonia tra le parti, un mediatore appunto.

Una ricerca complessa

Una ricerca così complessa non è riassumibile in poche righe. Però possiamo ricavarne una sorta di identikit del mediatore culturale-tipo. Ad onor del vero, dovremmo parlare di mediatrici e non di mediatori. Infatti la mediazione è un'attività per tre quarti al femminile. L'età media di un mediatore è di 37-40 anni e i titoli di studio sono medio alti. Il 12% del campione preso in esame era in possesso di un titolo terziario non universitario, il 42% disponeva di un titolo universitario e addirittura il 13% era provvisto di titoli post-laurea.

Le ragioni di una scelta

Ma come mai si decide di diventare mediatori culturali? Come si approda a questa tipologia di lavoro? Le strade sono varie. Si passa spesso per la formazione, come Mirjana, e si approda ai primi lavori tramite tirocinio o associazioni. Però ogni percorso ha la sua peculiarità. Miclescu per esempio porta scritto direttamente nel dna il suo essere mediatore. «In realtà, all'inizio è stato tutto un po' casuale», spiega. «Ho fatto da interprete nell'ambito della mia comunità. Ma siccome mi piace dare informazioni non mi limitavo alla traduzione: spiegavo tutto, anche l'ovvio. Cose semplici come le strade, le scorciatoie. Poi la comunità rom romena si è spostata dal Casilino 70 a via Luigi Candoni. Come tanti anch'io stavo nell'accattonaggio, non lavoravo. Invece, tre mesi dopo il trasferimento ho avuto una proposta: fare l'accompagnatore scolastico dei bambini della comunità, per conto dell'Arci. Ma anche lì non mi sono limitato ad accompagnare i bambini. Sono stato un ponte tra la scuola, i bambini e i genitori. Ho cercato di spiegare sempre le ragioni per cui certe azioni non potevano essere condivise o addirittura capite. Lo facevo perché volevo facilitare il più possibile il percorso dei bambini nella scuola. Volevo aiutarli. Dopo ho fatto un corso come 'Agente di promozione sociale per i migranti'. Mi sono formato. Da mediatore naturale sono diventato un vero mediatore, consapevole delle problematiche. Ora lavoro in uno sportello. Ho imparato tante cose sul campo, ma soprattutto ho sviluppato la pazienza».
Anche Mirjana parla di pazienza, ma sottolinea la bellezza di un lavoro mai banale. «La formazione deve essere ininterrotta, perché il fenomeno migratorio e il suo impatto sulla popolazione autoctona sono in continuo cambiamento. Entri in contatto con problematiche, ma anche con umanità. Non puoi non esserne contagiato positivamente».

Umanità e valori

Professionalità, formazione, umanità, valori, questa è la ricetta per un buon mediatore. Oggi si discute se anche una persona che non abbia vissuto il percorso migratorio possa diventare mediatore culturale. Il dibattito è acceso, ma molti si auspicano un lavoro in sinergia tra mediatori italiani e mediatori immigrati. Dove le conoscenze possono essere una base comune che arricchisce non solo i mediatori, ma anche la società di cui fanno parte.
La mediazione comunque rimane ancora un territorio caotico e, a parte la ricerca del Creifos, poco monitorato (solo qualche ricerca a livello locale). I mediatori chiedono garanzie per il loro lavoro, più diritti e una professionalità riconosciuta. In teoria, tale richiesta era stata avallata e anticipata nella precedente legge sull'immigrazione (Turco-Napolitano): negli articoli 26 e 40 si fa un esplicito riferimento ai mediatori qualificati che contribuiscono all'integrazione sociale delle minoranze. Molte associazionoi e anche molte istituzioni stanno lavorando su questo: per esempio, il Cnel è impegnato da tempo sui percorsi formativi e sul profilo professionale degli operatori. E si parla spesso della costituzione in futuro di un vero e proprio albo che regolamenti il tutto.
Per ora Lula non è interessata a tutto questo. «Devo studiare sodo», dice «e anche dopo non dovrò smettere mai». Essere della terra di mezzo impone dei sacrifici, lo sapeva bene il Frodo di Tolkien. Dopotutto era anche lui un mediatore culturale.