«Lo abbiamo avuto con tutte le colleghe che l’hanno preceduta. E lo prevede la convenzione di Istanbul. Non ci ha mai risposto. Fino ad ora». Beh, che dice la mail? «Che a breve saremo resi partecipi costituendo l’Osservatorio previsto dal piano nazionale contro la violenza. Dunque non dice niente».
Eppure le cose su cui discutere, spiega l’avvocata, sarebbero molte. Partendo da due domande facili: perché dopo avere firmato la convenzione di Istanbul sulla violenza di genere, varato una legge con l’intento di tutelare le donne che doveva essere una delle bandiere di questa legislatura e previsto con un decreto del 2013 la ripartizione delle risorse da destinare, lo Stato lascia morire i centri anti violenza? E perché i 16,5 milioni di euro distribuiti alle Regioni per i centri sono stati corrisposti solo in piccola percentuale, mentre i 18 milioni stanziati dalla legge 119 del 2013 per il 2015-2016 non stati ancora erogati?
Temi non secondari in un Paese in cui ogni due giorni una donna viene ammazzata da un uomo. Spesso il suo compagno. E in cui ogni anno i 75 centri della rete D.i.Re. aprono le porte a quindicimila donne italiane e straniere in cerca di aiuto. «Nonostante la previsione normative e la dimensione del problema, solo sei regioni hanno organizzato confronti con noi. Il punto è che le leggi ci sono, ma è come se non ci fossero. Perché nessuno le rispetta. E con i soldi va anche peggio. I finanziamenti vengono stanziati. Ma la burocrazia li blocca». Così, in attesa che qualcuno metta mano alla palude burocratica, i centri chiudono. Gli ultimi due sono stati Le Onde di Palermo che in vent’anni ha aiutato diecimila donne e che ora è ridotto all’ascolto telefonico e Casa Fiorinda di Napoli, struttura sequestrata alla camorra. Cicatrici che si moltiplicano, correndo dalla Sicilia alla Lombardia, dalla Sardegna, al Veneto. «Nel frattempo, secondo i dati Istat, in Italia una donna su tre continua a essere vittima di violenza». Davvero i centri si possono trattare come se non fossero componenti chiave dell’organizzazione sociale?
La voce di Aissa
Ieri sera, alla Rocca di Imola, davano «Fuocammare», il film di Gianfranco Rosi che racconta l’emergenza immigrazione vista da Lampedusa, e la piazza era piena. È stato il centro antiviolenza Trama di Terre a organizzare l’evento. E quando è scesa la notte, prima che lo schermo si riempisse di immagini, Aissa, che viene dalla Nigeria e che a Trama di Terra ha ritrovato una parte di sé, si è messa a cantare con tutta la voce che ha nella pancia. Era il suo modo per dire che lei esiste. E soprattutto resiste.
A 20 anni ha accumulato negli occhi e nel corpo mille volte di più dell’ orrore che un essere umano dovrebbe conoscere in una vita. Nel suo tragitto da Lagos all’Italia, passando per la Libia, l’hanno ripetutamente violentata, picchiata, costretta ad assistere alla decapitazione e alla tortura dei suoi compagni di viaggio e di prigionia. A ogni umiliazione ha risposto rifugiandosi nella melodia che continua a vibrarle dentro. Anche quando la barca che la portava verso la Sicilia si è ribaltata e il carburante che usciva dai serbatoi le ustionava la carne confondendosi con l’acqua salata, Aissa ha cantato. Non aveva più la pelle delle cosce quando una nave italiana l’ha caricata. Però si affidava alla voce, proprio come ieri sera, di fronte a un piccolo popolo ipnotizzato dal suo dolore. A questo serve Trama di Terre. A consentire alle donne come Aissa di non finire nella pattumiera dell’indifferenza.
Stamattina il centro è aperto come sempre e Tiziana Dal Pra, che l’ha fondato nel 1999, è al lavoro con le sue dieci collaboratrici. Se stanno in piedi da diciassette anni è perché sanno come trovare i fondi - Bruxelles, i privati, la Regione, il Comune, uno sforzo estenuante che si sovrappone al lavoro quotidiano - e perché per Imola, 68mila abitanti, il 10% stranieri, sono diventati un punto di riferimento imprescindibile, uno spazio protetto, cresciuto nel cuore del paese, che offre accoglienza, ascolto, opportunità e ospitalità. Vi aiuta questo governo? «Il governo Renzi, dici?». Lui. «Ma per carità, lasciamo stare. Però in Regione c’è grande sensibilità».
Trama di Terre
Di fianco alla biblioteca interculturale, piena di libri in inglese e francese, Giulia D’Odorico organizza la giornata assieme a una mediatrice culturale. Il problema del momento è come recuperare delle posate per una delle case e poi fissare l’appuntamento con un dentista per una madre e per il suo bambino. Ci si occupa di tutto, «dall’ago all’elefante» dicono in Romagna, e intanto ci si preoccupa di chiarire che lo si fa per una scelta di campo. «Una scelta politica», precisa Tiziana. «O si parte dal presupposto che la violenza di genere è un fatto e non si può risolvere con interventi emergenziali o non si va da nessuna parte». I centri rimangono il bastione più solido del femminismo. «Esatto, femministe. Guarda il nostro cartello. Dice: leali, orgogliose, grassottelle, pacifiste, intellettuali, operaie, belle, orgogliose, giovani, etero, lesbiche. E non sai per questa parola “lesbiche” le battaglie che abbiamo dovuto fare». Si siede in una stanza di lavoro assieme ad Alessandra Davide, responsabile del centro antiviolenze, versa nei bicchieri una bevanda allo zafferano e racconta di una signora settantenne, italiana, che dopo trent’anni di violenze ha bussato alla loro porta. «Il marito l’ha sempre menata. Ma quando le forze gli sono venute meno si è concentrato sulla violenza psicologica. Fai schifo, non sai cucinare, sei una madre di m.... Bene, questa signora è venuta e ci ha detto: per anni mi ha picchiata. E adesso vuole farmi passare da pazza. E io non ci sto più». Viene voglia di festeggiare.
