6 febbraio: giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili
Io, ferita da neonata, ho sottratto le mie figlie alla mutilazione genitale
di Assetou Billa Nonkane
Non porto rancore verso mia madre, perché senza quella «carta d’identità» incisa nel corpo non potevo far parte delle ragazze della mia generazione, né sposarmi. E soprattutto, se mia madre all’epoca avesse cercato di impedire che io subissi la pratica, lei poi non sarebbe stata più accettata dalla sua famiglia e dalla comunità. Mia mamma è analfabeta e questo non l’ha certo aiutata a fare scelte consapevoli. Io invece ho avuto la fortuna di andare a scuola: adesso so tante cose sulla mutilazione dei genitali femminili, anche grazie ai corsi di formazione organizzati daAidos, Associazione italiana donne per lo sviluppo, cui ho preso parte fino a diventare a mia volta formatrice. Nel mio Paese dal 1996 c’è una legge che vieta l’escissione e sono state condotte tantissime campagne per promuovere l’abbandono della pratica. Ma è stato in Italia che ho davvero approfondito questo tema, e ho cominciato a guardarlo con occhi nuovi. Io e mio marito - la decisione dell’uomo in famiglia è molto importante – abbiamo deciso di non praticare l’escissione sulle nostre figlie. Ma non è stato facile per mia madre accettare la mia decisione: lei vorrebbe che tutte le donne della famiglia fossero escisse, anche se sa che è vietato. Purtroppo in Burkina Faso le bambine subiscono ancora la pratica di nascosto.
Anche per noi che viviamo in Italia non è così semplice portare avanti la nostra decisione. In Africa l’escissione è considerata protettiva rispetto a desideri considerati illeciti, rispetto al sesso prima del matrimonio, rispetto a piaceri non istituzionalizzati, come il sesso fuori dal matrimonio, o che non riguardano il maschio, come la masturbazione. Perciò, spesso, la famiglia d’origine pensa che noi africani che viviamo in Europa stiamo abbandonando la nostra cultura a favore della cultura europea.
La prima generazione che non ha subito mutilazioni dei genitali femminili è quella di mia figlia.Mia figlia ha dodici anni e l’ho portata con me ben tre volte in Burkina Faso durante le vacanze, ma sono sempre riuscita a sottrarla alla pratica. Non con la forza, ma grazie al dialogo efficace e al sostegno di mio marito. Ogni volta che partiamo per il Burkina Faso la famiglia ci prova sempre, insiste. Occorre essere sempre vigili durante le vacanze in patria, perché mia figlia può subire la pratica anche contro la mia volontà: da noi non esiste l’individuo, una figlia non è solo figlia dei suoi genitori, è la figlia di tutta la famiglia. E là è normale che le zie, le nonne – o le co-épouses, le altre mogli nel matrimonio poligamo – prendano decisioni che la riguardano. Comunque la mia famiglia d’origine, pur essendo tradizionalista, cerca di rispettare la nostra decisione.
La domanda è: con quale arma possiamo fare fronte alla paura di un mutamento della tradizione? Noi mamme africane abbiamo bisogno di strumenti, di parole giuste, di confronto con altre donne per elaborare insieme le forme di una nuova educazione interculturale per le nostre figlie e i nostri figli nati in Italia o che crescono qui. Perché loro vivono dentro una spaccatura culturale, per cui non sono né completamente italiani né completamente africani. Parole che ci aiutino anche a convincere le famiglie rimaste in patria, così da accelerare il processo verso l’abbandono della pratica dell’escissione. Ci vuole tempo per riuscire a cambiare la mentalità delle persone, molto coraggio e tante campagne pubbliche. Come donna e mamma africana sto cercando di aiutare le donne migranti a condividere i propri pensieri, i propri bisogni, le proprie paure e le proprie forze, stringendo legami di solidarietà per affrontare i momenti difficili, quando le pressioni della tradizione si fanno più forti. Lo scopo è abbandonare le pratiche negative e valorizzare invece gli aspetti positivi della nostra cultura, facendoli conoscere anche nel Paese in cui abbiamo scelto di vivere e crescere le nostre figlie.