C’è un caldo che squaglia in questo martedì di luglio, Nel cortile donne con bambini. Italiane e africane. Schiamazzi che arrivano dalla strada. «Serve un salto culturale. E una maggiore integrazione con le istituzioni che si occupano di donne. I servizi sociali, per esempio, che hanno un approccio neutro, e anche con gli ospedali, con i pronto soccorso», dice Alessandra. Cioè? «Spesso si confonde il conflitto con la violenza. Il conflitto è fisiologico, la violenza - fisica o psichica - è patologica e inaccettabile. A quel punto è assurdo sentire parlare dell’importanza della bi-genitorialità, come tendono a fare i servizi, o addirittura vedere il tentativo di arrivare all’affido condiviso dei bambini. La donna va difesa. E con lei i bambini, che pagano costi altissimi. Quanto agli ospedali mi limito a osservare un dato: lo scorso anno, a Imola, 142 donne sono state ricoverato a seguito di maltrattamenti accertati. Sai quante sono arrivate al centro? Una». Tiziana la pensa come lei. «Siamo in un Paese condizionato dalla Chiesa cattolica e spesso nei pronto soccorso, quando arriva una donna violentata, le danno il farmaco contro l’Aids, ma la pillola del giorno dopo no. Fanno obiezione di coscienza. In ginecologia otto medici su dieci. C’è una legge dello Stato. Ma loro non la applicano. Chiedi al San Camillo di Roma per capire».
Obiezione di coscienza
Il San Camillo, allora, dove il reparto che accoglie le donne decise a interrompere la gravidanza è in un seminterrato al quale si accede da una scaletta esterna. «Come se ci fosse un problema di cattiva coscienza», dice la psicologa Augusta Angelucci. Eppure qui arrivano donne da tutta Italia. «Stamattina abbiamo incontrato dodici ragazze. Solo due di Roma. Le altre sono arrivate da Viterbo o da Latina. Ma spesso incontriamo ragazze siciliane o della Basilicata». Il perché è semplice: a casa loro l’interruzione di gravidanza, prevista dalla legge 194, non viene praticata. I medici non vogliono. E se anche vogliono trovano primari che glielo impediscono. «Le sembra folle? E’ il caso di un mio collega con cui ero al telefono poco fa», dice Giovanna Scassellati, primaria del reparto. «Dunque noi facciamo quindici aborti al giorno. Tremila in un anno. E lavoriamo come dei pazzi perché tra il diritto della donna e quello del medico obiettore secondo lo Stato vale più quello del medico obiettore. Ma sono convinta che si ci fosse un piccolo incentivo economico i medici obiettori si ridurrebbero di colpo. Pensi che quando per un mio problema personale sembrava che il mio posto fosse disponibile, quattro colleghi obiettori hanno firmato un foglio per dire che non lo erano più. Buffo no?». Un problema culturale? «Un problema culturale grande come un palazzo», dice Angelucci.
Casa Fiorinda
Nord, centro, sud. La violenza non fa distinzione geografiche o di censo. I ricchi menano e offendono quanto i poveri. Tania Castellaccio, operatrice della cooperativa sociale Dedalus e di Casa Fiorinda a Napoli, racconta la storia di una proprietaria terriera, madre di quattro figli sposata con un ricco imprenditore. Lui la picchiava. Lei non voleva esporre la famiglia alla vergogna. Il marito la offendeva, spalleggiato dai due figli più grandi e lei ha trovato la forza di rivolgersi a Casa Fiorinda solo quando la figlia e il figlio dodicenne le hanno detto: mamma, andiamo via. «E’ venuta da noi. Si è rivolta a un giudice e ora è rifiorita». Ad appassire è stata Casa Fiorinda. «Finito l’ultimo progetto non c’erano più i soldi. O meglio c’erano - ci sono - ma incastrati in qualche pastoia burocratica che vede contrapporsi lo Stato, la Regione e il Comune. Ma a pagare siamo noi. E le donne di Fiorinda, che ora sono state ricollocate in un centro di Pozzuoli gestito da un attivista pro life. I fondi non possono finire a chi non mette il bene delle donne in cima alle priorità», dice Lella Palladino, una delle più note femministe campane. «Con Eva, la mia cooperativa, abbiamo assistito più di mille donne. Soldi pubblici zero. Ce li facciamo dare dalle multinazionali, che così si lavano un po’ la coscienza».
Sorride. Ma l’assenza dello Stato le fa male. «Gli interventi pubblici sono sempre a progetto. Così quando ne finisci uno non sai mai se potrai cominciarne un altro. Ma la violenza non si ferma. Anche se lo Stato non se ne accorge e. Però non ci fermiamo neanche noi». Si alza. E abbraccia Tania che dice. «Casa Fiorinda è stata dedicata a una donna ammazzata a colpi d’ascia. Le pare che possiamo tirarci indietro?».